Félix Varela, sacerdote, scrittore, filosofo, politico, è stato il primo a teorizzare il patriottismo a Cuba, colonia della Spagna. Figlio di un militare spagnolo e di una cubana di Santiago ha studiato nel Seminario di San Carlos dove poi insegna filosofia e istalla il primo laboratorio di fisica e chimica. Insegnava in spagnolo invece che in latino. Difensore dei diritti dei popoli, fu eletto alle Seconde Cortes di Cadige (1821-23) nel 1822 per le province di Oltremare dove chiede l’indipendenza dell’Ispanoamerica. Fernando VII, torna al potere e lo condanna, lui si rifugia a NY dove continua a insegnare, soprattutto fisica. Muore in Florida nel 1853.
Dal 1983 è aperta la causa per la sua canonizzazione. Nel 2012 è stato dichiarato Venerabile servo di Dio ma prosegue la lunga causa per dichiararlo santo.
Quando sono andata a Cuba per la prima volta, nel 1977 con una borsa di studio in letteratura, mi è capitato di fare un’esperienza fuori dall’ordinario e molto lontana dalla mia educazione fermamente laica. La devo ad un amico di Barcellona, Alfonso Carlos Comín, “cristiano en el Partido, comunista en la Iglesia”, arrivato all’Avana con lettere e notizie dal mio mondo lontano e, a quei tempi, di difficilissima comunicazione.
I rapporti fra le chiese e il governo rivoluzionario erano complicate e tese ma, proprio in quel 1977 Fidel Castro si era riunito con i rappresentanti della Chiesa di Giamaica (precedentemente, nel 1971, aveva incontrato i religiosi cileni). Di quell’incontro Fidel scrisse: “Dobbiamo lavorare insieme in modo che, quando l’idea politica trionferà, l’idea religiosa non resti appartata, non appaia come nemica dei cambiamenti. Non esistono contraddizioni fra i propositi della religione e i propositi del socialismo. Non esistono. Vi dico che dobbiamo fare un’alleanza strategica fra la religione e la rivoluzione. Lo dico sinceramente”.
Appena un anno prima, nella fase di Istituzionalizzazione, era stato decretato “il carattere ateo dello Stato” ma bisognò aspettare il IV Congresso del Partito Comunista di Cuba perché fosse possibile la militanza nelle sue fila dei religiosi.
Eppure, quando la diplomazia è in mani sagge, capaci di mantenere aperti i canali di comunicazione, perfino in situazione così tese come quelle dei primi decenni della Rivoluzione, personalità come quella di Monsignor Zacchi nella Nunziatura apostolica dell’Avana (dove operò per 12 anni) seppero contemperare e mantenere il dialogo. In reciprocità, il Governo cubano mandava in Vaticano i suoi più fini e colti ambasciatori come Luis Amado Blanco, José Antonio Portundo e, più recentemente, Raúl (Raulito) Roa.
Bisogna ricordare che dopo il Concilio Vaticano II, finito nel 1964, e il pontificato di Giovanni XXIII e poi di Paolo VI con la Conferenza Episcopale di Medellín del 1968 seguito da Puebla nel 1979 dove arriva Wojtyla il papato si dimostra molto più rigido. Ricordiamo il rifiuto di Wojtyla di farsi baciare la mano da Ernesto Cardenal che lo riceveva all’aeroporto di Managua.
Fra i grandi tessitori di dialogo fra la chiesa e il governo rivoluzionario ci sono state due figure notevoli, Monsignor Carlos Manuel de Céspedes sempre ispirato alla Pasión por Cuba y por la Iglesia, come Varela; e lo Storico della città, Eusebio Leal, fra i primi a sostenere i diritti delle persone religiose e l’ammissione nel partito.
Tornando a quel giorno di febbraio del 1978, avevo appuntamento all’Hotel Havana Libre con l’amico Comín e avevo coinvolto lo scrittore Reynaldo González, un ottimo conversatore e attento commentatore, ma Comín non arrivava. Il ritardo era preoccupante ma quando lo abbiamo visto arrivare, con i suoi begli occhi blu scintillanti, capimmo che aveva avuto il suo desiderato colloquio con Fidel. Ci portò su in camera dove erano stati convocati il frate trappista nicaraguense Ernesto Cardenal e il vescovo di Cuernavaca in Messico, monsignor Sergio Méndez Arceo, autore di un gesto famoso: aver fatto suonare a morto le campane della sua cattedrale alla notizia della morte di Salvador Allende in Cile. Quei religiosi latinoamericani, insieme al catalano marxista e cristiano erano euforici, gioiosi, leggeri, spiritosi ma sostenuti da una fede profondissima che io e Reynaldo, laici convinti, ammirammo e –forse- invidiammo. Da quell’incontro nella stanza dell’Havana Libre venne fuori un documento: “Reflexión cristiana en Cuba” a firma di Sergio Méndez Arceo, VII obispo de Cuernavaca; Ernesto Cardenal, Nicaragua ( ma solo poco più di un anno dopo avrebbe potuto aggiungere Ministro della Cultura del Nicaragua); Alfonso Comín, Comité Ejecutivo del Partido Comunista de España y del Partit Socialista Unificat de Catalunya. Cito le parole finali: “…consideramos que la Revolución es como el amor, que cuando uno se entrega a ella lo va poseyendo más y más. Mejor dicho, la Revolución es el amor… Hemos querido hacer pública nuestra común reflexión, con la esperanza di que la palabra de Cristo quede unida, tal com El quiso, a la suerte de los pobres, de los oprimidos, de los explotados”. (Alfonso Comín, Obras (1977-1979) III, Fundación Alfonso Comín, Barcelona, 1987, p. 465) [… crediamo che la Rivoluzione sia come l’amore, che quando uno ci si abbandona lo va possedendo sempre di più. O meglio, la Rivoluzione è l’amore … Abbiamo voluto rendere pubblica la nostra comune riflessione con la speranza che la parola di Cristo resti unita, così come lui voleva, alla sorte dei poveri, degli oppressi, degli sfruttati.]
Anni dopo, nel 2004, mi è capitato di rivivere quei giorni a Palermo con Monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea, uno degli ultimi testimoni di Medellín e della Teologia della Liberazione, invitati da Nino Fasullo e la sua bella rivista “Segno”.