Nella società dello spettacolo, come l’avrebbe chiamata Guy Debord, le relazioni sociali sono mediatizzate da un insieme infinito di immagini e percezioni spesso manipolate o falsificate.
Michel E. Torres Corona www.granma.cu
Nella società dello spettacolo, come l’avrebbe chiamata Guy Debord, le relazioni sociali sono mediatizzate da un insieme infinito di immagini e percezioni spesso manipolate o falsificate.
Non basta essere, bisogna sembrare. Forma e contenuto, due categorie indissolubilmente unite, si trovano oggi in un rapporto gerarchico che privilegia la prima rispetto alla seconda. Il modo in cui, in esso, rappresentiamo noi stessi e otteniamo che quella rappresentazione permea “l’altro” determina, in gran parte, il nostro successo sociale: la stessa cosa accade con le nazioni, i popoli, ecc. Lo spettacolo non premia le essenze bensì le apparenze.
Nelle parole di Eduardo Galeano, stiamo vivendo l’auge della “cultura del confezionamento”. E così lo definisce: «Il contratto matrimoniale conta più dell’amore; il funerale più che il morto; il vestito più del corpo; il fisico più dell’intelletto e la messa più di Dio».
Nell’era di Internet, questa mediatizzazione delle reti sociali, questa condizione spettacolare della nostra esistenza, questa frivola ossessione per l’apparenza, questa preponderanza del contenitore sul contenuto, raggiunge dimensioni sempre maggiori. I nativi digitali, soggetti protagonisti di questa trama psichedelica, iniziano a dipendere dalle reti sociali per dare un senso alla loro vita. Se non pubblichi una foto con il tuo partner, sei single; se non condividi un’immagine della tua colazione su Instagram, non hai mangiato; se non ti unisci all’ultima sfida TikTok, non ti stai divertendo; se non condividi o commenti l’ultima discussione tra pseudo-artisti, non appartieni al selezionato club del’’opiniologia di Facebook.
Il valore di una persona inizia a misurarsi in like: se nessuno ti segue, non sei importante.
Martí, dal XIX secolo, ma per sempre, avverte: «Chi ha molto fuori, ha poco dentro, e vuole nascondere il poco. Chi sente la sua bellezza, la sua bellezza interiore, non cerca fuori la bellezza presa in prestito: sa di essere bella, e la bellezza illumina». Ossessionati dall’immagine, dall’apparenza, andiamo convertendoci in gusci vuoti. Non c’è tempo per la virtù se tutto ciò che conta è apparire virtuosi. E così, sul piano mediatico, si vanno costruendo falsi idoli, maschere divine che adoriamo.
Di fronte a questa realtà, la risposta non può essere rinchiuderci. Anche quando “il proprio mondo è il migliore”, come canta Silvio Rodríguez in Casiopea, esistiamo finché ci relazioniamo con gli altri. E queste relazioni, se guidate da ideali veramente progressisti, ci costringono a lottare per fare del “mondo alieno” un posto sempre migliore. Questa lotta va condotta anche sul piano simbolico, nella dimensione dell’apparente.
Ai simboli della banalità e del mercantilismo dobbiamo opporre simboli che esaltino i migliori valori umani. A quella narrazione che difende strenuamente lo status quo, dobbiamo contrapporre un discorso di emancipazione, di anticonformismo, un discorso rivoluzionario. Una battaglia comunicativa, nei termini di Pedro Santander, si combatte quotidianamente tra due modelli: quello presente che non vuole mutare e quello futuro che dobbiamo dare alla luce.
Per questo, nell’era di Internet, in un’epoca di crescente interattività a Cuba con le reti sociali, dobbiamo agire sempre con la responsabilità che implica sapere che un rivoluzionario è, in ogni momento, portavoce e rappresentante della Rivoluzione. Le nostre azioni devono essere guidate verso la realizzazione di una realtà più giusta, verso la lotta contro tutto ciò che è sbagliato, ma anche per contribuire alla narrazione simbolica del nostro sistema in costruzione, per non danneggiarlo con goffaggine.
Una decisione inetta e insensibile presa da un funzionario può buttare via il lavoro di anni nel perseguimento di una causa degna, come quella del benessere degli animali; una dichiarazione sfortunata può rovinare un buon proposito; uno slogan banale o assurdo, anche (o soprattutto) se detto con le migliori intenzioni, può fungere da ariete per un’ondata di aggressione e beffa. “Munizione semiotica” è ciò che il filosofo messicano Fernando Buen Abad chiama quei contenuti che rendono omaggio, nel bene e nel male, alla disputa di significati che attraversa la politica e, in definitiva, la condizione umana.
Siamo coscienti che siamo un paese assediato, in guerra. Siamo coscienti che nella società dello spettacolo dobbiamo agire con intelligenza, sottigliezza e abilità. Siamo coscienti che non possiamo dare al nemico né scuse né incoraggiamento. Prendiamoci cura del continente per continuare a lottare per il superiore valore del contenuto. Tutta la munizione semiotica che produciamo deve servire alla nostra agenda, mai a quella dei nostri avversari.
