José Ramón Cabañas Rodríguez www.cubadebate.cu
In conversazioni con vicini, esperti, giovani e seguendo il filo della nostra stampa nazionale, è comune sentire la valutazione (vera tra l’altro) che si è prodotto un brutale attacco degli USA contro Cuba negli ultimi anni. Sono stati utilizzati numerosi argomenti che rendono innegabile tale affermazione, le prove sono ovunque.
Tuttavia, sarebbe utile soffermarsi su una piccola domanda quando si valutano gli eventi recenti: è un’offensiva contro il nostro paese, o una “controffensiva”? E molti lettori diranno, chi se ne frega, fa lo stesso danno! Anche questa affermazione è corretta, ma dal punto di vista politico sarebbe in qualche modo utile analizzare quale dei due concetti caratterizza meglio ciò che è accaduto, perché la risposta può avere implicazioni future.
Già in altre occasioni si è detto che il livello di intensità dello scontro con Cuba durante gli anni di Trump non è stato costante, registrando le sue note più alte negli ultimi dodici mesi. Ci sono anche coincidenze in quanto al fatto che il gruppo amorfo di funzionari e opportunisti che circondava l’impresario-presidente non ha elaborato una strategia politica dettagliata contro Cuba, bensì ha affidato l’ideazione e conduzione delle azioni principali ad una ridotta setta di politicanti ad alta componente cubano americana.
Tuttavia, ciò che si faceva contro Cuba era una componente che si inseriva, in modo preciso, nello scopo generale di cancellare dai libri di storia qualsiasi eredità significativa che potesse essere registrata al governo del primo presidente nero degli USA, Barack Obama. Aveva anche relazione con la politica di stato consensuale contro l’isola da lungo tempo. Ma ci sono prove che le retrocessioni nella questione cubana non sono state così marcate tra il 2017 e il 2018, come è risultato a partire dalla seconda metà del 2019.
Nonostante la direttiva presidenziale su Cuba firmata da Trump, nel giugno 2017, avesse l’intenzione di lasciare senza effetto l’analogo documento avallato da Obama alla fine del suo mandato, non ha tagliato improvvisamente un gruppo di tendenze in atto e nemmeno ha messo in discussione i 22 memorandum d’intesa, che erano stati firmati durante il processo di negoziazioni bilaterali.
Uno dei dati più significativi per avallare questa teoria è che, sebbene le agevolazioni per i collegamenti aerei e marittimi tra i due paesi fossero state create negli anni precedenti, è stato nel 2017, 2018 e 2019 quando sono stati registrati i principali volumi di viaggiatori dagli USA. Le cifre ufficiali erano rispettivamente 1001424, 1105801 e 1001391. Sebbene i totali si dividano quasi a metà tra viaggiatori USA e cubano-americani provenienti da quel mercato, nei primi due anni la maggioranza, con un margine ristretto, apparteneva al primo gruppo.
Per contro, nello stesso periodo si è verificato anche il maggior numero di viaggi all’estero di cubani residenti nell’isola (in generale), con un totale storico rispettivamente di 889542, 1111374 e 1307523. In un intervallo che si aggira intorno all’80%, in ogni caso, si trattava di viaggi negli USA, di cui oltre il 70% delle persone ha soggiornato per periodi inferiori a 24 mesi, cioè, non emigravano.
Cosa significavano queste cifre prese insieme? Beh, almeno due cose:
1-Sebbene il relativo cambio politico rispetto a Cuba fosse avvenuto negli anni precedenti, il movimento umano che ne è derivato si è verificato più tardi, nonostante la raffica di informazioni negative contro l’Isola che già cominciava a verificarsi e la messa in scena della novella degli “attacchi sonici”.
Almeno il 90% degli statunitensi che ritornavano da Cuba affermavano che c’è una differenza tra la realtà che avevano apprezzato e l’insegnamento ricevuto nelle scuole, o ciò che arrivava loro dal mondo virtuale della stampa e dalle reti sociali. Di quella percentuale, la maggioranza anche tornava con una visione favorevole del paese vicino, o almeno che non aveva trovato negli alberghi, o nelle case private, sul lungomare dell’Avana, o in vie vicine il “nemico” che intendeva attaccare la “democrazia americana”.
