Geraldina Colotti
Occhi puntati, questa domenica 30 ottobre, sul Brasile, per la seconda volta delle elezioni presidenziali, che vedono in campo Lula da Silva contro il presidente uscente, Jair Bolsonaro. Difficile pronosticare se il candidato della sinistra, l’ex sindacalista Lula del Partito dei Lavoratori, che ha governato il paese tra il 2003 e il 2010, manterrà il vantaggio di quasi 8 punti, come dicono gli ultimi sondaggi, o se la partita si giocherà al fotofinish, in base a quelle inchieste che danno i due candidati in parità.
Di sicuro, l’estrema destra di Bolsonaro – il Trump brasiliano – sta sparando tutte le sue cartucce: anche in senso letterale, considerando che è di questi giorni l’uccisione di un ex consigliere federale del Pt, e che sabato, le reti sociali hanno diffuso l’immagine di una deputata bolsonarista, intenta a sparare per le strade di San Paolo. Episodi che si aggiungono alle tante denunce di minacce e violenza da parte delle squadracce bolsonariste, pronte a qualunque scenario.
Di sicuro, anche in caso di vittoria, la partita per Lula sarà tutta in salita, giacché, per come stanno le cose – hanno già anticipato banchieri, imprenditori, e rappresentanti della finanza internazionale – chiunque governi dovrà sottostare ai diktat del grande capitale internazionale. Tanto più che l’estrema frammentazione del quadro istituzionale rende particolarmente precari gli equilibri usciti dalle urne, e traballanti le alleanze che, com’è accaduto durante il secondo governo di Dilma Rousseff, consentono a una formazione alleata – ago della bilancia – di far cadere il governo, o di organizzare un golpe istituzionale. Fece così Michel Temer, vice di Rousseff, con il suo Partito del movimento democratico. Una precarietà che ha impedito una riforma istituzionale che superasse quella frammentazione, che pesa ancora sul futuro politico del 5° Stato al mondo per ordine di grandezza.
Il vice di Lula è ora l’ex governatore di San Paolo Geraldo Alckmin, il Macri brasiliano, cattolico conservatore, che fu suo avversario, ex membro dell’Opus Dei di cui si cerca di far dimenticare il volto repressivo. Difficile credere che saprà offrire migliori garanzie: almeno per quei settori popolari che hanno rimproverato ai governi Rousseff la timidezza nell’affrontare le riforme strutturali sempre promesse, a cominciare dalla riforma agraria. Al contrario, la crisi politica seguita al golpe istituzionale, ha permesso agli emissari del grande capitale internazionale di calare la scure sulle pensioni e sulla legislazione del lavoro, e di spianare, a colpi di lawfare, la strada a Bolsonaro.
Temer, che poté contare con il pubblico appoggio di Alckmin durante la sua presidenza, fece il lavoro sporco che gli era stato commissionato: mise in atto un altro piano di aggiustamento strutturale che portò il 5% del paese ad accumulare una ricchezza pari a quella del 95% della popolazione.
Fu artefice della riforma del lavoro che ha eliminato conquiste storiche ottenuto durante i governi Lula. Inoltre, impose un tetto di spesa che ha limitato severamente le politiche pubbliche. Lo scorso giugno, Alckmin si è riunito con Temer per garantire che una eventuale riforma della legislazione del lavoro non intaccherà l’architrave dell’ultima controriforma.
Gli apparati ideologici di controllo, ben foraggiati dalle multinazionali che li guidano, hanno attivato, infatti, le potenti chiese evangeliche e il conservatorismo più torvo, come si è visto durante tutta la campagna elettorale. Con il recupero dell’alleanza con Marina da Silva, ambientalista e evangelica progressista, Lula cerca di offrire un’alternativa, così come cerca di arginare il voto conservatore con la presenza del vice Geraldo Alckmin.
Se Lula vince, governerà un paese molto diverso dal Brasile che ha guidato tra il 2003 e il 2010, e anche da quello del governo Rousseff. Il ritorno dell’onda conservatrice in America Latina ha profondamente cambiato i rapporti di forza all’interno e le collocazioni nello scenario internazionale. Certo, la partita si è riaperta con alcune vittorie a sinistra nel continente, in Perù, in Cile, e soprattutto in Colombia.
La deriva moderata di Boric in Cile, lo stritolamento del maestro Castillo in Perù mediante il lawfare, le fauci spalancate dell’imperialismo sul cambiamento iniziato da Petro in Colombia, il ricatto del debito che sta prostrando le speranze progressiste in Argentina, non consentono, però, di intravvedere un futuro roseo, se affidato soltanto a un cambiamento elettorale. D’altro canto, in Brasile, se Bolsonaro perde, sarà la destra a elevare lo scontro di classe, forte del sostegno che ha ricevuto e riceve anche da parte dell’estrema destra europea: cominciando dal partito Vox e dalla “fratellanza” italiana.
Queste elezioni brasiliane sono soprattutto un laboratorio delle elezioni di medio termine negli Stati Uniti. Come fece Trump nel 2020, Bolsonaro, che suole criticare il Tribunal Superior Electoral (TSE) a ogni intervista, ha spinto i militari a contare di nuovo i voti dopo i risultati del primo turno, benché il sistema di voto sia automatizzato, e venga usato senza problemi dal 1996. La stessa narrativa usata dalla destra in Venezuela e in Perù.
Un reportage pubblicato dalla Agencia Publica del Brasile, ha mostrato quanto queste strategie osservate in America Latina siano il riflesso di quelle diffuse negli Stati Uniti. C’è una rete di disinformazione di provenienza Usa, ben finanziata, che lavora per seminare dubbi sui risultati elettorali della sinistra e per minarne la legittimità. Lo si è visto soprattutto con il Venezuela, e con la creazione artificiale del cosiddetto “governo a interim” di Juan Guaido.
Si fa sempre più urgente il compito di bucare lo schermo della disinformazione, assumendo l’asimmetria in modo offensivo e creativo, come parte della necessaria battaglia delle idee.