Quando scrivano la vita i buoni, alla fine vincitori, si saprà che non usiamo veleno come aroma dei fiori.
Silvio Rodriguez
Michel E. Torres Corona www.granma.cu
Al principio c’è stato il fuoco, la grande esplosione. Un fulmine ha solcato, sanguinante, la notte di Matanzas. Uno degli enormi serbatoi che immagazzinava combustibile si è incendiato. Uomini e donne, persone coraggiose, sono andate incontro alle fiamme, per contenere quel mostro igneo affinché non finisse per divorare tutto sul suo passaggio. Nelle prime battaglie sono stati sconfitti; alcuni di loro sono morti. Quelli di noi che, da lontano, stavano venendo a conoscenza di quel feroce combattimento, cominciavamo a renderci conto che non si trattava di un incendio comune. Sono state le prime ore di uno dei peggiori disastri che il nostro Paese ha sofferto nella sua storia.
A Matanzas si è riunito il meglio di Cuba: vigili del fuoco da tutto il Paese, determinati a vendicare i loro compagni caduti con l’irreversibile morte delle fiamme; giornalisti che ci hanno preso per mano tra fuliggine, paura e fumo; l’inestimabile esercito di camici bianchi, curando il ferito, calmando i parenti, offrendo la spalla a coloro che piangevano le vittime del sinistro. A Matanzas c’era anche qualcosa del meglio della nostra porzione di umanità: fratelli dal Messico e dal Venezuela che sono accorsi, prontamente, all’appello di Cuba.
La guerra contro il fuoco è durata diversi giorni ma, alla fine, il fumo è diventato grigio e poi bianco, le alte fiamme si sono estinte. Quelli di noi che amiamo Cuba si concediamo un minuto di felicità nel mezzo del dolore per i defunti, nella certezza che, con il combustibile perso, tutto sarebbe, in futuro, ancora più difficile. È stata una vittoria, sì, un’altra, benché non la celebriamo nel solenne rispetto di coloro che sono morti, benché sappiamo che abbiamo ancora molte sfide e difficoltà da superare.
Al di là del loro apparente segno politico, gli odiatori, coloro che ci aggrediscono o sono complici dei nostri aggressori, non possono nemmeno riconoscere quella vittoria. Sono persone senza cuore che, segretamente o apertamente, si rallegravano della potenza dell’incendio, dello stridore delle esplosioni; persone che hanno invocato il karma o una presunta punizione divina, meritata, o per il progetto del Codice delle Famiglie o per i decenni del socialismo; frustrati e perdenti che hanno visto nella forza della Natura l’unica opzione per ottenere quel “cambiamento” per il quale mancavano loro coraggio e intelligenza.
Incapaci di celebrare il coraggio dei nostri vigili del fuoco, donatori di sangue, hanno cercato di convertire il trionfo sulle avversità a Matanzas in una campagna contro il servizio militare obbligatorio. E sì, è vero che lottando contro il fuoco sono morti uomini eccellenti, di età e origini diverse. Ed è anche vero che, in questi tempi, dobbiamo ripensare al servizio militare, non solo nei suoi contenuti, bensì nel suo carattere volontario o obbligatorio, sia maschile che femminile: non è logico che siamo paladini dell’equità e continuiamo a convalidare questo tipo di distinzioni. Ma lanciarsi in quella campagna, in questo preciso momento, non è altro che abietto opportunismo.
Quando si scriva la storia di quel fulmine che ha solcato, sanguinante, la notte di Matanzas, quando si ricordi la terribile battaglia tra la vita e la morte, si leggerà molto chiaramente che non fummo noi i velenosi, gli intriganti, i falsari; si vedrà, nitidamente, tutto ciò che ci contraddistingue. Non si può essere buono se si desidera il male per Cuba e a me, benché sia per un momento nel mezzo del lutto, sono felice di riconoscermi nella parte giusta.