2-I numeri di viaggiatori cubano-americani, dal canto loro, mettevano in discussione, in certa misura, il discorso della controrivoluzione floridiana nel suo emporio naturale. E se parliamo della qualità dei viaggiatori, lo spettro di questi è arrivato sino a vecchi “combattenti anticastristi” senza legami terroristici, che sono venuti a riconnettersi con il proprio paese di origine, con la propria gente, che riconoscevano o meno, pubblicamente o no, che erano stati dalla parte sbagliata della storia, ma in qualche modo si sono riconciliati con se stessi e si sono sentiti molto più a loro agio durante un secondo e terzo viaggio. Anche il totale dei viaggiatori da qui a là ha trasmesso un messaggio simile: sono libero di andare là (USA) che dicono che “questo è complicato”, in riferimento ai limiti materiali.
Si possono mettere in relazione altri eventi molto importanti accaduti in quegli stessi anni, ma queste cifre che sono state citate nei paragrafi precedenti e il loro impatto sociale su entrambe le sponde hanno scosso, per la prima volta, le impalcature dell'”industria dell’odio” e l’intera struttura del finanziamento federale e privato che la sostengono da oltre 60 anni. Come vendere odio in una circostanza in cui si stava producendo un genuino contatto popolo a popolo ad un livello impensabile in passato? Come vendere l’immagine della “mancanza di diritti e libertà”, se i visitatori USA si felicitavano che i propri figli avessero una libertà notturna di cui non godevano nei loro luoghi di residenza al Nord?
Sebbene sia stato citato in altri testi, non è vano ricordare che quanto fin qui narrato è avvenuto in un contesto storico in cui si produceva un insolito scambio culturale, in cui diverse ONG e gruppi privati hanno organizzato i più massicci e ampi tour di artisti e intellettuali cubani per la geografia USA. Non solo per Miami, bensì per i circuiti veri, che vanno da New Orleans, a Los Angeles, Chicago, New York e la stessa Washington DC.
Erano gli anni in cui si approvavano più di 30 risoluzioni di grandi e piccole città chiedendo collaborazione con Cuba, 11 delle quali sul tema della salute. Nel 2017 Chicago, Illinois, ha visto coronare i suoi sforzi nel concretizzare il primo di questi accordi con la presenza di esperti cubani. Lo stesso anno (sotto Trump) è stato firmato e iniziato ad operare il primo accordo congiunto tra due istituzioni (Centro di Immunologia Molecolare e Roswell Park Cancer Center) dell’industria biofarmaceutica. Sono gli anni di un intenso scambio accademico e universitario, dove gli specialisti USA sono giunti ad essere la maggioranza delle rappresentanze straniere in eventi e congressi tenuti a Cuba, come è successo anche nella commemorazione per i 500 anni (novembre 2019) dell’Avana, quando il gruppo USA è stato il più numeroso tra i visitatori. In quel momento è stato firmato un accordo di cooperazione tra la città di New Orleans e la capitale cubana.
A metà del 2019 è successo qualcosa di molto vicino alla più pura tradizione politica USA, è stata ascoltata, nel sud della Florida, la voce di “siamo attaccati!”, per giustificare una reazione radicale contro lo stato di cose. La vicinanza al verificarsi di nuove elezioni, nel 2020, ha indotto la tribù legislativa dei cubano-americani che, se non ci fosse stato un “cambio fondamentale nelle circostanze”, avrebbero dovuto abbandonare l’affare che aveva aperto tante porte nella loro vite e iniziare a lavorare in modo tangibile, per la prima volta. Sebbene dopo il 2001 la controrivoluzione di origine cubana, con sede negli USA, abbia dovuto abbandonare il terrorismo come arma fondamentale della sua “lotta”, alla fine del secondo decennio del secolo XIX percepivano che rimanevano senza strumenti, né fondamenta.
