Avanza la “pace totale” nella Colombia di Petro e Francia Marquez
Geraldina Colotti
“La pace non è solo una questione militare, ma deve tener conto dell’equità e della giustizia sociale, della democratizzazione e del rispetto dei diritti umani. Altrimenti, se la pace si limita alla smobilitazione, si chiama pacificazione”. Così si è espresso Antonio Garcia, massimo dirigente dell’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) in una recente intervista.
Garcia ha così sintetizzato il pensiero della guerriglia colombiana, la seconda per grandezza e longevità dopo le Farc, esprimendo in che modo l’ELN concepisce la partecipazione ai negoziati che il presidente Gustavo Petro ha deciso di riaprire anche con loro. Un punto che l’ELN ha sempre messo in primo piano, è stato quello della partecipazione popolare al tavolo dei negoziati: “Quello a cui stiamo lavorando nella società – ha detto Garcia – è un processo di dialogo come forma e meccanismo di partecipazione, sia per individuare i problemi della società, sia per mettere a fuoco le risposte negative dei governi, sia per formulare proposte di trasformazione”.
Con questo spirito, la guerriglia si avvia a una nuova tornata di colloqui con il governo di Gustavo Petro. Per facilitarli, il presidente ha sospeso i mandati di cattura e di estradizione ai negoziatori già presenti all’Avana. Erano rimasti bloccati lì dall’irrigidimento del governo Duque, intenzionato a seppellire l’accordo di pace concluso con le FARC, nel 2016, dal suo predecessore Manuel Santos, che per questo si era guadagnato il Nobel.
Nel quadro della ripresa di relazioni tra Colombia e Venezuela, Petro ha chiesto al governo di Nicolas Maduro di essere garante di questo nuovo processo di dialogo. Il Venezuela ha immediatamente dato la propria disponibilità. E, per questo, dopo 4 anni di stallo, è arrivata a Caracas via l’Avana una delegazione dell’ELN, accompagnata dai rappresentanti dei paesi accompagnatori del processo: Cuba, Venezuela e Norvegia. Ieri, è stato diffuso un primo accordo, sottoscritto da Garcia e Pablo Beltran, per l’ELN, e dai rappresentanti del governo Petro, nel quale si stabilisce la road-map delle discussioni e gli obiettivi.
L’ELN, così si è espresso in un comunicato: “Questa è una vittoria della ragione e del Diritto internazionale di fronte alla perfidia del governo Duque, che non solo ha cercato di farsi beffe degli obblighi contratti con l’ELN e con la comunità internazionale, ma ha voluto causare un grave danno al popolo e alla Repubblica di Cuba, per aver ospitato le conversazioni nel suo impegno per la pace in Colombia”.
Una pace che Petro vorrebbe fosse “totale”, per garantire i cambiamenti necessari al “vivere bene” di cui parla la vicepresidente Marquez, ovvero garantire la possibilità di esprimere il meglio dell’essere umano in sicurezza e in armonia, intendendo la politica come poter fare e non come lotta di apparati per la sopraffazione.
Una violenza diventata strutturale, saldamente intrecciata al blocco di potere che governa per conto dell’imperialismo, che si serve della Colombia come il suo principale gendarme in America Latina, e per questo ha disseminato il territorio di basi militari Usa. Secondo l’Istituto Indepaz, dall’inizio dell’anno, sono già 83 i massacri di ex combattenti, leader sociali e giornalisti.
Gli ultimi sono avvenuti a Cali e nell’area di Barranquilla, dove sussistono, nonostante la loro scomparsa formale, le cosiddette Autodifese Gaitaniste di Colombia (Agc), Los Costeños y Los Rastrojos. Quest’ultimo è il gruppo criminale alleato dell’autoproclamato “presidente a interim” del Venezuela, Juan Guaidó, che lo aiutò durante il tentativo di invasione dalla frontiera, mascherato da “aiuto umanitario”.
Instaurare, come vorrebbe Petro, un nuovo concetto di sicurezza, non più basato sul modello nordamericano, ma sul concetto del “vivere bene”, significa pertanto assumere uno scontro di interessi a vasto raggio, che il neo presidente, ex guerrigliero e politico navigato, cerca di depotenziare partendo “dal basso” e dalla ricostruzione di un nuovo legame sociale.
