L. Rivara e F. V. Prieto, Resumen latinoamericano, 15 febbraio 2022.
Forse pochi ricordano che il terzo decennio del 21° secolo è iniziato violentemente il 3 gennaio 2020: con un attacco aereo all’aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq. L’operazione di precisione fu eseguita dai droni Predator B. Pilotati virtualmente da centinaia di chilometri di distanza da operatori statunitensi, lanciando due missili aria-terra Hellfire R9X contro un convoglio di milizie irachene sostenute dal governo iraniano. Nell’attacco fu ucciso il comandante della Forza Quds, Qasim Sulaymani, prestigioso militare del suo Paese, secondo in linea di successione e uno dei principali artefici della politica di guerra e pace in Medio Oriente.
Come qualcuno che insinua esattamente il contrario di ciò che afferma, l’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, assicurò che il suo governo non cercava il “cambio di regime” né di iniziare una guerra. Comunque fosse, era evidente che “cambio di regime” e “guerra” apparivano come elementi importanti per interpretare la situazione; e anche per i tempi a venire. Il fatto, irriducibile, era che con la semplice pressione di un pulsante moriva non solo un generale, ma anche le brevi speranze di pace di un decennio iniziato guerrafondaio e violento.
Al tempo, una rapida escalation di dichiarazioni e movimenti militari sembrava mettere il pianeta sull’orlo della conflagrazione globale. Sulla bocca di tutti, civili e militari, specialisti e laici, occidentali e non occidentali, risuonava una parola che sembrava essere la chiave del caveau per comprendere eventi così complessi: geopolitica. Finora in questo secolo e, ancor di più, dopo la sfida globale presentata all’umanità dall’emergere della pandemia di COVID-19, la geopolitica sembra far parte del vocabolario quotidiano. Dalla geopolitica dei vaccini, alla geopolitica del petrolio, dalla geopolitica imperialista alla geopolitica dell’integrazione, dalla geopolitica del clima alla geopolitica militare; sembra vano cercare di capire qualcosa senza. I tentativi di liberazione dei popoli non possono fare a meno della dimensione geopolitica come strumento epistemologico, né come fondamentale mediazione strategica. È noto che il potere è concentrato in modo ineguale nello spazio. Lo spazio sarà quindi terreno privilegiato per l’azione politica, sia imperiale che antimperiale, coloniale o liberatrice.
A questa nuova situazione globale, determinata dall’emergenza COVID-19, si aggiungono altri “segni dei tempi”, tra cui gli indicatori sempre più evidenti della nuova transizione egemonica globale; lo spostamento dell’asse geopolitico del mondo verso Est; il conflitto tra unipolarismo e pluricentrismo; la crisi delle principali istituzioni del sedicente “mondo occidentale”; l’incessante militarizzazione e paramilitarizzazione della vita; il consolidamento dei “nuovi diritti” e il fascismo in corso su vari settori sociali; la nuova rivoluzione tecnologica e l’emergere di nuovi tipi di società; la disputa sfrenata sui beni della natura, perché la ruota dell’iperproduzione e del consumo continui a girare; l’aggravarsi del cambiamento climatico e tutti gli indicatori della crisi ecologica; l’erosione del neoliberismo come sistema economico e ideologico egemonico; l’eventualità di una crisi economica di portata storica; il declino degli Stati Uniti e la contemporanea rinascita delle loro azioni imperialiste in America Latina e nei Caraibi. Fenomeni che spingono a una riflessione strategica sull’attuale situazione geopolitica della regione nel quadro di un mondo travagliato e incerto.
Un noto aneddoto illustra alcune delle nostre vicissitudini continentali. Nel gennaio 1897, l’artista Frederic Remington fu inviato a Cuba dal New York Journal, di William Randolph Hearst. Remington era lì per seguire la possibile guerra imminente, ma non successe nulla. Il fumettista quindi indirizzò un cablogramma al suo capo, in cui disse: “Tutto è calmo. Non ci sono problemi. Non ci sarà guerra. Desidero tornare”. Al che Hearst rispose: “Per favore, resta lì. Tu fornisci le immagini e io fornirò la guerra”.
Poco più di un anno dopo, il 15 febbraio 1898, la nave nordamericana Maine, ancorata nella baia dell’Avana, esplose. Su questo episodio, forse un’operazione sotto falsa bandiera, i media non solo di Hearst, ma anche il New York World di Joseph Pulitzer, ora trasformato in prestigioso premio, diffusero la semantica della guerra per convincere l’opinione pubblica della giusta causa degli USA. Ciò fu la copertura ideologica e incoraggiamento politico all’azione militare pianificata da tempo. Dopo aver trionfato nella guerra ispano-cubano-americana, gli Stati Uniti presero possesso delle ex-colonie spagnole Filippine, Cuba e Porto Rico. Iniziò così a consolidare il controllo territoriale nei Caraibi, lo strategico “confine imperiale” (Bosch, 1985). Già nel XX secolo il dominio di tale spazio fu ampliato con la secessione di Panama, prolungata occupazione di Haiti e Repubblica Dominicana e acquisto dalla Danimarca delle cosiddette Isole Vergini americane. Oggi questo è il centro delle operazioni del Comando Meridionale, da dove irradia influenza sul continente.
