Censura e libertà di espressione

Nel 2017, prima, e poi nel 2019, gli autori Tom Secker e Matthew Alford hanno ottenuto documenti declassificati della CIA, del Dipartimento della Difesa USA e del National Security Agency che descrivono in dettaglio sino a che punto queste istituzioni si coinvolgevano nei progetti filmici USA

Ernesto Estévez Rams  www.granma.cu

Quando il produttore di James Bond Harry Saltzman sembrava dare a Costa-Gavras, dopo il suo primo successo, un assegno in bianco, dicendo: “Che film vuoi fare?”, questi gli ha risposto: La condizione umana, di André Malraux. L’uomo ha sbottato proprio lì: «Cosa? Ci vogliono molto cinesi, non si può” per chiudere il tema con una risata.

Costa Gavras confessa che a quel tempo era interessato a film proprio sulla condizione umana, sulle rivoluzioni, le lotte quotidiane, il movimento operaio, i sindacati. Ad un certo punto ha lavorato al progetto di realizzare un lungometraggio sullo stesso Malraux, già allora ministro della cultura di D’Gaulle.

Ci sono temi che non fanno ridere, né sono per quella scuola di cinema che dà vita all’agente 007. È rischioso dire quest’ultimo quando si pensa a Malraux, un uomo la cui lista di atti coraggiosi, durante la resistenza francese e prima di essa, lo rendono materiale da leggenda perfetto per la creatività letteraria di Ian Fleming. Tuttavia, non riesco a immaginare Bond scrivendo qualcosa come ‘La condizione umana’. C’è troppa filosofia a buon mercato nel personaggio anglosassone, caricatura del superuomo di Nietzsche. Tanto meno vedo Bond finire per essere il ministro della cultura di qualcuno, non importa se del caudillo francese o se di Josef Stalin.

C’è un’altra ragione più importante che differenzia i personaggi di Malraux da Bond, i primi cercano disperatamente (inutilmente?) la simultanea redenzione e comprensione del senso dell’essere di fronte all’incommensurabile angoscia di dover uccidere; il secondo assume a sua condizione di esistenza una qualità bruta di assassino cortese. È noto che in origine il personaggio di Bond doveva essere un’arma goffa, priva di sofisticatezza, con la mera funzione di assassinare su ordine di un altro. Quella licenza di uccidere è in realtà una licenza di eseguire ordini di omicidio e prendersi qualcun’altra macabra libertà.

Il direttore-fondatore della CIA, Allen Dulles, era amico di Ian Fleming. Dopo la debacle di Playa Girón, l’agenzia si è rivolta alla quarta puntata dei film della serie dell’agente 007, Thunderball (1965), un’operazione di pubbliche relazioni per migliorare la propria immagine. Ha introdotto un personaggio, Felix Leiter, agente della CIA, come un personaggio empatico. L’agente simpatico, impiegato dall’agenzia che promuove colpi di stato e omicidi politici in tante parti del mondo, dura sino ad oggi.

Nel 2017, prima, e poi nel 2019, gli autori Tom Secker e Matthew Alford hanno ottenuto documenti declassificati della CIA, del Dipartimento della Difesa USA e del National Security Agency che descrivono in dettaglio sino a che punto queste istituzioni si coinvolgevano nei progetti filmici USA

La lista arriva ai mille titoli, tra materiali per cinema e televisione, includendo molti dei prodotti più iconici della filmografia USA.

Secondo Secker e Alford, in molti casi, se ci sono “personaggi, scene o dialoghi che il Pentagono non approva, i realizzatori devono apportare modifiche per soddisfare le richieste dei militari”. All’estremo, “i produttori devono firmare contratti – accordi di assistenza alla produzione – che li leghino a una versione del copione approvata dai militari”. Per rendere ancora più interessante la realtà, nella maggior parte dei casi, gli accordi raggiunti e l’intervento degli agenti del governo USA in un prodotto cinematografico sono riservati, protetti da corrispondenti contratti. Non è che a loro piaccia che si sappia in giro che provengano da censori sistemici, i difensori pubblici della libertà di espressione: non è felice combinazione sostenere i propri dipendenti o cooptati in altre geografie come vittime della censura e, allo stesso tempo, compaiono tagliando scene di film perché la sfumatura è contraria alla macchina imperiale.

In GoldenEye, il debutto di Brosnan come agente 007, un incompetente ammiraglio yankee, che viene ucciso dai cattivi, non è stato di gradimento dei militari; come conseguenza, la nazionalità dell’infelice personaggio è stata cambiata in canadese e così è apparsa nel prodotto finale. In Tomorrow Never Dies, un’altra puntata della saga della spia britannica, alcune scene sono state modificate o rimosse per compiacere i censori in uniforme. La CIA è più sottile (ci mancherebbe!), a volte inserendo i propri dipendenti nella stesura dei copioni per non doverla tagliare successivamente.