Per questo, il governo ha cominciato a installare nelle regioni più funestate dagli omicidi e dalle prevaricazioni, Puestos de Mando Unificado por la Vida (PMU): per portare la presenza dello Stato nelle zone più colpite e rispondere alla domanda di sicurezza delle comunità risolvendo i problemi alla radice. Inoltre, ha lanciato un appello a tutte le organizzazioni criminali spiegando la “convenienza” di aderire al progetto di “pace totale”.
E, per questo è apparsa di gran significato la nomina della nipote dell’avvocato ucciso, María Valencia Gaitán, come nuova direttrice del Centro Nazionale della Memoria Storica (Cnmh). Un incarico ricoperto prima da Darío Acevedo, che fu nominato dall’ex presidente Duque nel 2019, e che si dedicò a smontare ogni tentativo di ricostruire le responsabilità dei paramilitari e di far rispettare gli accordi di pace e le istanze che vennero create in conseguenza.
Il Cnmh nacque durante il governo di Juan Manuel Santos (2010-2018) con l’intento di esaminare e catalogare tutte le prove documentali riguardanti le violazioni ai diritti umani compiute durante il conflitto armato in Colombia. Un compito che la gestione di Valencia Gaitán dovrà portare avanti sviluppando le attività del Museo de la Memoria, recuperando, preservando e mettendo in comune le memorie delle vittime delle violazioni durante il conflitto, affinché il danno venga riparato e sia irripetibile.
“Credo sia la persona adatta – ha detto Petro -, in quanto vittima del processo iniziale della violenza che ci ha riunito qui, e per le sue doti accademiche, a guidare questo Centro Nazionale della Memoria, questi processi di memoria, che costituiscono, in fondo, la verità di un conflitto”.
Una battaglia, quella per la memoria, che travalica i confini della Colombia, dato il numero di sfollati o perseguitati dalla violenza paramilitare sparsi nel mondo. Anche a questo riguardo, il governo di Petro e Marquez rappresenta una svolta storica, come indicano alcuni gesti coraggiosi compiuti per riavviare il processo di pace: la nomina a ministro degli Esteri di Alvaro Leyva, ex mediatore nelle conversazioni tra il governo colombiano e le Farc, e anche lo spazio dato alle donne nel nuovo governo. Significativa anche l’elezione di varie deputate indigene in un paese che conta una popolazione originaria pari al 2% dei 42 milioni di abitanti. I Wayúu sono il popolo indigeno più numeroso, con circa 260.000 abitanti.
Il 6 agosto, alla vigilia dell’assunzione di incarico di Gustavo Petro come primo presidente di sinistra della Colombia, i popoli indigeni, afro-discendenti, gitani e contadini gli hanno dedicato una cerimonia simbolica, che si è svolta nella capitale. Le comunità hanno consegnato a Petro e alla vice Francia Marquez le loro richieste principali: pace nei territori isolati, difesa dell’ambiente, protezione delle minoranze, trasformazione delle politiche di lotta alla droga, difesa dei diritti umani, riforma delle forze armate…
A presiedere la cerimonia ancestrale c’era Carmen Ramirez Boscan, indigena del popolo Wayúu della Guajira, che il giorno dopo accompagnerà il presidente anche durante l’assunzione d’incarico, come rappresentante dei colombiani all’estero, eletta alla camera per il Pacto Historico.
Una vittima della violenza di frontiera nel territorio della Guajira, la regione più settentrionale della Colombia, che si estende fino al confine con il Venezuela. Un suo zio è stato ammazzato, un fratello ha ricevuto minacce dai paramilitari anche di recente, e lei è stata obbligata a lasciare il paese, e a rimanere in Svizzera dopo un incontro internazionale a cui aveva partecipato come delegata.
L’abbiamo incontrata a Roma, nel corso del suo viaggio di consultazione popolare sui “dialoghi regionali vincolanti” e sull’agenda di “pace totale” del nuovo governo. Con Carmen, e con le associazioni di migranti colombiani in Italia, abbiamo discusso del concetto di “sicurezza umana” voluto da Petro per risolvere la violenza nei territori, e della riapertura del dialogo con i guerriglieri dell’ELN, arrivati per questo a Caracas, dopo la riapertura della frontiera tra Colombia e Venezuela.