Niente è completamente nuovo sotto il sole. C’è netta continuità rispetto allora articolazione dei dispositivi politici, militari e comunicativi posti al servizio dell’intervento e il nostro presente geopolitico, sebbene forme e pretesti per la guerra si passati a competenze che un tempo avevano un rapporto lontano con quelle operazioni militari. Tanta acqua è passata sotto i ponti dai tempi della Maine e dai colpi di Stato “classici” che abbiamo conosciuto e subito nel nostro continente nel XIX e XX secolo. Quelli ancora legati, nell’immaginario popolare, agli sbarchi di marines, paracadutisti, carri armati nelle piazzei bombardamenti di edifici pubblici e proclami nei palchi militari. Nel corso della storia di repubblica imperiale, gli Stati Uniti svilupparono dottrine e corollari imperialisti che espresso giustificazioni economiche, geopolitiche, filosofiche e persino religiose per il loro espansionismo. La dottrina Monroe-Adams e il cosiddetto Destino manifesto sono solo due dei più noti, ma non gli unici. Tali dottrine e corollari anche trovarono corrispettivo strategico in diversi paradigmi di quella che gli Stati Uniti chiamano propria “sicurezza nazionale”, ma che noi preferiamo chiamare “dottrine di intervento” o “controinsurrezione” dato che, con le eroiche eccezioni dell’”invasione” di Pancho Villa degli ex-Stati messicani occupati dagli yankees nel 1916,
Al contrario, per intervenire furono utilizzate infinite scuse. Per due secoli, gli Stati Uniti dispiegarono una politica coerente di controllo emisferico, dall’Alaska alla Patagonia, e anche con proiezione verso l’Antartide. Nonostante esistano strategie geopolitiche a lungo termine, negli ultimi decenni si verificavano cambiamenti trascendentali nelle forme e nei metodi di intervento.
Un nuovo Piano Condor?
Nell’ultimo terzo del XX secolo, gli Stati Uniti avevano articolato, diretto, sostenuto e legittimato una serie di dittature militari nel continente, configurando così un orientamento “classico” della Guerra Fredda. L’articolazione dei governi di destra in Sud America per detenere, torturare e uccidere col “Piano Condor” fu sostenuta da CIA e Pentagono, che istruivano i dittatori. Fu un’operazione che si coordinò anche con le dittature centroamericane, come analizzò in dettaglio Stella Calloni (2016). Oggi, di fronte a un nuovo stato di cose, quell’orientamento viene ripreso, utilizzando ancora più strumenti d’intervento, ma in modo più oscuro e caotico. Ad oggi, abbiamo a malapena indicazioni e letture parziali di quelle che sono senza dubbio le linee guida della politica imperiale nella regione.
Uno dei primi a riferirsi a tale concetto fu l’ex-presidente dell’Ecuador, Rafael Correa. Nel settembre 2016, al XVII Vertice del Movimento dei Non Allineati (NAM), Correa osservò che la regione affrontava la controffensiva imperiale che cercava di intaccare i margini di sovranità recuperati nei primi anni del XXI secolo, quando emersero, prodotto di lotte popolari al neoliberismo, governi che promossero politiche popolari e di integrazione. A settembre 2016 erano già stati effettuati diversi colpi di Stato “soft”, tra cui l’impeachment contro Dilma Rousseff, un nuovo tipo di impeachment, attraverso il Parlamento. Qualcosa di simile accadde nel 2012 in Paraguay con l’ex-presidente Fernando Lugo. Anche un antecedente più remoto, quello del rovesciamento del primo governo popolare di questo secolo, dell’haitiano Jean-Bertrand Aristide, fu perpetrato nel 2004 con una copertura cosiddetta “umanitaria”. Altri interventi, come nel 2009 in Honduras che rovesciò Manuel Zelaya, e nel 2019 in Bolivia, che spodestò Evo Morales, ebbero connotazioni classiche, anche se con “innovazioni” tipiche dell’epoca.
Nel luglio 2021, Evo Morales riprese l’idea: “Riaffermiamo che il Piano Condor 2 è in corso e dobbiamo concordare misure affinché i governi di destra dell’America Latina non continuino a partecipare a colpi di Stato sotto la direzione degli Stati Uniti, causando lutto e dolore ai nostri popoli”, pubblicò su Twitter. Poi diffuse un documento che mostrava la partecipazione del governo di Mauricio Macri a sostegno della dittatura boliviana guidata da Jeanine Áñez. Lo stesso concetto fu affrontato da Manuel Zelaya, riferendosi all’uso delle cosiddette “organizzazioni non governative” (ONG) nella guerra a bassa intensità di oggi, in particolare contro il Nicaragua. Poche settimane dopo, il media statunitense The Grayzone rivelò in dettaglio lo schema di finanziamento del governo statunitense per tali organizzazioni. Il precedente paradigma di intervento dominante, noto come “guerra asimmetrica”, prevedeva il confronto tra forze convenzionali (eserciti nazionali regolari o forze di occupazione regolari) con forze ribelli (formazioni di guerriglia, organizzazioni politico-militari di ogni tipo, ecc.). Da qui la dottrina del “nemico interno” comune alle politiche del terrorismo di Stato articolata in quello che divenne noto come Piano Condor, quando il Pentagono consigliò le dittature militari del Sud America al suo servizio, negli anni ’70 e ’80, e persino l’idea del “nemico diffuso” tanto usata per giustificare le guerre in Medio Oriente dagli anni ’90. Come ogni variazione nella stessa linea strategica, mantiene continuità. L’assedio economico al Venezuela, ad esempio, è la continuazione del blocco su Cuba, anch’esso aggiornato.