Il resto della storia è nota: cambi nell’Ufficio del Consigliere per la Sicurezza Nazionale, nell’Ufficio del Direttore per l’America Latina dello stesso organismo, e un accordo tra un senatore della Florida e un presidente presuntuoso: “mi consegni completamente la politica verso Cuba e, in cambio, ti proteggo le spalle nel Comitato di Intelligence che presiedo”. Più o meno da qui c’è la genesi della maggior parte delle 243 misure contro Cuba che si sono affollate in poco tempo, in fretta, senza rispettare le sacrosante consultazioni inter-agenziali, senza rivedere quanto di ciò che è stato fatto pregiudicava o meno l’ “interesse nazionale” USA.
C’erano tre priorità assolute: “interrompere i viaggi, interrompere i viaggi e, inoltre, interrompere i viaggi”, cosa che avveniva “over night” (in una notte), letteralmente con i passeggeri a bordo delle navi o in volo sull’isola.
Inoltre, è stato autorizzato molto denaro, tutto il denaro possibile, quello dichiarato nel bilancio federale e quello nelle sezioni segrete, per montare una macchina di disinformazione su Cuba, che cancellasse tutto quello successo, che cambiasse il contenuto di ogni fatto, che sostituisse i ricordi di viaggiatori e anfitrioni, di emittenti e destinatari. Un macchinario che ha cambiato il Sole splendente con la tempesta e la pace relativa con la rivalità più aperta.
Il “contrattacco” doveva essere abbastanza massiccio affinché avesse lo stesso effetto del napalm sulla pelle del Vietnam ma questa volta sulla coscienza della gente comune. E insieme alla disinformazione, massicce misure più chirurgiche e puntuali: bussare alla porta di accademici e giornalisti che davano opinioni positive su Cuba; disapprovazione dei crediti agli uomini d’affari che avevano scoperto, sull’isola caraibica, un’opportunità e collocare uno scanner ideologico all’aeroporto di Miami per ogni artista cubano che arrivava, con un grande cartello che diceva: “se non ripeti il mio credo politico, qui non suoni, né canti, né guadagni”.
Per la prima volta, queste azioni e altre hanno avuto una dimensione di massa e ripetitiva nelle reti sociali con un impatto che certamente cercava di colpire il pubblico cubano, ma soprattutto i milioni di cittadini USA che avevano già conosciuto Cuba in prima persona. Una controrivoluzione con una rancida tradizione razzista e omofoba ha cominciato a cercare di muoversi persino negli spazi degli afrodiscendenti e nelle comunità LGTBQ ed ha trovato qualche credulone.
Ecco dov’erano quando apparve quel minuscolo attore che ha fatto tremare l’umanità: il SARS-CoV-2. Al culmine di febbraio o marzo 2020 c’era confusione, ma pochi giorni dopo è salito sul trono il pensiero di quello che è considerato il primo mondo economico ma in realtà è il terzo mondo intellettuale. Si è giunti rapidamente alla conclusione che Cuba non avrebbe resistito, che ci sarebbero state morti in massa, che il sistema sanitario sarebbe crollato, il che, insieme ad altre penurie provocate dall’estero, avrebbe finalmente portato alla tanto attesa “esplosione sociale”.
Questa era la versione data a Biden, nel 2021, dagli analisti del “deep state”, che questa volta affermavano di essere più vicini alla verità di quando Kennedy fu convinto a firmare il blocco, nel 1962, e Clinton ad accettare la filosofia della Legge Torricelli, nel 1992 .
Ma risulta che, nel 2022, e sembra che le cose vadano di 30 in 30 anni, Cuba è tornata a resuscitare dall’ultima zampata in modo inaspettato: producendo cinque dei suoi vaccini contro il COVID19, proteggendo quasi l’intera popolazione, esportando il proprio sapere a chi vuole condividerlo, avendo uno dei tassi di mortalità più bassi per milione di abitanti, essendo pioniera nell’immunizzazione dei minori, controllando largamente il rischio di apertura delle frontiere, mostrando un successo insolito rispetto a quello che viene definito la “quarta ondata”, con un ordine sociale adeguato.
Sappiamo che i contrattacchi della realtà virtuale continueranno, ma anche continueranno confondendo gli argomenti che si utilizzano, come accaduto in un recente passato con gli “attacchi sonici”, “le truppe in Venezuela”, la “rivolta generalizzata” e, in questi giorni, con i “processi ai minori”. Cuba e il suo popolo sono ben inseriti in una comunità internazionale dalla quale una parte degli USA si autoesclude. Non il contrario.
