Sono trascorsi 4 anni da quel 4 di agosto del 2018 in cui, durante un atto pubblico a cui partecipavano le più alte autorità civili e militari, un attentato con droni carichi di esplosivo avrebbe potuto compiere una strage in Venezuela. L’attentato fallì grazie all’intervento delle forze di sicurezza, lasciando comunque un saldo di 7 feriti, tra i militari che assistevano all’81° anniversario della fondazione della Guardia Nazionale Bolivariana. L’attentato, denominato “Operazione Fenix”, venne rivendicato dal gruppo di opposizione, Movimiento Nacional Soldados de Franelas, su un account twitter creato nel 2014.
Tuttavia, nonostante la dinamica dell’attentato fosse stata documentata dalle immagini dei media che seguivano l’evento e anche da prove audio-video diffuse dalla stessa opposizione golpista, che lo aveva pianificato da Miami, subito la propaganda internazionale iniziò a parlare di un “presunto” attentato, assumendo la difesa del governo colombiano e dei suoi padrini nordamericani, contro i quali l’inchiesta bolivariana aveva subito puntato il dito.
Arroganza e discredito: si stava mettendo in scena una tattica ben consolidata in tutti gli anni di attacco al processo bolivariano che, in seguito, avrebbe raggiunto forme parossistiche con l’assedio multiforme messo in atto a partire dall’autoproclamazione di Guaidó come “presidente a interim”.
Per quell’attentato, ora sono state condannate a pene tra i cinque e i trent’anni (in Venezuela non esiste l’ergastolo), 16 persone e un dirigente di Primero Justicia, Juan Requesens, condannato a 8 anni per cospirazione. Requesens, in prima fila nelle violenze del 2017, note come “guarimbas”, è stato deputato nel parlamento del 2015, nel quale l’opposizione ottenne la maggioranza e dal quale si organizzarono tutti gli attacchi al processo bolivariano. Per quelle violenze, fu detenuto fino al 2020, quando ottenne gli arresti domiciliari a seguito di un nuovo gesto di apertura deciso dal governo bolivariano per riportare le componenti golpiste nell’ambito della competizione democratica.
Analizzare la dinamica e il significato di quell’attacco, a quattro anni di distanza, consente di mettere in luce la natura, la progressione e le caratteristiche dell’assedio al Venezuela bolivariano, inteso come laboratorio per la guerra multiforme scatenata dall’imperialismo, ma anche come laboratorio di resilienza, i cui insegnamenti trascendono i confini del paese. Una battaglia concreta e simbolica, i cui momenti, le cui tematiche e i cui attori politici si possono delineare a partire dalle figure condannate per quel tentativo di strage, come lo stesso Requesens.
Dieci giorni dopo dall’attentato, sulla base delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero, Tareck William Saab, ha imputato 34 persone, fra cui due militari, come presunti esecutori e mandanti. A Jorge Rodriguez, allora ministro della Comunicazione, toccherà poi illustrare al paese le prove di quella trama, che mostrerà la “guerra per procura” scelta da Washington per destabilizzare il paese bolivariano. Sul piano interno, le pedine azionate hanno avuto uno dei principali appoggi nel partito Primero Justicia, fondato da Julio Borges. Requesens confesserà di aver ricevuto ordini da lui, vero manovratore politico dell’operazione.
Il governo ne chiederà l’estradizione alla Colombia, uno dei paesi coinvolti nell’attacco insieme al Cile e al Messico, in base di altre confessioni acquisite, che chiamavano in causa il ruolo di queste diplomazie di stanza a Caracas. Fondamentale, la testimonianza di uno dei detenuti, Henryberth Rivas Vivas, alias Morfeo, che aveva rivelato il ruolo delle ambasciate sopracitate nel dare appoggio logistico ai mercenari. L’allora ministro degli Esteri messicano, Luis Videgaray, è stato in prima fila in tutte le iniziative destabilizzanti, intraprese contro il Venezuela nell’ambito dell’Organizzazione degli Stati Americani, punta di lancia del killeraggio internazionale contro il governo Maduro, insieme al famigerato Gruppo di Lima.