Ad oggi, l’imperialismo statunitense ha affinato e reso infinitamente più complessi i suoi modi di controllo, intervento e “cambio di regime”, ma molte volte la nostra capacità riflessiva è ancora orientata all’analisi di strategie o paradigmi obsoleti. Anche gli attori del confronto sono cambiati drasticamente. Lo dimostra l’impossibilità di concettualizzare e agire adeguatamente di fronte alle nuove dottrine di intervento schierate senza soluzione di continuità in Paesi come Venezuela, Bolivia, Colombia, Brasile, Argentina o Haiti. Tutti possiamo riconoscere facilmente un colpo di Stato nella forma classica: ma ancora più opachi sono i meccanismi nascosti e non dichiarati della guerra economica, “rivoluzioni colorate”, giuridica, neoliberismo di guerra, parastatalità, narcopolitica, ONG coloniale, interventismo umanitario, stupro transnazionale, terrorismo mediatico o strumentalizzazione politica dell’ultraconservatorismo religioso.
Sono indubbiamente tempi difficili, lontani dal culmine della primavera latinoamericana e caraibica. Ma l’offensiva imperialista non solo massimizza l’interventismo e il suo dispiegamento belluino, ma anche l’ancora formidabile capacità di disputa intellettuale, culturale e morale. Ecco perché non dobbiamo sorprenderci del proliferare e circolare delle più svariate teorie coloniali, elaborate nelle fabbriche del nemico e diffuse come forme deliberate di smobilitazione e confusione organizzata in quella che appare una “nuova guerra fredda culturale”, parafrasando il titolo del noto studio di Frances Stonor Saunders.
Il fatto di fondo è che gli Stati Uniti risposero alla sfida del socialismo del 21° secolo e all’emergere di formidabili movimenti sindacali, contadini, indigeni, neri, femministi e dell’economia popolare, in ascese in tutto il continente dalla fine degli anni ’90, con un rinnovato imperialismo del 21° secolo, di cui alcuni ideologi sognano ancora che sia “il nuovo secolo nordamericano”. In tale controffensiva imperiale si osserva moltiplicazione e raffinatezza delle tattiche e metodi d’intervento. Negli ultimi decenni il mascheramento della guerra si è diffuso attraverso attività che tradizionalmente, nella dottrina liberale, figuravano in campo civile. Tra questi comunicazione, cultura, giustizia, religione, aiuti umanitari, ecc. Nella maggior parte dei casi, il verificarsi di tali meccanismi sarà parallelo all’attuazione del neoliberismo nel continente, oppure coinciderà con processi regionali non sempre sincronizzati in ciascuno dei nostri Paesi (smobilitazione delle insurrezioni, modifiche costituzionali, politiche di adeguamento strutturale, fine delle dittature, post-conflitti, ecc.). Ma non bisogna perdere di vista il fatto che parte di tali dottrine sono comuni alla regione, e anche nel resto dei Paesi del Sud del mondo: così, la politica sanzionatoria subita dal Venezuela sarà simile a quella applicata all’Iran, le forze irregolari collegheranno la Colombia colla Siria, oppure l’uso dello stupro come strumento di controllo territoriale transnazionale ci porterà da Haiti al Congo.
Nelle duecentocinquantaquattro pagine di The New Condor Plan. Geopolitica e imperialismo in America Latina e Caraibi (Editorial Batalla de Ideas/Instituto Tricontinental de Investigación Social, 2022), che abbiamo avuto il piacere di coordinare, venti autori di Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Cuba, Ecuador, Haiti e Venezuela sistematizzano tali nuove dinamiche di intervento sulla base di casi specifici. Ci auguriamo che la conoscenza di tali processi contribuisca al dibattito dell’intellighenzia critica, di chi abita ambiti accademici e chi non, e in generale, alla riflessione sulle caratteristiche della guerra ibrida in un continente senza guerre ufficialmente dichiarate; un fenomeno che, come abbiamo capito, attraversa la fase politica che viviamo e che, proprio per questo, è qui per restare.
Prefazione di El nuevo Plan Cóndor: geopolítica e imperialismo en América Latina y el Caribe (Editorial Battle of Ideas / Tricontinental Institute for Social Research, 2022).
Traduzione di Alessandro Lattanzio