(Tratto da CIPI)
¿Ofensiva o “contraofensiva” de Estados Unidos contra Cuba?
Por: José Ramón Cabañas Rodríguez
En conversaciones con vecinos, expertos, jóvenes y siguiendo el hilo de nuestra prensa nacional, es común escuchar la valoración (cierta por demás) de que se ha producido una arremetida brutal de Estados Unidos contra Cuba en los últimos años. Se ha manejado una cantidad de argumentos que hacen innegable tal afirmación, las evidencias están por todas partes.
Sin embargo, sería útil detenerse en una pequeña pregunta al valorar los hechos recientes: ¿es una ofensiva contra nuestro país, o una “contraofensiva”? Y muchos lectores dirán, ¡qué más da, hace el mismo daño! Esa aseveración también es atinada, pero desde el punto político tendría cierta utilidad analizar cuál de los dos conceptos caracteriza mejor lo sucedido, porque la respuesta puede tener implicaciones futuras.
Ya en otras ocasiones se ha hablado de que el nivel de intensidad del enfrentamiento contra Cuba durante los años de Trump no fue constante, registrando sus notas más altas en los últimos doce meses. Hay coincidencias también en cuanto a que el grupo amorfo de funcionarios y oportunistas que rodeó al empresario-mandatario no elaboró una estrategia política detallada contra Cuba, sino que entregó la concepción y conducción de las acciones principales a una secta reducida de politiqueros con un alto componente cubanoamericano.
No obstante, lo que se hacía contra Cuba era un componente que encajaba de forma precisa en el propósito general de borrar de los libros de historia cualquier legado significativo que pudiera haber registrado el gobierno del primer presidente negro de los Estados Unidos, Barack Obama. También guardaba relación con la política de estado consensuada contra la Isla por largo tiempo. Pero hay evidencias de que los retrocesos en el tema cubano no fueron tan marcados entre el 2017 y 2018, como si resultó a partir de la segunda mitad del 2019.
A pesar de que la directiva presidencial sobre Cuba firmada por Trump en junio del 2017 tenía la intención de dejar sin efecto el documento similar refrendado por Obama a finales de su mandato, no cortó de golpe un grupo de tendencias que se venían produciendo y ni siquiera cuestionó los 22 memorandos de entendimiento, que se habían firmado durante el proceso de negociaciones bilaterales.
Uno de los datos más significativos para refrendar esta teoría es que, si bien las facilidades para las conexiones aéreas y por mar entre ambos países se habían creado en años precedentes, fue en el 2017, 2018 y 2019 cuando se registraron los principales volúmenes de viajeros desde Estados Unidos. Las cifras oficiales fueron de 1 001 424, 1 105 801 y 1 001 391, respectivamente. Aunque los totales se dividen casi a la mitad entre viajeros estadounidenses y cubanoamericanos desde ese mercado, en los dos primeros años la mayoría por escaso margen pertenecía al primer grupo.
En sentido contrario, la mayor cantidad de viajes de cubanos residentes en la Isla hacia el exterior (en general) se produjo también en el mismo período, con totales históricos de 889 542, 1 111 374 y 1 307 523, respectivamente. En un entorno que ronda el 80 % en cada caso, se trataba de viajes a Estados Unidos, de los cuales más del 70% de las personas permanecían por períodos de estancia inferiores a los 24 meses, es decir, no emigraban.
¿Qué significaban estas cifras tomadas de conjunto? Pues al menos dos cosas:
Si bien el cambio político relativo respecto a Cuba había sucedido en años precedentes, el movimiento humano como resultado del mismo estaba ocurriendo después, a pesar del barraje de información negativo contra la Isla que ya comenzaba a tener lugar y de la puesta en escena de la novela de los “ataques sónicos”.
Al menos el 90% de los estadounidenses que regresaban desde Cuba expresaban que había una diferencia entre la realidad que habían apreciado y la enseñanza recibida en las escuelas, o lo que les llegaba desde el mundo virtual de la prensa y las redes sociales. De ese por ciento también la mayoría regresaba con una visión favorable del país vecino, o de que al menos no habían encontrado ni en los hoteles, ni en las casas particulares, el malecón habanero, o en caminos vecinales el “enemigo” que pretendía atacar la “democracia americana”.
