Geraldina Colotti
Quanti sono i media, le piattaforme, le ong per i “diritti umani” con relativo portale informativo e diffusioni di statistiche che ricevono, direttamente o indirettamente, finanziamenti da Washington e suoi derivati? A volte, scoprirlo è facile, perché i finanziatori o gli sponsor sono dichiarati, tanto più da quando, nei paesi capitalisti, è diventato un vanto e non una vergogna essere nelle grazie del grande padrino occidentale.
Altre volte, è più difficile, perché, come nella catena produttiva del valore, prima di arrivare all’origine, bisogna inseguire molti fili, delocalizzati in quelle aree del pianeta dove lo sfruttamento intensivo del lavoro vivo ha ancora meno argini che nelle “democrazie” avanzate. Alla concentrazione monopolistica del potere economico corrisponde quella mediatica, alla parcellizzazione e globalizzazione della produzione, corrisponde la frammentazione della notizia, che rende complicato creare nessi d’analisi, fuori dal messaggio imposto dalle emittenti egemoniche.
Un articolo assai ben documentato, comparso l’anno scorso su Cubadebate (qui tradotto in italiano)
mostra in dettaglio la portata della ramificazione, i suoi terminali, i grandi interessi che la guidano e i suoi obiettivi reali.
Altre volte ancora, però, capire quali siano i “padroni” della notizia, è facile: basta seguirne il filo in base ad alcuni “rilevatori” automatici inerenti il “cattivo” di turno, preso di mira nella retorica fra “bene” e “male”. Il “bene”, si sa, promuove la “democrazia” e i “diritti umani”, anche a suon di bombe, lawfare e “sanzioni”, giustificato dalla mostrificazione del nemico, compito a cui si dedicano i media a livello internazionale.
Chi difenderebbe, infatti, un “terrorista” o un governo “narco-trafficante” finanziatore del “terrorismo”, chi difenderebbe un presidente o un dirigente sulla cui testa i “buoni” hanno persino messo una taglia come fece Trump con Nicolas Maduro, Diosdado Cabello e con altri dirigenti del governo bolivariano?
Non fa una piega. Ma è nelle “pieghe”, nell’obliquità, e nella confusione di cui si pasce la disinformazione capitalista, che occorre indagare per risalire all’origine della ramificazione. L’asserzione, infatti, non spiega la notizia, tantomeno se chi la diffonde come verità rivelata (dalle agenzie Usa) si riempie la bocca con il “pluralismo dell’informazione” che implica, come minimo, anche l’altra campana.
Quel che accade, invece, è che appena si diffonde un dato positivo sull’economia di uno “stato-canaglia” (secondo le vere canaglie), ecco partire la ragnatela della narrazione di regime, composta da mille fili di notizie “negative”, tanto più penetranti se provengono da chi scrive nei giornali di quella ex sinistra, ben decisa a dimostrare che non esistano alternative al disastro del capitalismo.
E quanto più il disastro è evidente e suscita la rabbia dei settori popolari, quanto più si alza il tono delle menzogne, suffragate da una pletora di “prove”, provenienti dalle agenzie di cui sopra. Ora che tutte le proiezioni danno l’economia venezuelana in crescita di un 10%, mentre su tutte quelle dei paesi capitalisti incombe la recessione, ecco ripartita la grancassa mediatica. Si va dall’uso strumentale di una tragedia, come l’alluvione in Aragua, a un elenco di fatti negativi da brivido, tesi a occultare la verità.
Si parla, per esempio, di “crisi infinita, servizi collassati, sette milioni di profughi”, costretti a prostituirsi o a mendicare. Le fonti? Per la maggior parte hanno sede negli Usa e ricevono finanziamenti dalle agenzie governative. I loro dati servono per “orientare” il contesto politico e la cosiddetta “opinione pubblica”: l’International Rescue Commitee (più volte chiamato in causa per l’inesattezza dei suoi dati), il Foreign Policy (rivista del Dipartimento di Stato nordamericano che è stata diretta dal noto giornalista dell’opposizione venezuelana, Moisés Naim), Freedom House (Ong con sede a Washington che promuove la democrazia nel senso illustrato dall’inchiesta di Cuba Debate), e alcuni “autorevoli” esperti e professori, tutti di marca Usa.
