Capitalismo e sottosviluppo: l’obiettivo è superare entrambi

Agustin Lage Davila

L’articolo della scorsa settimana, “Gli obiettivi e i Procedimenti” ha attirato molti commenti, che non è fisicamente possibile sintetizzare né polemizzare in un paio di pagine. La maggior parte dei commenti erano molto buoni e con idee interessanti; ma c’erano anche alcuni preoccupanti, soprattutto quelli che si avvicinano a mettere in discussione, non i procedimenti concreti (che sempre possono contenere errori), bensì gli obiettivi di sovranità, giustizia sociale e prosperità. C’è stato persino chi quasi ha gridato: “Privatizzare tutto”.

Bisogna dare una risposta e la risposta è che gli obiettivi sono collegati tra loro e vincolati, a loro volta, all’aspirazione del Socialismo. Non si raggiungeranno alcuni senza gli altri. Vogliamo superare il sottosviluppo, ma per farlo dobbiamo lasciarci alle spalle il capitalismo.

Ci sono fatti storici di ieri che è imprescindibile comprendere per assumere posizioni lucide e ferme nelle controversie di oggi. La logica dell’accumulazione capitalista è un formidabile dispositivo per creare disuguaglianze. La proprietà privata dei mezzi di produzione conferisce al proprietario del capitale vantaggi per la generazione di profitti, che vengono utilizzati per acquisire nuovi beni capitali, che a loro volta amplificano i vantaggi iniziali. Si crea così un circolo di retro-alimentazione positivo che costruisce biforcazioni, separando chi ha e chi no, che a un certo punto diventano irreversibili. Marx la studiò all’interno dei paesi industrializzati e lo descrisse come la legge della concentrazione del capitale. Fidel e Che Guevara lo studiarono nelle relazioni tra paesi sviluppati e sottosviluppati.

Le guerre coloniali portarono al processo di ampliamento delle disuguaglianze su scala internazionale. Le economie dei paesi colonizzati furono messe in funzione dell’accumulazione capitalistica nelle metropoli. I paesi colonizzati furono vittime del processo internazionale di concentrazione del capitale, e convertiti in fornitori di materia prima per l’industria europea, materia prima ottenuta con mano d’opera schiava prima e con lavoratori mal pagati poi.

Il più formidabile motore dell’accumulazione di capitale in Europa fu la schiavitù americana, imposta e mantenuta attraverso il dominio militare.

Il profitto privato esportatore dei paesi poveri periferici fu una condizione necessaria per la dinamica dell’accumulazione nei paesi centrali ricchi.

Un passaggio emblematico dell’imposizione del libero commercio a favore degli interessi dei paesi capitalisti sviluppati fu la Guerra dell’Oppio del 1839, in cui la Gran Bretagna, con la forza delle armi, impose alla Cina il libero commercio e l’apertura dei suoi porti, come reazione al tentativo del governo cinese di vietare il commercio di oppio, introdotto dalla British East India Company. Pochi anni dopo entrarono nel conflitto Francia, USA e Russia, forzando la Cina a stipulare trattati, noti alla storia come i “Trattati Diseguali”, che aprirono 11 porti all’esterno e crearono enormi squilibri commerciali per la Cina.

India e Cina contribuivano ancora per il 53% alla produzione manifatturiera globale, nel 1800, ma già nel 1900 erano scese al 5%.

La grande biforcazione del mondo tra paesi ricchi e paesi poveri iniziò con la prima rivoluzione industriale nel XVIII secolo e fu rafforzata dalle guerre coloniali di conquista. Le politiche protezionistiche in primis e l’imposizione del libero commercio una volta acquisiti i vantaggi industriali (mai prima), la resero irreversibile.

Una volta istituito il regime del monoprodotto da esportare (oro, argento, zucchero, gomma, caffè, cotone, ecc.), non è più possibile uscire da questa “gabbia del sottosviluppo”. L’Europa e il Nord America, che inizialmente svilupparono le loro industrie nazionali con forti politiche protezionistiche, in seguito imposero il libero commercio ai paesi del sud le cui manifatture non potevano competere con le industrie mature del nord.