I media al soldo di Washington, usarono la risposta delle diplomazie in questione come prova della “debolezza” del governo Maduro a livello internazionale: ovvero per preparare l’accoglienza all’autoproclamazione di Guaidó, riconosciuto un minuto dopo la sceneggiata dall’allora presidente Usa, Donald Trump. Una farsa messa in moto nel 2019, in un giorno simbolico, il 23 gennaio, quando il popolo cacciò il dittatore Marcos Pérez Jimenez, nel 1958. Com’era già avvenuto nel corso delle “guarimbas”, la borghesia cercava di imporre il proprio “racconto”, capovolgendo il significato vero dello scontro di classe in corso in Venezuela: presentando, cioè, la rivolta dei ricchi come una ribellione “democratica” contro “la dittatura”, e le conseguenze delle misure coercitive unilaterali illegali come indice del fallimento del socialismo, in qualunque forma. La battaglia del simbolico fa parte della strategia del “caos controllato”, che mira a seminare confusione nelle forze popolari, all’interno e all’esterno del paese: soprattutto fra quei settori di sinistra che, nel cuore del capitalismo, vengono indotti dagli apparati di propaganda a seguire false bandiere.
In seguito all’attentato con i droni, comprati su internet al prezzo di 6.000 dollari e caricati di esplosivo al plastico, prendeva corpo anche la campagna contro “la repressione del regime”, che avrebbe alimentato, a suon di milioni erogati dai sostenitori di Guaidó, quella sull’”esodo” dei migranti venezuelani. Anche in questo caso, golpisti come l’ex sindaco della Gran Caracas, Antonio Ledezma, insieme al solito Borges, onnipresenti sui media europei, servirono a pompare il tema, screditando ogni dichiarazione del governo bolivariano.
Quel che avrebbe dovuto saltare agli occhi e indignare i tanti “sinceri democratici” che stavano applaudendo un tizio farfugliante, non eletto dal popolo, come presidente “a interim” del Venezuela, erano le interviste di questi loschi figuri, nelle quali chiamavano apertamente all’assassinio del legittimo presidente Maduro. A fornire loro il megafono erano quegli stessi media, pronti a chiedere il massimo della galera per chiunque accenni a protestare in Europa contro le ingiustizie del sistema.
Lo stesso meccanismo praticato da Carla Angola, giornalista di opposizione che risiede in Florida, condannata per apologia di reato a proposito dell’attentato con i droni. Ancora di recente, Angola ha commentato: “Ogni volta che gli Stati Uniti ammazzano a un leader di una organizzazione criminale, il venezuelano sulle reti sociali si chiede: perché non fanno lo stesso con Maduro?”
Dopo l’attentato con i droni, Trump ha dato corso al tentativo di trasformare Maduro nel nuovo Noriega, screditandone la figura, fino a mettere una taglia sulla sua testa e su quella di altri alti dirigenti bolivariani come “narcotrafficanti”: per arrivare, come a Panama nel 1989, a invadere il paese per difendere la “sicurezza nazionale” degli Stati uniti, essendo il Venezuela già stato dichiarato “una minaccia inusuale e straordinaria” dal decreto del democratico Obama. Quanto gli Stati uniti fossero stati a un passo dal mettere in atto i propri piani, lo hanno confessato vari esponenti dell’amministrazione Trump.
Quei meccanismi, concreti e simbolici di “sanzioni”, censure e autocensure, li vediamo agire, sullo scenario globale, in presenza del conflitto in Ucraina e contro la Russia. Così come è stato fatto contro chi ha osato difendere il diritto all’autodeterminazione del Venezuela bolivariano, sono state stilate “liste di proscrizione” nei confronti di chi non si è accodato al pacifismo bellico proclamato a sostegno della Nato e contro la Russia.
Ma, a distanza di quattro anni e con la dignità del Venezuela bolivariano che sventola come una bandiera, emergono anche le contromisure, prese dalla direzione del processo bolivariano, a cominciare dal presidente Maduro. Che quella acclamata e riconosciuta da molte “democrazie” avanzate fosse una banda di lestofanti, è ormai ammesso sia dagli Usa che dalla stessa opposizione. Tanto che il golpista Borges ha rinunciato al suo ruolo di rappresentante (virtuale) dell’autoproclamato all’estero.
La maschera è caduta grazie all’azione intelligente del governo bolivariano, che ha saputo riportare nella competizione democratica le frange più moderate dell’opposizione, e si è mosso con saggezza nelle dinamiche internazionali, situandosi all’interno di un mondo multicentrico e multipolare.
Ma l’asse portante della resilienza e della ripresa di slancio della rivoluzione bolivariana, è stato ed è senza dubbio il potere popolare organizzato. Come ha ricordato la deputata Tania Diaz, si deve alla meticolosità di Dario Vivas, responsabile degli eventi pubblici, se quel giorno si è prodotto un piccolo scarto nel previsto posizionamento degli alti comandi e del presidente, che ha cambiato il corso di quell’attentato. “Noi rivoluzionari siamo fatti di verità”, suole ripetere Maduro mentre, come diceva Mao, l’imperialismo continua a essere una tigre di carta.