Ma al di là di determinati aneddoti, il coinvolgimento delle agenzie imperiali è più sistematico che tagliare scene o alterare copioni. Non si tratta solo che “l’idea di usare il cinema per incolpare degli errori agenti isolati, corrotti o mele marce, evitando in tale maniera qualsiasi nozione di responsabilità penale sistematica, istituzionale, è direttamente tratta dai manuali della CIA e del Pentagono”, come affermano Secker e Alford.

Le agenzie dell’imperialismo  conferiscono  all’intrattenimento made in USA un ruolo importante nel proprio impegno nella guerra culturale dentro e fuori del proprio paese. L’involucro della sua egemonia culturale è tale che ogni tentativo di limitare la circolazione delle sue produzioni in qualche paese viene rapidamente attaccato come censura inaccettabile, totalitarismo e azione orwelliana, mentre negli USA i prodotti cinematografici stranieri hanno, nella maggior parte dei casi, una circolazione così limitata da risultare effettivamente invisibili. Per non parlare del fatto che ricevono apprezzabile tempo sullo schermo materiali stranieri che descrivano il volto imperiale della propria politica estera.

Non si tratta, d’altronde, della cosa più ovvia, la sottigliezza è più pericolosa. In molti casi, il più delle volte, non si tratta di un complotto diabolico per lusingare il pubblico, basta che il materiale culturale sia parte organica della riproduzione simbolica del sistema in cui viene prodotto. Se lo sceneggiatore, il produttore, il direttore ed il realizzatore siano imbevuti della convinzione della superiorità culturale della loro società, non è necessaria una mano evidente che lo forzi, la strumentalizzazione colonizzatrice del prodotto avverrà senza interventi orwelliani.

L’ossessione cubana nella saga della spia è segnata in almeno tre film, di tre epoche diverse. Nell’era più recente del franchise, iniziata con Pierce Brosnan, una delle puntate ci mostra scene in una Cuba tropicale con strutture di spionaggio di assurda sofisticazione. Apice del ridicolo fare in modo che l’eroe donnaiolo abbia una scena di sesso in una casa cliché sulla spiaggia, non sotto la protezione dell’aria condizionata, bensì di fiamme di un focolare, ricetta perfetta per un infarto bagnato.

Per riaffermare l’ossessione, il recente debutto dell’ultima installazione dell’agente 007, che conclude il segmento di Daniel Craig, a cui va riconosciuto aver dato nuova vita al personaggio con la sua qualità recitativa, quasi all’inizio ha le sue scene cubane, in questo caso si suppone sia Santiago de Cuba. Disegnate dai soliti luoghi comuni quando si tratta di riflettere Cuba nei prodotti inscatolati della cinematografia commerciale. Chissà se un giorno scopriremo scene tagliate e costrizioni al copione da parte di efficienti censori, paladini della libertà di espressione finché non si tratta di loro. Forse no, dopotutto, quei contratti di riservatezza possono essere molto persuasivi.


Censuras y libertad de expresión

 En 2017 primero, y luego en 2019, los autores Tom Secker y Matthew Alford obtuvieron documentos desclasificados de la CIA, el Departamento de Defensa de los EE. UU. y la Agencia Nacional de Seguridad detallando hasta qué punto estas instituciones se involucraban en los proyectos fílmicos norteamericanos

Autor: Ernesto Estévez Rams

Cuando el productor de James Bond, Harry Saltzman, pareció extenderle a Costa-Gavras, luego de su primer éxito, un cheque en blanco, al decirle: «¿Qué película quieres hacer?», este le contestó: La condición humana, de André Malraux. El hombre se rajó ahí mismo: «¿Qué? Hacen falta muchos chinos, no se puede» para cerrar el tema con una risa.

Costa Gavras confiesa que en aquel entonces le interesaban películas precisamente sobre la condición humana, sobre revoluciones, luchas cotidianas, el movimiento obrero, los sindicatos. En algún momento trabajó el proyecto de hacer un largometraje sobre el propio Malraux, ya entonces ministro de cultura de D’Gaulle.

Hay temas que no son de risa, tampoco son para esa escuela de hacer cine que da vida al agente 007. Es arriesgado decir eso último cuando se piensa en Malraux, un hombre cuya lista de actos bravíos, durante la resistencia francesa y antes de ella, lo hacen material de leyenda perfecto para la creatividad literaria de Ian Fleming. Sin embargo, no me imagino a Bond escribiendo algo como La condición humana. Hay en el personaje anglosajón demasiada filosofía barata, caricatura del superhombre de Nietzsche. Mucho menos veo que Bond termine siendo ministro de cultura de nadie, no importa si es del caudillo francés, o si es de Josef Stalin.

Hay otra razón más importante que diferencia a los personajes de Malraux de Bond, los primeros buscan con desespero (¿inútil?) la simultánea redención y comprensión del sentido de ser frente a la angustia inconmensurable de tener que matar; el segundo asume a su condición de existencia una cualidad bruta de asesino cortés. Es conocido que originalmente el personaje de Bond debía ser un arma roma, carente de sofisticación, con la mera función de asesinar por las órdenes de otro. Esa licencia para matar, realmente es licencia para cumplir las órdenes de asesinato y tomarse alguna que otra libertad macabra.