Las cantidades de viajeros cubanoamericanos por su parte cuestionaban en cierta medida el discurso de la contrarrevolución floridana en su emporio natural. Y si hablamos de la calidad de los viajeros, el espectro de los mismos llegó hasta viejos “luchadores anticastristas” sin vínculos terroristas, que vinieron a reencontrarse con su país de origen, con su gente, que reconocieron o no, públicamente o no, que habían estado del lado equivocado de la historia, pero que de alguna manera se reconciliaron consigo mismos y se sintieron mucho más a gusto en un segundo y tercer viaje. Los totales de viajeros de aquí hacia allá, también trasladaban un mensaje similar: soy libre de ir allá (EE UU) que dicen que “esto está complicado”, en referencia a limitaciones materiales.
Se pueden relacionar otros hechos muy importantes que sucedieron en aquellos mismos años, pero estas cifras que se han mencionado en párrafos precedentes y su impacto social en ambas orillas, estremecieron por primera vez el andamiaje de la “industria del odio” y todo el entramado de financiamiento federal y privado que la ha sostenido en pie por más de 60 años. ¿Cómo vender odio en una circunstancia en que se estaba produciendo un genuino contacto pueblo a pueblo a un nivel impensable e el pasado?, ¿cómo vender la imagen de la “falta de derechos y libertades”, si los visitantes estadounidenses se felicitaban de que sus hijos tenían una libertad nocturna que no gozaban en sus lugares de residencia en el Norte?.
Aunque se ha mencionado en otros textos, no es ocioso recordar que lo narrado hasta aquí tenía lugar en una escenografía histórica en la que se producía un intercambio cultural inusitado, en el que varias ONGs y grupos privados organizaron los más masivos y extensos recorridos de artistas e intelectuales cubanos por la geografía estadounidense. No solo por Miami, sino por los circuitos verdaderos, que van desde New Orleans, hasta Los Angeles, Chicago, New York y el propio Washington DC.
Eran los años en que se aprobaban más de 30 resoluciones de ciudades grandes y pequeñas pidiendo colaboración con Cuba, 11 de ellas en el tema de la salud. En el 2017 Chicago, Illinois, vio coronado su esfuerzo al concretar el primero de estos acuerdos con presencia de expertos cubanos. El propio año (bajo Trump) se firmó y comenzó a funcionar el primer acuerdo conjunto entre dos instituciones (Centro de Inmunología Molecular y Roswell Park Cancer Center) de la industria biofarmacéutica. Eran los años de un intercambio académico y universitario intenso, donde los especialistas estadounidenses llegaron a ser la mayoría de las representaciones extranjeras en eventos y congresos celebrados en Cuba, como sucedió incluso en la conmemoración por los 500 años (noviembre, 2019) de La Habana, cuando el grupo estadounidense fue el más nutrido entre los visitantes. En ese momento se firmó un acuerdo de cooperación entre la ciudad de New Orleans y la capital cubana.
A mediados del 2019, sucedió algo muy apegado a la más pura tradición política estadounidense, se oyó en el Sur de la Florida la voz de “estamos siendo atacados!”, para justificar una reacción radical contra el estado de cosas. La proximidad a la ocurrencia de nuevos comicios electorales en el 2020 hizo suponer a la tribu legislativa de cubanoamericanos que, de no producirse un “cambio fundamental en las circunstancias”, tendrían que abandonar el negocio que le había abierto tantas puertas en sus vidas y empezar a trabajar de forma tangible por primera vez. Si bien después del 2001 la contrarrevolución de origen cubano radicada en Estados Unidos debió abandonar el terrorismo como arma fundamental de su “lucha”, al final de la segunda década del siglo XIX percibían que se quedaban sin instrumentos, ni fundamentos.
