Alessandra Riccio
Fra i tanti post che ricordano il sessantanovesimo anniversario dell’Assalto alla Caserma Moncada, quello che più mi ha commosso è quello dello scrittore e professore universitario Julio César Guanche: un collage ardito fra l’elegante sintesi che ne fa il grande scrittore José Lezama Lima e il ricordo fratturato, dolente, tragico nella sua grandezza, di una delle due sole donne che parteciparono a quel tragico assalto, Haydee Santamaria, la fondatrice e l’anima della Casa de las Américas. Ricordando Dante mi è venuto da domandare: “E se non piangi, di che pianger suoli?”
Julio César Guanche, 26 luglio 1953
C’è stato un tempo, a Cuba, in cui un artista come José Lezama Lima scriveva, a proposito del 26 luglio del 1953:“Si diceva che il cubano era un essere <desabusé>, che era deluso, che era un pessimista preso di sé, che aveva perduto il senso profondo dei suoi simboli. Come una pietra di frustrazione, il cubano contemplava Martí morto, esposto all’entrata di Santiago de Cuba, o Calixto García obbligato a restarsene contemplando le montagne, senza potere entrare nella città. Ma il 26 luglio ha rotto l’incantesimo infernale, ha portato gioia poiché ha fatto ascendere, come un poliedro di luce, il tempo delle immagini; i suonatori di cetra e di flauti hanno potuto accendere i loro fuochi nella mezzanotte impenetrabile.”Un tempo in cui Jorge Mañach scriveva, senza firmare per ragioni ovvie, il prologo della prima edizione de La storia mi assolverà.
Oggi sembra che tutto venga dimenticato tanto rapidamente quanto superficialmente.(Frammenti della testimonianza di Haydee Santamaría sull’Assalto al Moncada):“Qualunque cosa sotto le pallottole, sotto le raffiche delle mitragliatrici, fra le grida di dolore di quelli che cadevano feriti, fra gli ultimi lamenti di quelli che morivano. Qualunque cosa è poco o molto e non si sa come un evento di questa natura si svilupperà. Nessuno sa cosa succederà nei minuti seguenti. Ci sono cose che si sanno, come tutto ciò che si ama. Sono andata al Moncada con le persone che più amavo. Lì c’erano Abel e Boris [fratello e fidanzato] e c’era Melba e c’era Fidel e Renato ed Elpidio e il poeta Raúl, Mario e Chenard e gli altri ragazzi e c’era Cuba e in gioco c’era la dignità del nostro popolo offesa e la libertà oltraggiata e la Rivoluzione per restituire il popolo al suo destino.
Poi ci furono i primi secondi e i primi minuti e poi furono ore. Le peggiori, le più sanguinose, le più crudeli, le più violente ore delle nostre vite. Furono le ore in cui tutto può essere coraggioso ed eroico e sacro. La vita e la morte possono essere nobili e belle quando bisogna difendere la vita o offrirla assolutamente.Quello che ho inutilmente cercato di dimenticare. Quello che io ricordo avvolto in una nebulosa di sangue e di fumo. Quello che ho condiviso con Melba. Quello che Fidel racconta in La Storia mi assolverà. La morte di Boris e quella di Abel. La morte mietendo quei ragazzi che tanto amavamo. La morte che macchiava di sangue le pareti e l’erba. La morte che governava tutto, che conquistava tutto. La morte che si imponeva come necessità e la paura di morire senza che fossero morti quelli che dovevano morire, e la paura di morire quando la vita può ancora strappare l’ultima battaglia alla morte. Ci sono dei momenti in cui niente fa paura, né il sangue, né le raffiche di mitragliatrice, né il fumo, né il puzzo di carne bruciata, di carne rotta e sporca, né l’odore di sangue caldo, né l’odore di carne coagulata, né il sangue sulle mani, né la carne a pezzi marcendo fra le mani, né il gemito di chi sta per morire. Né il silenzio terribile che c’è negli occhi dei morti. Né le bocche semiaperte dove sembra di scorgere una parola che se fosse detta ci gelerebbe l’anima. C’è un momento in cui tutto può essere bello ed eroico. Quel momento in cui la vita per il tanto che importa e per l’importanza che ha, sfida e vince la morte. E allora senti come le mani si stringono ad un corpo ferito che non è il corpo che amiamo, che può essere il corpo di uno di quelli che sono venuti a combattere, ma è una corpo che si dissangua, e lo alzi e lo trascini fra le pallottole e fra le grida e fra il fumo e il sangue. In quel momento una può rischiare tutto per conservare quello che importa veramente, che è la passione che ci ha portato al Moncada e che ha i loro nomi, che ha il loro sguardo, che ha le loro mani accoglienti e forti, che ha la loro verità nelle parole e che potrebbe chiamarsi Abel, Renato, Boris, Mario o avere qualunque altro nome, ma sempre in quel momento e in quelli seguenti potrebbe chiamarsi Cuba.Un uomo ci si è avvicinato. Abbiamo sentito un’altra raffica di mitragliatrice. Sono corsa alla finestra. Melba è corso dietro di me. Ho sentito le sue mani sulle mie spalle. Ho visto quell’uomo che mi si avvicinava e ho sentito una voce che mi diceva: «hanno ammazzato tuo fratello». Ho sentito le mani di Melba. Ho sentito di nuovo il rumore del piombo crivellando la mia memoria. Ho sentito che dicevo senza riconoscere la mia stessa voce: «Era Abel?» quell’uomo non ha risposto. Melba mi si è avvicinata. Tutta Melba era in quelle mani che mi accompagnavano. «Che ora è?» Melba ha risposto: «Sono le nove».
Questi sono i fatti che restano conficcati nella mia memoria. Non ricordo niente altro con esattezza, ma da quel momento non ho pensato a nessun altro, allora ho pensato a Fidel. Pensavamo a Fidel. A Fidel che non poteva morire. A Fidel che doveva restare vivo per fare la Rivoluzione. Alla vita di Fidel che era la vita di tutti noi. Se Fidel era vivo, Abel e Boris e Renato e gli altri non erano morti, sarebbero rimasti vivi in Fidel che avrebbe fatto la Rivoluzione cubana e che avrebbe restituito al popolo di Cuba il suo destino.”