Inizia l’Ucraina, finisce il Venezuela. Mentre la Nato prosegue la sua guerra per procura contro la Russia, il governo americano si rassegna alla sconfitta in Venezuela dopo sette anni di guerra ibrida: disinformazione senza freni, sbarchi di mercenari, tentati assassinii del presidente, sabotaggi di infrastrutture.
E soprattutto sanzioni.
Sanzioni devastanti, che avrebbero dovuto privare il Paese dei suoi mezzi di sussistenza, a partire dal petrolio. Nei sogni di Washington, l’odiato Maduro doveva essere spazzato via dall’insurrezione di folle affamate, da un sacrosanto golpe militare e dall’isolamento internazionale.
La guerra è iniziata sotto Obama nel 2015 all’insegna della storiella sulla contrapposizione tra democrazia e dittatura, come se i poteri di Maduro fossero superiori a quelli del presidente degli Stati Uniti, e come se le elezioni venezuelane fossero più falsate e falsabili di quelle nordamericane. La storiella perde i pantaloni sotto Trump, che inasprisce le sanzioni, ma rivela il senso ultimo della battaglia.
Socialismo e diritti umani non c’entrano nulla.
Il direttore dell’Fbi ha scritto che Donald riteneva ingiusto che Maduro restasse seduto sulla più grande riserva petrolifera del mondo in un posto a sole tre ore di volo – e di bombe – dalla roccaforte della democrazia occidentale.
Si procede allora come al solito.
Si crea il diavolo di turno. Maduro come Saddam, Gheddafi, Assad, Putin. Si chiamano a raccolta gli alleati. Si imbastisce la narrativa di un pianeta agghiacciato dagli orrori del despota di Caracas.
E si nomina come presidente un tizio pressoché ignoto agli stessi venezuelani.
Ma il mondo si compone di 194 Stati, 144 dei quali, il 75%, non ci pensano proprio a riconoscere un presidente imposto al Venezuela da un altro Stato. I restanti 50 Paesi, Ue in testa, si adeguano però alla pagliacciata e riconoscono Guaidó.
Con l’eccezione dell’Italia, governata all’epoca dai malfamati grillini.
Nel 2019, l’assemblea dei 120 Paesi Nam condanna duramente l’attacco americano al Venezuela.
E l’anno dopo, in uno scontro all’ultimo voto all’Assemblea Onu, gli Usa perdono clamorosamente.
Nel frattempo, il signor Guaidó prova a infiammare le masse. Tenta di organizzare una marcia sulla capitale, ma raccoglie solo una frazione dei seguaci necessari per giustificare il conto-spese da presentare agli americani. Finché nell’aprile 2019 blocca un cavalcavia di Caracas e attende la sollevazione del popolo e delle forze armate.
Ma non succede nulla.
E la feroce dittatura lo lascia illeso e libero perché è ormai evidente che uno così è più utile da vivo.
A questo punto, a Washington non rimane altro che ricorrere al copione dei bei vecchi tempi: uno sbarco dal mare con connesso bombardamento del palazzo presidenziale.
Un blitz veloce.
Perché i militari sarebbero stati a guardare, e la popolazione avrebbe accolto i marines come liberatori. Ma i fiaschi di Guaidó hanno indotto un guizzo di intelligenza nell’intelligence imperiale. Il verdetto dei pianificatori militari è che la conquista non si può fare.
Ci sono almeno 4 milioni di chavisti militanti, 100 mila dei quali pronti a difendere con le armi il loro governo, a fianco di un esercito di 160 mila unità tutt’altro che diviso e demotivato. E uno di questi pianificatori riassume così il problema: se invadiamo il Venezuela, inizierà come in Iraq e finirà come in Vietnam.
Gli Stati Uniti si siedono allora sulla riva del fiume.
Ma il cambio di regime non arriva perché
1) in un mondo ormai multicentrico, una parte del petrolio viene venduta lo stesso alla Cina, all’India, all’Iran, alla Russia;
2) le importazioni alimentari vengono sostituite da una crescita dell’agricoltura che porta il Venezuela alla quasi autosufficienza nutritiva;
3) l’economia viene dollarizzata e aperta agli investimenti, stimolando un boom economico tutt’ora in corso;
4) tutto ciò non accade a scapito dei poveri perché il sistema di protezione sociale che sta alla base del chavismo resta in piedi.
Le elezioni regionali del novembre 2021 – regolari secondo gli osservatori internazionali – replicano così l’ennesima vittoria dei candidati socialisti.
Siamo arrivati a Biden, il quale mantiene le sanzioni fino all’inizio della guerra contro la Russia.
Ma questa finisce col colpire la base della civiltà americana: la benzina a basso prezzo.
Washington ha bisogno urgente di petrolio, ed è obbligata a prendere atto che è ora di finirla con la sceneggiata di Guaidó. L’Ue lo ha degradato a semplice esponente dell’opposizione.
Ha perso il rispetto dei colleghi dopo che i soldi Usa sono finiti nelle tasche dei suoi amici e parenti, nonché in festini a prostitute e cocaina. Il dipartimento di Stato ha fatto filtrare in questi giorni la notizia che a gennaio 2023 scaricherà Guaidó in occasione della nuova sessione del Parlamento venezuelano.
Grazie a Pino Arlacchi , che da anni segue le vicende del Venezuela ed ha anche previsto come sarebbe andata a finire lo scontro frontale con gli Stati Uniti, di cui fa parte la Guaidó-story.
Questo il suo resoconto per Il Fatto Quotidiano.