Lo ha spiegato con cifre e dati l’analista politico venezuelano, Roigar Lopez, specialista in comunicazione digitale, a proposito del diplomatico Alex Saab, sequestrato a giugno del 2020 e deportato negli Usa: il flusso di notizie negative non suffragate dai fatti, ma tese a squalificare l’immagine del diplomatico e del Venezuela, messe in moto dal portale armando.info – ha detto Lopez -, si intensifica in prossimità delle udienze sul riconoscimento dello status di diplomatico di Alex Saab, sempre procrastinate da Washington. È accaduto anche di recente.
La prossima udienza, per Saab, è fissata per il 12 dicembre. Ma, intanto, la campagna sporca, è ripartita, prendendo di mira il Venezuela bolivariano: per evitare che, nell’Europa che affama ed esclude, il socialismo torni a mostrarsi come unica via di riscatto per i settori popolari.
Prendiamo a riferimento l’ultimo vertice della Commissione economica per l’America Latina (Cepal), che si è concluso a Buenos Aires, in Argentina. Per il 2023, l’organismo prevede una crescita media di solo l’1,4%. Unica eccezione, il Venezuela, con una crescita prevista di almeno il10%. Un miracolo economico generato dalle decisioni messe in campo dal governo che – ha detto il ministro degli Esteri venezuelano, Carlos Faria – hanno favorito l’economia interna: mediante il forte sostegno alle piccole e medie imprese, alla creatività di genere, e grazie alla legge anti-bloqueo, che ha attirato gli investimenti esteri (dai paesi alleati e non solo), a seguito del varo di cinque Zone economiche speciali.
E questo, nonostante tutte le aggressioni subite a causa delle misure coercitive unilaterali illegali, imposte dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. Misure che hanno fortemente penalizzato il paese anche durante la pandemia, aiutati da una propaganda mediatica che accusava il Venezuela di essere il fulcro della pandemia, quando il suo impatto negativo è stato fra i più bassi del mondo.
La Cepal, spiega in una nota come il conflitto in Ucraina abbia influito negativamente sulla crescita globale, oltre ad “accentuare le pressioni inflazionistiche, la volatilità e i costi finanziari”. La maggiore avversione al rischio, unitamente alla politica monetaria più restrittiva delle principali banche centrali mondiali – aggiunge -, “ha danneggiato i flussi di capitali verso i mercati emergenti, compresa l’America Latina, oltre a favorire il deprezzamento delle valute locali e rendere più oneroso l’ottenimento di finanziamenti per i paesi della regione”.
I paesi della regione si troveranno, quindi, nuovamente ad affrontare un contesto internazionale sfavorevole, in cui si prevedono un rallentamento sia della crescita che del commercio mondiale, tassi di interesse più elevati e minore liquidità globale. La commissione ha spiegato che secondo le proiezioni, tutte le sotto-regioni mostreranno una crescita inferiore il prossimo anno. Il Sud America crescerà dell’1,2% nel 2023 (3,4% nel 2022).
Qui, “alcuni paesi risentono particolarmente del basso dinamismo della Cina, che è un mercato importante per le loro esportazioni di merci. È il caso, ad esempio, di Cile, Brasile, Perù e Uruguay, che destinano più del 30% delle proprie esportazioni di merci al Paese asiatico (40% per il Cile)”. Centro America e Messico cresceranno dell’1,7% il prossimo anno (contro il 2,5% nel 2022).
Per la sotto-regione, “il basso dinamismo degli Stati Uniti, principale partner commerciale e principale fonte di rimesse per i loro paesi, influenzerà sia il settore esterno sia i consumi privati”. Infine, i Caraibi cresceranno del 3,1%, escludendo Guyana (rispetto al 4,3% nel 2022).
Così, sempre a Buenos Aires, intervenendo nella III Riunione ministeriale Celac-Ue, Faría ha offerto il sostegno del Venezuela all’Unione europea (Ue) per superare la sua crisi energetica, frutto del persistente conflitto in Ucraina con il suo corredo di speculazioni finanziarie: in cambio di una revoca delle “sanzioni” imposte al Venezuela, e di uno sblocco di beni di Caracas congelati in alcuni Paesi europei. Un discorso che ha unito le voci degli altri paesi latinoamericani, come Cuba e Nicaragua, colpiti dalle stesse politiche neocoloniali, ben sintetizzate dalla risposta ottusa dell’Alto Rappresentante per gli Affari esteri della Ue, Josep Borrell. In una conferenza stampa, Borrell ha ribadito che la Ue, con il suo concerto stridente di squali in lotta fra loro, come dimostra l’atteggiamento autolesionista dimostrato nelle sanzioni alla Russia, deve continuare a esercitare tutte le “pressioni politiche possibili per favorire il ritorno del dialogo formale tra il governo venezuelano e l’opposizione”.