El director-fundador de la CIA, Allen Dulles, era amigo de Ian Fleming. Luego de la debacle de Playa Girón, la agencia buscó en la cuarta entrega de las películas de la serie del agente 007, Thunderball (1965), una operación de relaciones públicas para mejorar su imagen. Introdujo un personaje, Félix Leiter, agente de la CIA, como un personaje empático. El agente simpático, empleado de la agencia promotora de golpes de Estado y asesinatos políticos en tantas partes del mundo, dura hasta el día de hoy.

En 2017 primero, y luego en 2019, los autores Tom Secker y Matthew Alford obtuvieron documentos desclasificados de la CIA, el Departamento de Defensa de los EE. UU. y la Agencia Nacional de Seguridad detallando hasta qué punto estas instituciones se involucraban en los proyectos fílmicos norteamericanos.

La lista llega a los mil títulos, entre materiales para cine y televisión, incluyendo muchos de los productos más icónicos de la filmografía norteamericana.

Según Secker y Alford, en muchos casos, si hay «personajes, escenas o diálogos que el pentágono no aprueba, los realizadores tienen que hacer cambios para acomodar las demandas de los militares». En el extremo, «los productores tienen que firmar contratos –acuerdos de asistencia a la producción– que los atan a una versión del libreto aprobada por los militares». Para hacer la realidad más interesante aún, en la mayoría de los casos, los acuerdos alcanzados y la intervención de los agentes del Gobierno de EE. UU. en un producto fílmico es confidencial, protegido por correspondientes contratos. No es que les guste que se sepa por ahí que andan de censores sistémicos, los defensores públicos de la libertad de expresión: no es feliz combinación apoyar a sus empleados o cooptados en otras geografías como víctimas de la censura, y a la vez aparecer cortando escenas de películas porque el matiz es contrario a la maquinaria imperial.

En GoldenEye, el estreno de Brosnan como agente 007, un almirante yanqui incompetente, que es asesinado por los malos, no fue del agrado de los militares; como consecuencia, la nacionalidad del infeliz personaje cambió a canadiense y así apareció en el producto final. En Tomorrow Never Dies, otra entrega de la saga del espía británico, algunas escenas fueron alteradas o eliminadas para complacer a los censores uniformados. La CIA es más sutil (¡no faltaba más!), en ocasiones inserta sus propios empleados en la escritura de los libretos para no tener que pasar cuchilla después.

Pero más allá de determinadas anécdotas, el involucramiento de las agencias imperiales es más sistemático que cortar escenas o alterar guiones. No se trata solo de que «la idea de usar el cine para culpar de los errores a agentes aislados, corruptos o malas manzanas, evitando de esa manera cualquier noción de responsabilidad criminal sistemática, institucional, es directamente sacada de los manuales de la CIA y el pentágono», como afirman Secker y Alford.

Las agencias del imperialismo otorgan al entretenimiento made in U.S. un papel importante en su empeño de guerra cultural dentro y fuera de su país. La envoltura de su hegemonía cultural es tal que cualquier empeño de limitar la circulación de sus producciones en algún país es rápidamente asaltada como censura inaceptable, totalitarismo y acción orwelliana, mientras en EE. UU. los productos fílmicos extranjeros, tienen, en la mayoría de los casos, una circulación tan limitada que son efectivamente invisibles. Ni hablar de que reciban tiempo de pantalla apreciable materiales foráneos que describan la cara imperial de su política exterior.

No se trata, además, de lo más obvio, la sutileza es más peligrosa. En muchos casos, la mayor parte de las veces, no se trata de una conspiración diabólica para engatusar al público, basta con que el material cultural sea parte orgánica de la reproducción simbólica del sistema donde se produce. Si el guionista, el productor, el director y el realizador están embebidos en la convicción de la superioridad cultural de su sociedad, no se necesita una mano evidente que lo fuerce, la instrumentalización colonizadora del producto ocurrirá sin intervenciones orwelianas.

La obsesión cubana en la saga del espía es marcada en al menos tres filmes de tres épocas distintas. En la época más reciente de la franquicia, que comenzó con Pierce Brosnan, una de las entregas nos muestra escenas en una Cuba tropical con instalaciones de espionajes de una sofisticación absurda. Corona el ridículo el hacer que el mujeriego héroe tenga una escena de intercambio sexual en una casa cliché en la playa, no bajo la protección del aire acondicionado, sino de llamas de un hogar, receta perfecta para un infarto húmedo.

Para reafirmar la obsesión, la recién estrenada última instalación del agente 007, que finaliza el segmento de Daniel Craig, a quien hay que reconocerle haberle dado al personaje nueva vida con su calidad actoral, casi al comienzo tiene sus escenas cubanas, en este caso se supone que de Santiago de Cuba. Diseñadas desde los consabidos lugares comunes cuando se trata de reflejar a Cuba en los productos enlatados de la cinematografía comercial. Quién sabe si algún día nos enteraremos de escenas cortadas y torceduras de brazos al guion por parte de los eficientes censores, paladines de la libertad de expresión siempre que no se trate de ellos. Quizá no, después de todo, esos contratos de confidencialidad pueden ser muy persuasivos.

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