Geraldina Colotti
Dopo la visita della delegazione di alto livello del governo Biden, che ha portato alla liberazione di due statunitensi arrestati per attività cospirative e l’annunciata ripresa del dialogo con l’opposizione venezuelana, in Venezuela si discute della portata delle “sanzioni” innescate dal decreto Obama sette anni fa e della resistenza eroica opposta dal popolo venezuelano.
Il gesto distensivo del presidente Maduro verso Biden indica la ferma volontà del governo bolivariano di riportare a casa il diplomatico Alex Saab, sequestrato e tradotto negli Usa per aver aggirato il bloqueo, importando alimenti e medicine. Le dichiarazioni del governo bolivariano, in attesa della conferenza stampa che fornirà il quadro generale, mostrano che, ancora una volta, è con la saldezza nei principi, ma con la flessibilità necessaria a districarsi in un mondo di insidie e bellicismi determinato dalla globalizzazione capitalista, che agisce il gruppo dirigente guidato da Maduro.
La “diplomazia di pace” (pace con giustizia sociale, e non la pace del sepolcro per le classi popolari) si è mossa in questi anni per depotenziare l’azione del complesso militare-industriale che muove la politica nordamericana. Lo ha fatto in alleanza con quei paesi (progressisti, antimperialisti o socialisti) che, in America Latina e non solo, agiscono per la costruzione di un mondo multicentrico e multipolare. Lo sta facendo anche ora in presenza della crisi ucraina. Da un lato, si ribadisce il sostegno pieno alla Russia e al suo diritto di respingere l’accerchiamento della Nato al servizio degli Stati Uniti. Dall’altro, si continua con la politica di dialogo, ricordando le parole di Chávez a 9 anni dalla sua scomparsa, che si diceva disposto a “negoziare anche con il diavolo” pur di salvare il processo bolivariano. Intanto, si continua a tagliare l’erba sotto i piedi al golpismo venezuelano sostenuto dai falchi del Pentagono (e non solo), che paiono ormai decisi a liberarsi del loro burattino autoproclamato, Juan Guaidó.
“Una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti”. Con questa assurda motivazione, considerando la sproporzione tra un piccolo paese pacifico, come il Venezuela, e la maggior potenza mondiale sul piano economico, scientifico, militare, il primo presidente nero degli Stati Uniti, Barack Obama, aveva firmato il decreto che ha dato avvio al perverso ciclo di misure coercitive unilaterali (Mcu) contro la rivoluzione bolivariana. Era il 9 marzo di 7 anni fa.
Due anni prima, dopo la scomparsa fisica del comandante Chávez, Nicolas Maduro aveva giurato come presidente, eletto dal popolo. Vari incontri e dibattiti, seguiti al Congresso del Psuv e della Jpsuv e a quello della classe operaia, e alle riflessioni intorno all’8 marzo, hanno ricordato il crescendo di sabotaggi, furti, persecuzioni, intenti di golpe, tentato omicidio del presidente, incursioni militari straniere, e soprattutto la guerra economico-finanziaria che ha colpito pesantemente tutti i settori e brutalmente violato i diritti umani: alla salute, all’alimentazione, all’accesso a beni e servizi.
Un’offensiva a più livelli che, mediante gli ordini esecutivi che si sono susseguiti nel corso di questi anni, ha preso di mira le istituzioni dello stato incaricate delle finanze del paese, le più diverse attività commerciali a livello internazionale, e con particolare durezza, il punto gravitazionale dell’economia venezuelana, Pdvsa. Dal 2014, le Mcu hanno colpito oltre 192 persone, più di 140 imprese private, oltre una decina di imprese pubbliche, 69 navi, 30 petroliere, 58 aeronavi, e sequestrato illegalmente oltre 31 tonnellate di oro trattenuto nella Banca di Inghilterra, e oltre 7.000 milioni di dollari in diverse banche straniere.
Il settore tecnologico ne ha risentito pesantemente. Non si sono potuti riparare e mantenere i microscopi per la ricerca a causa del bloqueo del Portogallo, dov’erano stati acquistati. E così è avvenuto per la componentistica necessaria a riparare il materiale degli info-center e per l’industria che produce le “canaimitas”, i portatili di cui usufruivano i bambini venezuelani. In occasione dell’8 marzo, si è ricordato che, nel settore scientifico venezuelano, le donne hanno raggiunto la parità di genere, e vi è un’alta rappresentanza femminile nei principali istituti scientifici. L’Unesco riconosce che occupano il 60% del settore scientifico nazionale.
Il 70% della rete di vigilanza genomica per la pandemia è costituita da donne. E sono le donne le punte di diamante della resistenza al bloqueo criminale. Rappresentano il 65% dell’Alleanza scientifico-contadina, un piano nazionale che, finora, sostituisce le importazioni per un volume pari a 400 milioni di dollari, solo in semi di patate. Come ha spiegato la ministra di Scienza e Tecnologia, Gabriela Jimenez, questa Alleanza è un esempio di come si possa fare comunità per contrastare la privatizzazione della conoscenza sviluppando reti di interscambio, giacché l’Alleanza scientifico-contadina è presente in 17 stati del paese e riguarda 3.500 famiglie contadine.
In un paese che sta impegnandosi a fondo per ottenere la sovranità alimentare e l’indipendenza tecnologica e che ha già contrastato efficacemente così le misure coercitive unilaterali, il corrispondente di 16 milioni di dollari in importazioni è stato sostituito con il progetto della Cayapa Heroica, una iniziativa rivolta ai giovani, che recuperano e riparano strumenti medici danneggiati, specialmente incubatrici.
La Cayapa propone anche programmi di formazione orizzontale permanente donna-donna, bambina-bambina, adolescente-adolescente per rompere con il modello di dominio imposto e decolonizzare i processi e le forme di produzione in una prospettiva anti-patriarcale, perché i numeri della parità, da soli, non bastano. Occorre un cambio profondo di indirizzo, nella scienza e nella società intera.