Eduardo Galeano inizia il suo libro essenziale “Le vene aperte dell’America Latina” con questa affermazione: “La divisione internazionale del lavoro consiste che alcuni paesi si specializzano nel vincere e altri nel perdere”.

L’economia coloniale si strutturò in funzione delle necessità del mercato europeo e la popolazione indigena soggiogata si convertì in un immenso proletariato esterno per l’economia delle metropoli. Il ruolo di principale beneficiario del sistema fu assunto, progressivamente, dagli USA. Nel 1916, quando Lenin scrisse il suo libro sull’imperialismo, il capitale USA rappresentava meno del 20% degli investimenti stranieri privati ​​diretti in America Latina e nei Caraibi. Nel 1970 tale percentuale era già del 75%. E non è questa una storia limitata ai secoli precedenti: ancora oggi i politici USA invocano la Dottrina Monroe (“America  per gli americani”) come fondamento della sua politica estera.

Le istituzioni del capitalismo dipendente erano orientate all’estrazione di valore, non alla creazione di valore economico. Le classi dominanti della società coloniale latinoamericana e poi delle economie capitaliste sottosviluppate, non si orientate mai verso lo sviluppo economico interno, bensì verso il lusso, lo spreco e la dipendenza.

Vediamo come esempio di questa incapacità delle classi dominanti del capitalismo dipendente il caso di Cuba nel 1920, quando i prezzi dello zucchero collocarono il paese ad un livello di esportazioni elevato, all’epoca superiore a quello dell’Inghilterra, ma quei redditi non furono utilizzati in funzione dello sviluppo industriale del paese, bensì fuggirono all’estero e/o finanziarono il consumo di lusso delle élite.

Il mercato interno, limitato dalla povertà della maggioranza, non funse da attrattore di sviluppo industriale, e questo non fu il prodotto di alcuna legge dell’economia, bensì di un’opzione politica.

La denazionalizzazione delle economie latinoamericane si  rafforzò nella seconda metà del XX secolo con le dottrine economiche neoliberali imposte dalle dittature militari. Il primo “esperimento” fu condotto dai consulenti economici USA in Cile, sotto la dittatura di Pinochet. Altri seguirono. Lo stesso scarso aiuto ufficiale allo sviluppo ricevuto dai paesi dell’America Latina viene utilizzato principalmente per finanziare gli acquisti negli USA, diventando così un sussidio per gli esportatori nordamericani. La dipendenza si rafforzò con la denazionalizzazione del sistema bancario.

L’esperienza storica indica chiaramente che l’inserimento nell’economia globale non sempre è fonte di sviluppo, bensì può essere la via per approfondire il sottosviluppo, soprattutto se l’inserimento non comporta capacità di creazione di conoscenza. Questo dipende dal tipo di inserimento nell’economia mondiale che si costruisce. E i tratti  che definiscono il tipo di inserimento nell’economia mondiale vengono tracciati, giorno per giorno, anche oggi, in ogni decisione di investimento, in ogni contratto commerciale, in ogni prestito, in ogni associazione economica internazionale.

Nell’economia globale del XXI secolo i vantaggi naturali (minerali, terra, posizione geografica, attrattive turistiche, ecc.) esistono e devono essere utilizzati, ma perdono progressivamente importanza di fronte ai “vantaggi costruiti” (coesione sociale, stabilità politica, sicurezza dei cittadini, istruzione, salute, capacità scientifiche, cultura). La costruzione di tali vantaggi è una funzione insostituibile dello Stato socialista.

Ragioniamo allora a fondo sulle radici delle nostre attuali difficoltà, e con grande lucidità su ciò che bisogna fare ora; ma, allo stesso tempo, difendiamo con fermezza ciò che abbiamo e soprattutto l’opzione sovrana di superare, allo stesso tempo, il capitalismo e il sottosviluppo.