Munición semiótica
En la sociedad del espectáculo, como la llamara Guy Debord, las relaciones sociales están mediatizadas por un infinito conjunto de imágenes y percepciones muchas veces manipuladas o falseadas
Autor: Michel E. Torres Corona
En la sociedad del espectáculo, como la llamara Guy Debord, las relaciones sociales están mediatizadas por un infinito conjunto de imágenes y percepciones muchas veces manipuladas o falseadas.
No basta ser, hay que parecer. Forma y contenido, dos categorías indisolublemente unidas, hoy se hallan en una relación jerárquica que favorece a la primera sobre la segunda. El modo en el que nos representamos y logramos que esa representación cale en «el otro» determina en gran medida nuestro éxito social: lo mismo sucede con naciones, pueblos, etc. El espectáculo no premia esencias sino apariencias.
En palabras de Eduardo Galeano, vivimos el auge de la «cultura del envase». Y así la define: «El contrato de matrimonio importa más que el amor; el funeral más que el muerto; la ropa más que el cuerpo; el físico más que el intelecto y la misa más que Dios».
En la era de internet, esa mediatización de las redes sociales, esa condición espectacular de nuestra existencia, esa frívola obsesión con la apariencia, esa preponderancia de continente sobre contenido, alcanza dimensiones cada día mayores. Los nativos digitales, sujetos protagónicos de esta trama sicodélica, comienzan a depender de las redes sociales para brindarle un sentido a su vida. Si no cuelgas una foto con tu pareja, estás soltero; si no compartes en Instagram una imagen de tu desayuno, no comiste; si no te sumas al último reto de TikTok, no te diviertes; si no compartes o comentas sobre la última discusión entre seudoartistas, no perteneces al selecto club de la opinología de Facebook.
La valía de una persona comienza a medirse en likes: si nadie te sigue, no eres importante.
Martí, desde el siglo XIX, pero para todos los tiempos, advierte: «Quien lleva mucho afuera, tiene poco adentro, y quiere disimular lo poco. Quien siente su belleza, la belleza interior, no busca afuera belleza prestada: se sabe hermosa, y la belleza echa luz». Obsesionados con la imagen, con la apariencia, nos vamos convirtiendo en carcasas vacías. No hay tiempo para la virtud si todo lo que vale es parecer virtuoso. Y así se van construyendo, en el plano mediático, falsos ídolos, máscaras divinas a las que rendimos culto.
Ante esa realidad, la respuesta no puede ser encerrarnos en nosotros mismos. Aun cuando «el mundo propio es el mejor», como canta Silvio Rodríguez en Casiopea, existimos en tanto nos relacionamos con otros. Y esas relaciones, si son guiadas por ideales verdaderamente progresistas, nos obligan a la lucha por hacer del «mundo ajeno» un sitio cada vez mejor. Esa lucha también hay que librarla en el plano simbólico, en la dimensión de lo aparente.
A los símbolos de banalidad y mercantilismo debemos oponer símbolos que enaltezcan los mejores valores humanos. A ese relato que defiende a ultranza el statu quo, debemos oponer un discurso de emancipación, de inconformidad, un discurso revolucionario. Una batalla comunicacional, en términos de Pedro Santander, se libra a diario entre dos modelos: el del presente que no quiere mutar y el del futuro que debemos dar a luz.
Por ello, en la era de internet, en un tiempo de creciente interactividad en Cuba con las redes sociales, debemos actuar siempre con la responsabilidad que implica saber que un revolucionario es vocero y representante de la Revolución en todo momento. Nuestras acciones deben ir guiadas hacia la concreción de una realidad más justa, hacia el combate contra todo lo mal hecho, pero también a contribuir al relato simbólico de nuestro sistema en construcción, a no dañarlo con torpezas.
Una decisión inepta e insensible que tome un funcionario puede echar por la borda el trabajo de años en pos de una causa digna, como la del bienestar animal; una declaración desafortunada puede mancillar un buen propósito; una consigna manida o absurda, incluso (o sobre todo) si se dice con la mejor de las intenciones, puede servir de ariete para una oleada de agresiones y mofas. «Munición semiótica» le llama el filósofo mexicano Fernando Buen Abad a esos contenidos que tributan, para bien o para mal, a la disputa de sentidos que atraviesa a la política y a la condición humana, en definitiva.
Tengamos conciencia de que somos un país asediado, en guerra. Tengamos conciencia de que en la sociedad del espectáculo debemos actuar con inteligencia, sutileza y tino. Tengamos conciencia de que al enemigo no le podemos dar ni excusas ni aliento. Cuidemos al continente para seguir luchando por la superior valía del contenido. Toda munición semiótica que produzcamos debe tributar a nuestra agenda, nunca a la de nuestros adversarios.