El resto de la historia es conocida: cambios en la Oficina del Asesor de Seguridad Nacional, en la Oficina del Director para América Latina del mismo órgano y un acuerdo de un senador de la Florida con un presidente advenedizo: “me entregas completamente la política hacia Cuba y a cambio te protejo las espaldas en el Comité de Inteligencia que presido”. Más o menos por ahí anda la génesis de la mayoría de las 243 medidas contra Cuba que se agolparon en poco tiempo, con premura, sin respetar las sacrosantas consultas interagenciales, sin revisar cuánto de lo que se hacía perjudicaba o no el “interés nacional” de los Estados Unidos.
Había tres prioridades absolutas: “cortar los viajes, cortar los viajes y, adicionalmente, cortar los viajes”, lo cual sucedió “over night” (en una noche), literalmente con pasajeros a bordo en buques, o sobrevolando la Isla.
Además se autorizó mucho dinero, todo el dinero posible, el que se declara en el presupuesto federal y el que está en los acápites secretos, para montar una maquinaria de desinformación sobre Cuba, que borrara todo lo ocurrido, que le cambiara el contenido a cada hecho, que sustituyera los recuerdos de viajeros y anfitriones, de emisores y receptores. Una maquinaria que cambió el Sol brillante por la tempestad y la paz relativa por la rivalidad más desembozada.
El “contrataque” debía ser lo suficientemente masivo para que tuviera el mismo efecto del napalm sobre la piel de Vietnam, pero esta vez sobre la conciencia de la gente común. Y junto a la desinformación masiva medidas más quirúrgicas y puntuales: tocar a la puerta de académicos y periodistas que daban criterios positivos sobre Cuba; desaprobación de créditos a empresarios que habían descubierto en la Isla del Caribe una oportunidad y situar un scanner ideológico en el aeropuerto de Miami para cuanto artista cubano que arribaba, con un gran cartel que decía: “si no repites mi credo político, aquí ni tocas, ni cantas, ni cobras”.
Estas acciones y otras tuvieron por primera vez una dimensión masiva y reiterativa en las redes sociales con un impacto que ciertamente buscaba afectar al público cubano, pero sobre todo a los millones de estadounidenses que ya habían conocido Cuba de primera mano. Una contrarrevolución de rancia tradición racista y homofóbica comenzó a tratar de moverse incluso en los espacios de afrodescendientes y en las comunidades LGTBQ y encontró algunos crédulos.
Por ahí andaban cuando apareció ese actor diminuto que ha hecho temblar a la Humanidad: el SARS-CoV-2. A la altura de febrero o marzo del 2020 había confusión, pero a los pocos días se fue entronizando el pensamiento del que se considera primer mundo económico, pero en realidad es tercero intelectual. Se llegó rápidamente a la conclusión de que Cuba no resistiría, de que habría muertes masivas, que el sistema médico colapsaría, lo cual unido a otras penurias provocadas desde el exterior, llevaría finalmente al ansiado “estallido social”.
Esa fue la versión que le entregaron a Biden en el 2021 los analistas del “estado profundo”, que esta vez aseguraron estar más cerca de la verdad que cuando se le convenció a Kennedy de firmar la proclama del bloqueo en 1962 y a Clinton de aceptar la filosofía de la Ley Torricelli en 1992.
Pero resulta que en el 2022, y parece que la cosa va de 30 años en 30 años, Cuba ha vuelto a resucitar del último zarpazo de una forma inesperada: produciendo cinco vacunas propias contra la COVID19, protegiendo a casi la totalidad de su población, exportando su conocimiento a quienes quieren compartirlo, teniendo una de las tasas más bajas de fallecidos por millón de habitantes, siendo pionera en la inmunización a menores, controlando en buena medida el riesgo de la apertura de las fronteras, mostrando un éxito inusitado frente a lo que se llama la “cuarta ola”, con un orden social adecuado.
Sabemos que los contrataques de realidad virtual continuarán, pero también se seguirán desdibujando los argumentos que se utilizan, como sucedió en el pasado reciente con los “ataques sónicos”, “las tropas en Venezuela”, el “alzamiento generalizado” y en estos días con los “juicios a menores”. Cuba y su gente están bien insertados en una comunidad internacional de la que una parte de Estados Unidos se autoexcluye. No es a la inversa.
(Tomado del CIPI)