Geraldina Colotti
Nel regno di Narnia, i topi governano e gli umani si ammazzano per le croste di formaggio. Con tutto il rispetto per i topi e per la loro notevole organizzazione sociale, è questo il metro di misura per comprendere la farsa messa in atto da Guaidó e compari contro il popolo venezuelano. Una realtà virtuale che, non avendo bisogno di riscontri, può andare avanti all’infinito, con la complicità di quanti, dentro e fuori il paese, continuano a trarne beneficio.
Adottare la prospettiva di Narnia implica una narrazione che la sostenga e che porta a guardare il mondo dal fondo del bicchiere, per vederlo sempre colmo, o almeno mezzo pieno. Così appare la lettura diffusa dalla stampa egemone circa la 52 assemblea dell’OSA, che si è svolta a Lima, in Perù, il 4 ottobre. Un incontro a cui hanno partecipato i ministri degli Esteri di gran parte dei Paesi della regione, che hanno accolto il segretario di Stato USA, Antony Blinken, reduce da un viaggio in Colombia e Cile.
Si è discusso di Democrazia e crisi mondiali, dunque più di tutto della la crisi determinata dal conflitto in Ucraina, dei suoi riflessi sul continente, ma anche della crisi ambientale e di quelle regionali: “Nicaragua, Haiti, Venezuela, Cuba e migrazioni”. Per il Segretario generale dell’OSA, Luis Almagro, l’ossessione resta la stessa, attaccare i governi socialisti e progressisti della regione: Cuba, Venezuela, Nicaragua, benché abbiano deciso di abbandonare “il ministero delle colonie”, come Fidel Castro definì a suo tempo l’organismo.
Un’ulteriore dimostrazione, si è avuta, come si sa, durante il golpe in Bolivia contro Evo Morales nel 2019, nel quale Almagro, sempre pronto a brandire a senso unico la “Carta democratica” apparve nuovamente in prima fila, spianando il cammino all’autoproclamata Janine Añez. Il fallimento della farsa delle autoproclamazioni è ormai apertamente ammesso, anche dalla stampa Usa: “Piaccia o no agli Stati Uniti, Maduro è il presidente del Venezuela”, ha scritto di recente il New York Times.
Che lo schema sia duro a morire in quel di Washington, si è visto però nella gestione mediatica seguita al voto all’Osa della proposta per cacciare il rappresentante di Guaidó, Gustavo Tarre Briceno, un vecchio attrezzo della IV Repubblica. Sulla base di 34 Stati membri, la proposta ha ottenuto 19 voti favorevoli (Panama, Perù, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Suriname, Trinidad e Tobago, Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia , Cile, Colombia, Dominica, Granada, Honduras e Messico), quattro contrari (Paraguay, Stati Uniti, Canada, Guatemala) e nove astensioni (Giamaica, Repubblica Dominicana, Uruguay, Brasile, Costa Rica, Ecuador, El Salvador, Guyana e Haiti), mentre due delegazioni erano assenti.
La proposta, quindi, non è passata, ma solo tirando il voto per i capelli, i media egemonici hanno potuto presentare il risultato come una vittoria da celebrare. In realtà, anche questa votazione, all’interno del decrepito organismo internazionale, fotografa la crisi di egemonia del modello Almagro e la nuova ondata progressista che ha investito l’America Latina e che, se Lula vincesse il 30 ottobre in Brasile, porterebbe a che sei delle principali economie del continente (Brasile, Messico, Argentina, Cile, Colombia e Perù) sarebbero guidate da governi di sinistra.
Ora, le dichiarazioni finali hanno approvato “per acclamazione” una risoluzione riguardante la “profonda preoccupazione” per il continuo “deterioramento dei diritti umani in Nicaragua”, che ha chiesto “al Nicaragua di garantire l’accesso pieno e senza ostacoli al suo territorio delle organizzazioni internazionali per i diritti umani in uno spirito di trasparenza e responsabilità”. Il clima, però, è cambiato, anche per Almagro, messo sotto inchiesta dall’Osa per una possibile “violazione del codice etico”, dovuto a una relazione intima con una funzionaria di origine messicana.
Seppure in un altro contesto, con un procedimento analogo e con la stessa motivazione, è stato rimosso dalla presidenza del BID (la Banca Interamericana di Sviluppo), l’uomo di Trump, il cubano (“gusano”) Mauricio Claver-Carone. Nel 2020, la sua nomina generò una storica discontinuità nell’organismo, tradizionalmente diretto da un latinoamericano, portando alla presidenza, per la prima volta dalla sua creazione nel 1959, uno statunitense, seppur di origine cubana. Ora, la candidatura più titolata è quella dell’Argentina.
A sostenere, però, il regno di Narnia, c’è un poderoso intreccio lobbistico basato sul lucroso commercio dei “diritti umani”, usati come arma dalle agenzie nordamericane. Un fiume di denaro che l’amministrazione USA eroga ogni anno a questo fine, con il sostegno dei vassalli europei, e che serve a pilotare le “emergenze”, a erogare sostanziosi premi, e a pilotare le decisioni negli organismi corrispondenti.
E così, a guidare il coro di giubilo per la mancata rielezione del Venezuela al Consiglio dei diritti umani, è stato Louis Charbonneau, direttore per le Nazioni Unite della ONG Human Rights Watch (con sede a New York). Lo schema è sempre il medesimo: si commissiona un rapporto di parte, stilato da presunti esperti indipendenti, con la complicità dei media, che silenziano invece altri rapporti davvero indipendenti, di segno opposto; lo si presenta con gran stridor di trombe qualche giorno prima del voto negli organismi, e poi si lascia spazio all’azione lobbistica che deve influenzarlo.
In questo caso, dopo una votazione a scrutinio segreto, non è passata la candidatura del Venezuela, ma quella del Cile (col suo corredo di manifestanti accecati e nativi incarcerati) e del Costa Rica, che non si fa certo problemi a reprimere le lotte di massa, ma si è distinto per l’attacco al Nicaragua sul tema delle ong. Immediato il commento delle destre, soddisfatte che Cina e Russia abbiano perso un sostegno importante. “Eleggere il Venezuela – ha detto Charbonneau – avrebbe significato dare uno schiaffo ai milioni di venezuelani che soffrono per le violazioni ai diritti umani e ai milioni che sono stati obbligati a fuggire da questo stato fallito”.
Uno schiaffo, soprattutto, al portafoglio dei sostenitori del regno di Narnia, e al lucroso business dei “migranti venezuelani” che si va sgonfiando con l’arrivo di Gustavo Petro alla presidenza della Colombia.