Così lo sentenziò José Martí nel 1890: “La Ragione, se vuole guidare, deve entrare nella cavalleria”.

(tratto dal blog dell’autore)

Capitalismo y subdesarrollo: El objetivo es superar ambos

Por: Agustín Lage Dávila

El artículo de la semana pasada, “Los Objetivos y los Procedimientos” atrajo muchos comentarios, que no es físicamente posible sintetizar ni polemizar en un par de páginas. La mayoría de los comentarios fueron muy buenos, y con ideas interesantes; pero también hubo algunos preocupantes, especialmente los que se acercan a un cuestionamiento, no de los procedimientos concretos (que siempre pueden contener errores), sino de los objetivos de soberanía, justicia social y prosperidad. Hubo hasta quien casi gritó: “Privatizarlo todo”.

Esos hay que responderlos y la respuesta está en que los objetivos están vinculados entre sí y vinculados a su vez a la aspiración de Socialismo. No se alcanzarán unos sin los otros. Queremos superar el subdesarrollo, pero para ello hay que dejar atrás el capitalismo.

Hay hechos históricos del ayer que es imprescindible comprender para tomar posiciones lúcidas y firmes en las polémicas de hoy. La lógica de la acumulación capitalista es un formidable dispositivo de creación de desigualdades. La propiedad privada sobre los medios de producción le da al propietario del capital ventajas para la generación de ganancias, las cuales se emplean en adquirir nuevos bienes de capital, que a su vez amplifican las ventajas iniciales. Surge así un lazo de retroalimentación positiva que construye bifurcaciones, que separan a los que tienen y a los que no tienen, las cuales en algún momento se hacen irreversibles. Marx lo estudió al interior de los países industrializados y lo describió como la ley de la concentración del capital. Fidel y Che Guevara lo estudiaron en las relaciones entre países desarrollados y subdesarrollados.

Las guerras coloniales llevaron el proceso de ampliación de desigualdades a escala internacional. Las economías de los países colonizados fueron puestas en función de la acumulación capitalista en las metrópolis. Los países colonizados fueron víctimas del proceso internacional de concentración del capital, y convertidos en suministradores de materia prima para la industria europea, materia prima obtenida con mano de obra esclava primero y con obreros mal pagados después.

El más formidable motor de acumulación de capital en Europa fue la  esclavitud americana, impuesta y mantenida a partir de la dominación militar.

El rentismo privado exportador de los países periféricos pobres fue una condición necesaria para la dinámica de acumulación en los países centrales ricos.

Un pasaje emblemático de la imposición del libre comercio a favor de los intereses de los países capitalistas desarrollados fue la Guerra del Opio en 1839, en la que Gran Bretaña, por la fuerza de las armas, impuso a China el libre comercio y la apertura de sus puertos, como reacción al intento del gobierno chino de prohibir el comercio del opio, que introducía la compañía británica de Indias Orientales. Unos años después entraron en el conflicto Francia, Estados Unidos y Rusia, forzando a China a tratados, conocidos por la Historia como los “Tratados Desiguales” que abrieron 11 puertos al exterior, y crearon para China enormes desequilibrios comerciales.

India y China aportaban todavía en 1800 el 53% de la producción manufacturera global, pero ya en 1900 habían descendido al 5%.

La gran bifurcación del mundo entre países ricos y países pobres se inició con la primera revolución industrial en el siglo XVIII y se reforzó con las guerras de conquista coloniales. Las políticas proteccionistas primero y la imposición del libre comercio una vez adquiridas las ventajas industriales (nunca antes), la hicieron irreversible.

Una vez que se monta el esquema de mono-producto a exportar (oro, plata, azúcar, caucho, café, algodón, etc.) ya no se logra salir de esta “jaula del subdesarrollo”. Europa y Norteamérica, que inicialmente desarrollaron sus industrias nacionales con fuertes políticas proteccionistas, impusieron después el libre comercio a los países del sur cuyas manufacturas no podían competir con las industrias maduras del norte.