In un libro del 2007, intitolato “Desde el desierto”, tu hai analizzato gli effetti del conflitto armato nel territorio Wayúu e l’impatto delle multinazionali presenti nel territorio. Qual è ora la situazione?
Ho documentato la violenza e le cause che la producono per esperienza diretta. Oggi la prima sentenza collettiva prodotta dalla legge Giustizia e pace riguarda la mia famiglia come vittima del paramilitarismo, insieme ad altre 300 persone. In una sentenza di oltre 700 pagine si ordina allo stato colombiano di compire una riparazione collettiva e spirituale alla mia famiglia, e di ripristinare i diritti dell’organizzazione Fuerza de Mujeres Wayúu di cui sono fondatrice. In questi anni, ho partecipato come delegata del mio popolo a numerosi convegni internazionali sui diritti umani, ambientali e di genere, e sui diritti dei migranti. A causa della chiusura della frontiera, totalmente arbitraria, che ha colpito la sovranità di un paese fratello, come il Venezuela, la situazione del mio popolo nella Guajira è peggiorata. Noi siamo un popolo di camminanti, il confine che ci divide con l’altra parte della frontiera, è artificiale, c’è un continuo andirivieni dai due lati. Da noi, un’intera generazione è stata decimata, 5000 bambini sono morti di sete e di fame, perché l’acqua che doveva servire a noi in quanto bene comune ci è stata sottratta dall’industria del carbone. Quarant’anni fa, l’impresa del Cerrejon è arrivata promettendo sviluppo alla comunità e l’unica cosa che ha provocato è stata la distruzione di una generazione in nome dello sviluppo neoliberista.
E adesso pensi che il programma di Petro e Marquez, la quale ha vissuto situazioni simili alla tua, possa scardinare un sistema di potere sostenuto dalle basi militari Usa?
Poco tempo fa c’è stato un foro sull’attività mineraria organizzato dalle imprese di Cartagena. Vi hanno assistito varie ministre, tra le quali Susana Muhamad, ministra dell’Ambiente. Dovevi vedere la faccia degli imprenditori quando lei diceva che l’acqua è un diritto umano, non spetta di diritto alle multinazionali, e che questa è una priorità del nostro governo. Ma non si può continuare a pensare che lo sfruttamento della Madre terra e delle risorse naturali non stia portando gravi conseguenze. I nostri nonni dicevano che estrarre carbone dalla terra è come estrarle le viscere come stuprare una donna, la madre di tutte le madri.
Qual è il programma del governo per i migranti colombiani?
Stiamo raccogliendo proposte per il piano di governo nazionale, basato sulla giustizia economica, su quella ambientale, sulla giustizia riparativa, in un’agenda di “pace totale”. All’esplosione sociale, che si è verificata in Colombia nel 2020 e nel 2021, è seguita un’esplosione dell’immigrazione, conseguenza di una pandemia mal gestita dal governo Duque, e della repressione. Di recente sono stata in un carcere, c’erano ragazzi di vent’anni condannati a pene spropositate per aver protestato, con ragione, per tutti noi, vittime di un lawfare terribile. Altri hanno dovuto scappare verso paesi che ormai considerano l’immigrazione come un delitto, come qui in Europa, mentre la mobilità delle persone è un diritto, dare asilo è un diritto. E, intanto, si danno aiuti selettivi, discriminatori, in base a criteri politici, come ora agli ucraini.
Cos’hai provato quando Petro ha fatto arrivare la spada di Bolivar nel suo primo giorno da presidente?
Un grande orgoglio e un’emozione immensa, che si percepiva in tutta la piazza Bolivar. Un momento storico. Io, insieme ad altre deputate indigene, ho avuto l’onore di accompagnare il presidente sul palco quando ha detto solennemente: Portatemi la spada, che sono il presidente. La spada che Duque avrebbe voluto proibire. La spada del Libertador, della Gran Colombia liberata, che chiunque può ammirare oggi come simbolo di libertà e di augurio per la Patria Grande.