la politica estera della Casa Bianca da Trump a Biden
Dalia González Delgado www.cubadebate.cu
“Vertice per la ricostruzione della leadership USA” potrebbe essere il nome del “Vertice per la Democrazia” convocato dal presidente Joe Biden per il 9-10 dicembre. In uno scenario di transizione e in un nuovo contesto geopolitico, la politica estera della Casa Bianca sembra arrampicarsi sugli specchi e ignorare una crisi di egemonia tanto reale quanto inarrestabile.
Dalla sconfitta in Afghanistan sino alle trasformazioni nello scenario latinoamericano, passando per il consolidamento della Cina come potenza globale e la pandemia di COVID-19, Biden ha dovuto affrontare numerose sfide alla guida di un paese che cerca preservare, a tutti i costi, la propria posizione nel sistema internazionale.
“America is back” (Gli USA sono tornati) ha detto all’inizio di quest’anno, in uno dei suoi primi discorsi da presidente. “La diplomazia torna al centro della nostra politica estera”. Ha anche assicurato che gli USA avrebbero riparato le loro alleanze e si sarebbero “compromessi” con il mondo.
Quelle promesse erano coerenti con quella che era stata la sua campagna elettorale, e quell’immagine di Anti-Trump con cui si è presentato agli statunitensi e al mondo. In un articolo pubblicato nel 2020 -in piena competizione per la Casa Bianca- sulla rivista Foreign Affairs, Biden aveva scritto che Trump aveva diminuito la credibilità e l’influenza degli USA, e la sua missione era riparare i danni per far sì che il suo paese “guidasse il mondo ancora una volta”.
Quella frase ambigua, in linea con la tradizionale politica estera USA, può essere interpretata in molti modi. Ma in pratica, quanto Biden ha trasformato l’eredità di Trump?
Come ho spiegato nei commenti precedenti in questo spazio, gli USA vivono una profonda crisi politica che trascende il cambio di presidente. Il perdurare della crisi sanitaria, l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio, l’aumento dell’estremismo ideologico e della violenza politica, la sostenuta crescita della disuguaglianza e della polarizzazione, il razzismo sistemico, la sfiducia nel suo sistema elettorale e la corruzione in quell’area sono alcuni dei segnali.
Tutto questo può essere letto come un fallimento del modello di democrazia liberale USA, che già di per sé racchiude le limitazioni proprie del predominio delle élite. Allo stesso tempo, ci sono settori tra le élite che non accettano la decadenza relativa degli USA e affermano che i suoi problemi e fallimenti sono il risultato di presidenti deboli.
Tutto quanto sopra incide sul disegno e sull’attuazione della politica estera, se comprendiamo che si tratta di una politica pubblica che, come tale, è condizionata da determinate dinamiche interne.
Dobbiamo aggiungere qui i meccanismi di funzionamento del sistema di governo, e l’interrelazione della Casa Bianca con il Congresso e le Corti Federali. Tutto questo, inoltre, in uno scenario mondiale che cambia, dove gli USA hanno cessato di essere l’unica voce di primo piano, sebbene quell’idea non neghi il suo potere militare ed economico.
In effetti, tale potere gli consente di sostenere una politica di sanzioni contro altri paesi. Questa forma di punizione a nazioni sovrane è uno dei principali punti di continuità rispetto all’amministrazione di Donald Trump. A Cuba lo sappiamo, come lo sanno venezuelani, russi, iraniani e altri che Washington percepisce come rivali.
Sebbene a prima vista sembri contraddittorio, alcuni autori segnalano che queste misure coercitive unilaterali sono un sintomo della perdita dell’egemonia USA.
Se lo intendiamo in termini Gramsciani, come dominio più consenso, è evidente che gli USA hanno perso la capacità di cooptazione che avevano nei decenni precedenti. Per questo, la sua necessità di utilizzare altri meccanismi di pressione che, sebbene nella maggior parte dei casi, non raggiungano i loro obiettivi, sì colpiscono milioni di persone.
E qui voglio aggiungere un punto chiave. La perdita d’egemonia USA, insieme all’emergere di altre potenze, non significa necessariamente che il mondo andrà a convertirsi automaticamente in un luogo migliore. Infatti, il multipolarismo può aumentare i conflitti, a seconda di come ogni potenza interpreti quale deve essere il proprio posto nel concerto delle nazioni.
Tenendo conto di tutto quanto sopra, il Vertice per la Democrazia può essere interpretato come un tentativo di ricostruire alleanze e rinnovare la leadership perduta ed, allo stesso tempo, mascherare le molteplici crisi che Biden affronta.
Persino la pandemia di COVID-19 ha dato agli USA un’opportunità di “distinguersi” come leader mondiale che pretende essere. Ma il risultato è che non sono neppure riusciti a contenere la trasmissione all’interno dei loro confini, tanto meno contribuire attivamente al suo declino nel mondo. Paesi che loro percepiscono come rivali, come Cina, Cuba o Russia, hanno fatto più degli USA per contenere la malattia globale.