Eduardo Galeano comienza su libro imprescindible “Las venas abiertas de América Latina” con esta afirmación: “La división internacional del trabajo consiste en que unos países se especializan en ganar y otros en perder”.

La economía colonial se estructuró en función de las necesidades del mercado europeo y la población indígena sometida se convirtió en un inmenso proletariado externo para la economía de las metrópolis. La función de beneficiario principal del sistema fue asumida paulatinamente por los Estados Unidos. En 1916, cuando Lenin escribió su libro sobre el Imperialismo, el capital norteamericano abarcaba menos del 20% de las inversiones extranjeras privadas directas en América Latina y el Caribe. En 1970 ese porcentaje era ya el 75%. Y no es esta una historia limitada a los siglos precedentes: Todavía hoy los políticos de Estados Unidos invocan la Doctrina Monroe (“América para los americanos”) como el fundamento de su política exterior.

Las instituciones del capitalismo dependiente estuvieron orientadas a la extracción de valor, no a creación de valor económico. Las clases dominantes de la sociedad colonial latinoamericana y luego de las economías capitalistas subdesarrolladas, no se orientaron jamás al desarrollo económico interno, sino al lujo, el despilfarro y la dependencia.

Veamos como ejemplo de esa incapacidad de las clases dominantes del capitalismo dependiente, el caso de Cuba en 1920, cuando los precios del azúcar colocaron al país en un alto nivel de exportaciones, superior en ese momento al de Inglaterra, pero esos ingresos no se utilizaron en función del desarrollo industrial del país, sino que escaparon al extranjero y/o financiaron el consumo suntuario de las élites.

El mercado interno, limitado por la pobreza de las mayorías, no funcionó como atractor de desarrollo industrial, y eso no fue producto de ninguna ley de la economía, sino de una opción política.

La desnacionalización de las economías latinoamericanas se reforzó en la segunda mitad del siglo XX con las doctrinas económicas neoliberales impuestas por las dictaduras militares. El primer “experimento” lo hicieron los asesores económicos norteamericanos en Chile, bajo la dictadura de Pinochet. Luego siguieron otros. La misma  y escasa ayuda oficial al desarrollo que reciben los países de América Latina se utiliza mayoritariamente para financiar compras en los Estados Unidos, convirtiéndose así en un subsidio a los exportadores norteamericanos. La dependencia se reforzó con la desnacionalización del sistema bancario.

La experiencia histórica indica con claridad que la inserción en la economía global no siempre es fuente de desarrollo, sino que puede ser el camino de la profundización del subdesarrollo, especialmente si la inserción no conlleva capacidades de creación de conocimiento.  Ello depende del tipo de inserción en la economía mundial que se construya. Y los rasgos que definen el tipo de inserción en la economía mundial se dibujan día a día, incluyendo el día de hoy mismo, en cada decisión de inversión, en cada contrato comercial, en cada préstamo, en cada asociación económica internacional.

En la economía global del siglo XXI, las ventajas naturales (minerales, tierra, posición geográfica, atractivos turísticos, etc.) existen y hay que usarlas, pero pierden progresivamente importancia ante las “ventajas construidas” (cohesión social, estabilidad política, seguridad ciudadana, educación, salud, capacidades científicas, cultura). La construcción de esas ventajas, es una función insustituible del Estado Socialista.

Razonemos entonces con profundidad sobre las raíces de nuestras dificultades actuales, y con mucha lucidez sobre lo que hay que hacer ahora; pero al mismo tiempo, defendamos con firmeza lo que tenemos y principalmente la opción soberana de superar al mismo tiempo el capitalismo y el subdesarrollo.

Así lo sentenció José Martí en 1890: “La Razón, si quiere guiar, tiene que entrar en la caballería”.

(Tomado del blog del autor)

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