Per questo i temi del Vertice non sono la pandemia, i vaccini o le disuguaglianze nell’accesso a sistemi sanitari di qualità, bensì la “democrazia”, i ”diritti umani” e la “lotta contro la corruzione”. Sebbene questi non siano temi su cui Biden possa dar lezione, sono più in sintonia con quello che è stato il suo discorso come candidato e presidente.
Uno degli aspetti più criticati è stata la lista degli invitati. Guaidó ma non il Venezuela, Taiwan e non la Cina, neppure Russia, Cuba, Bolivia, Nicaragua, El Salvador, Honduras, Guatemala. Al vertice, che si realizzerà in forma virtuale, assisteranno appena un centinaio di paesi. Significa che il resto non sono “democratici” secondo gli standard di Washington?
Fin dall’inizio della sua storia, gli USA hanno dato chiari segnali di aspirazioni all’espansione territoriale e al dominio regionale e globale. E questa è stata la sua politica estera: la ricerca, costruzione e mantenimento dell’egemonia mondiale, che è parte indissolubile del suo progetto nazionale e del modo in cui gli statunitensi si vedono. “Capi del mondo libero”, se fossimo in un film di Hollywood.
Se pensiamo alle cose da questa prospettiva capiremo meglio, ad esempio, i rapporti con Cuba. Il conflitto scatenatosi dal 1959 ha radici profonde che hanno a che fare con contraddizioni antagonistiche tra due progetti nazionali: uno imperialista, di dominio globale, da parte USA, e uno di sovranità, da parte della Cuba.
Potrebbero esserci migliori relazioni di quelle che abbiamo in questo momento; abbiamo infatti attraversato diverse fasi con momenti di maggiore o minore esacerbazione del conflitto, e la storia ha dimostrato che il dialogo e la cooperazione su temi di interesse comune è possibile; ma ci sono cose che non cambieranno mai finché entrambi i paesi difenderanno i rispettivi progetti di nazione.
Questa analisi è valida per qualsiasi paese che cerchi un cammino di sovranità di fronte agli USA, ancor più se si trova geograficamente collocato in America Latina e nei Caraibi, come Venezuela o Nicaragua nel contesto attuale. Questo progetto di dominio si scontra anche con l’emergere di altre potenze, come Cina, Russia e altri attori regionali.
Pertanto, il cosiddetto Vertice per la Democrazia deve essere interpretato come parte del disegno di una politica estera che affronta una crisi di egemonia, e cerca di ricostruire la leadership USA con elementi di cambiamento e continuità rispetto alla precedente amministrazione.
De democracia, cumbres y poder: La política exterior de la Casa Blanca de Trump a Biden
Por: Dalia González Delgado
“Cumbre para la reconstrucción del liderazgo estadounidense” podría ser el nombre de la “Cumbre para la Democracia” que convocó el presidente Joe Biden para los días 9 y 10 de diciembre. En un escenario de transición y un nuevo contexto geopolítico, la política exterior de la Casa Blanca parece dar patadas de ahogado e ignorar una crisis de hegemonía tan real como indetenible.
Desde la derrota en Afganistán hasta transformaciones en el escenario latinoamericano, pasando por la consolidación de China como potencia global y la pandemia de COVID-19, Biden ha tenido que enfrentar numerosos desafíos al frente de un país que busca preservar a toda costa su posición en el sistema internacional.
“America is back” (Estados Unidos está de vuelta), dijo a comienzos de este año, en uno de sus primeros discursos como presidente. “La diplomacia está de vuelta en el centro de nuestra política exterior”. También aseguró que Estados Unidos repararía sus alianzas y se “comprometería” con el mundo.
Esas promesas eran consistentes con lo que había sido su campaña electoral, y aquella imagen de Anti-Trump con la que se presentó a los estadounidenses y al mundo. En un artículo publicado en 2020 –en plena competencia por la Casa Blanca– en la revista Foreign Affairs, Biden escribió que Trump había disminuido la credibilidad e influencia de Estados Unidos, y su misión era reparar el daño para hacer que su país “liderara al mundo una vez más”.
Esa frase ambigua, en línea con la política exterior tradicional estadounidense, puede ser interpretada de muchas maneras. Pero en la práctica, ¿cuánto ha transformado Biden el legado de Trump?
Como he venido explicando en comentarios anteriores en este espacio, Estados Unidos vive una crisis política profunda que trasciende el cambio de presidente. La permanencia de la crisis sanitaria, el asalto al Capitolio el 6 de enero, el aumento del extremismo ideológico y la violencia política, el crecimiento sostenido de la desigualdad y la polarización, el racismo sistémico, la desconfianza en su sistema electoral y la corrupción en ese ámbito, son algunas de las señales.
Todo eso puede ser leído como una quiebra del modelo de democracia liberal estadounidense, que ya de por sí encierra las limitaciones propias del predominio de las élites. Al mismo tiempo, hay sectores entre las élites que no aceptan la decadencia relativa de Estados Unidos y afirman que sus problemas y fracasos son resultado de presidentes débiles.
Todo lo anterior afecta el diseño y la implementación de la política exterior, si entendemos que se trata de una política pública que como tal está condicionada por ciertas dinámicas internas.
Hay que añadir aquí los mecanismos de funcionamiento del sistema de gobierno, y la interrelación de la Casa Blanca con el Congreso y las Cortes Federales. Todo ello, además, en un escenario mundial cambiante, donde Estados Unidos dejó de ser la única voz líder, aunque esa idea no niega su poderío militar y económico.
De hecho, ese poderío les permite sostener una política de sanciones contra otros países. Esa forma de castigo a naciones soberanas es uno de los principales puntos de continuidad con respecto a la administración de Donald Trump. En Cuba lo sabemos, como lo saben venezolanos, rusos, iraníes, y otros que Washington percibe como rivales.
Aunque parezca a primera vista contradictorio, algunos autores señalan que esas medidas coercitivas unilaterales son un síntoma de la pérdida de hegemonía estadounidense.
Si la entendemos en términos Gramscianos, como dominación más consenso, es evidente que Estados Unidos perdió la capacidad de cooptación que tenía en décadas anteriores. Por eso, su necesidad de emplear otros mecanismos de presión, que si bien no logran sus objetivos en la mayoría de los casos, sí afectan a millones de personas.
Y aquí quiero añadir un punto clave. La pérdida de hegemonía de Estados Unidos junto a la emergencia de otras potencias, no significa necesariamente que el mundo vaya a convertirse automáticamente en un lugar mejor. De hecho, el multipolarismo puede aumentar los conflictos, en dependencia de cómo cada potencia interprete cuál debe ser su lugar en el concierto de naciones.
Tomando en cuenta todo lo anterior, la Cumbre para la Democracia puede ser interpretada como un intento por reconstruir alianzas y renovar el liderazgo perdido, y al mismo tiempo enmascarar las múltiples crisis a las cuales se enfrenta Biden.
Incluso la pandemia de COVID-19 dio a Estados Unidos una oportunidad para “destacarse” como el líder del mundo que pretende ser. Pero el resultado es que ni siquiera han logrado contener la transmisión dentro de sus fronteras, mucho menos contribuir activamente a su disminución en el mundo. Países que ellos perciben como rivales, como China, Cuba o Rusia, han hecho más que Estados Unidos por la contención de la enfermedad a nivel global.
Por eso, los temas de la Cumbre no son la pandemia, las vacunas o las desigualdades en el acceso a sistemas de salud de calidad, sino la “democracia”, los “derechos humanos” y la “lucha contra la corrupción”. Aunque no son asuntos sobre los cuales Biden pueda dar lecciones, están más a tono con lo que ha sido su discurso como candidato y presidente.
Uno de los aspectos más cuestionados ha sido la lista de invitados. Guaidó pero no Venezuela, Taiwán y no China, tampoco Rusia, Cuba, Bolivia, Nicaragua, El Salvador, Honduras, Guatemala. A la cita, que se realizará de forma virtual, asistirán apenas un centenar de países. ¿Significa que el resto no son “democráticos” según los estándares de Washington?
Desde muy temprano en su historia Estados Unidos dio señales claras de aspiraciones de expansión territorial y dominación regional y global. Y eso ha sido su política exterior: la búsqueda, construcción y mantenimiento de la hegemonía mundial, que es parte indisoluble de su proyecto nacional y de la manera en la cual los estadounidenses se ven a sí mismos. “Líderes del mundo libre”, si estuviéramos en una película hollywoodense.
Si pensamos las cosas desde esa perspectiva entenderemos mejor, por ejemplo, las relaciones con Cuba. El conflicto desatado a partir de 1959 tiene raíces profundas que tienen que ver con contradicciones antagónicas entre dos proyectos nacionales: uno imperialista, de dominación global, por parte de Estados Unidos, y uno de soberanía, por parte de Cuba.
Podría haber mejores relaciones que las que tenemos ahora mismo; de hecho, hemos pasado por diferentes etapas con momentos de mayor o menor agudización del conflicto, y la historia ha demostrado que es posible el diálogo y la cooperación en temas de interés común, pero hay cosas que nunca van a cambiar en tanto ambos países defiendan sus respectivos proyectos de nación.
Ese análisis es válido para cualquier país que busque un camino de soberanía frente a Estados Unidos, más aún si se encuentra geográficamente ubicado en América Latina y el Caribe, como Venezuela o Nicaragua en el contexto actual. Ese proyecto de dominación choca también con la emergencia de otras potencias, como China, Rusia y otros actores regionales.
Así, la llamada Cumbre para la Democracia hay que interpretarla como parte del diseño de una política exterior que se enfrenta a una crisis de hegemonía, y busca reconstruir el liderazgo estadounidense con elementos de cambio y continuidad con respecto a la administración anterior.