L’assalto di domenica scorsa, 8 gennaio, alla sede del Congresso Nazionale, della Presidenza e della Corte Suprema Federale del Brasile da parte di una turba di militanti del bolsonarismo è stato un evento di indiscutibile gravità per la sua connotazione politica e istituzionale, rappresentando per lo stesso paese sudamericano un evento senza precedenti e un cortocircuito generale per la sua mappa politica.
La convenzione interpretativa conseguente all’evento è stata che si tratta di un attacco frontale alla democrazia, una sorta di manovra insurrezionale equivalente all’assalto al Campidoglio di Washington del 6 gennaio 2021, ma in formato brasiliano. Il modo in cui si è svolta l’azione violenta, l’ampia registrazione audiovisiva delle eccentricità dei sostenitori di Bolsonaro e dei danni causati, facilitano, indubbiamente, la sovrapposizione di immagini con le vicende del Campidoglio gringo.
A questo punto, dopo diversi giorni di mobilitazione convocata dal bolsonarismo per contestare la vittoria elettorale di Lula, in cui si è chiesto l’intervento (golpista) delle Forze Armate, sarebbe illusorio ritenere che l’assalto sia stato una sorpresa, al di là dello shock che ha rappresentato l’evento stesso. Riassumendo, il tavolo per un’azione violenta era stato apparecchiato ancor prima del primo round dell’ottobre dello scorso anno, con informazioni di intelligence, reportage giornalistici e avvertimenti politici che avvertivano con largo anticipo della preparazione di un dispositivo golpista e della violenza di piazza.
Il bolsonarismo ha mantenuto i suoi seguaci fanaticizzati dopo la vittoria di Lula, incentrati sulla narrativa della frode, ha prolungato lo spirito di mobilitazione e con questo hanno creato l’atmosfera di tensione psicologica necessaria per puntare sull’azione violenta di domenica scorsa, una volta solidificati i precedenti legami nella polizia militare, il corpo preposto alla sicurezza della Plaza de los Tres Poderes che è finito per scortare gli assalitori.
Con tutti questi elementi e retroscena, sarebbe ingenuo pensare che Lula ed i vertici del governo brasiliano non avessero previsto un evento di questo tipo. È altamente probabile che la decisione sia stata quella di lasciare che il piano si sviluppasse, evitando ore prima la contesa diretta per smantellare l’accampamento bolsonarista presso il Comando Generale dell’Esercito, visto che la vita e la posizione di Lula non erano in pericolo al non star fisicamente, in quel momento, nel Palazzo Planalto.
Con questa decisione, Lula ha esposto mediaticamente i violenti eccessi del bolsonarismo, ha aumentato la metrica del sostegno nazionale e internazionale intorno alla sua figura e ora ha elementi concreti per dispiegare una narrativa di condanna diffusa, perdurante nel tempo, che contribuisca a isolare il bolsonarismo dalle sue alleanze periferiche con settori conservatori della politica brasiliana. Una buona mossa del presidente nei primi cambi dopo aver ripreso il comando del Paese. Insomma, ha tradotto un tentativo di golpe (con poche possibilità di successo reale) in un quadro di giustificazione per affrontare l’inizio del suo mandato rafforzato politicamente e posizionato come il grande arbitro della politica brasiliana.
Anche se sul versante tattico tutto sembra a posto, almeno nel saldo favorevole a Lula lasciato dall’isteria di domenica scorsa, il lungo periodo della politica brasiliana appare conflittuale e preoccupante. Come sottolinea Gabriela de Lima, specialista in geografia e storia consultata dal media La Marea, il bolsonarismo va oltre la figura di Bolsonaro stesso, il che significa che non solo ha vita propria in quanto movimento, bensì che ha incorporato nuovi valori e significati (politici, etici, istituzionali) alla politica del Paese. Ha lasciato un’impronta profonda nella società brasiliana, dice Lima, che afferma che le forme di fare politica del bolsonarismo (sopprimendo il consenso come forma di governo, presentare la dittatura come una rivoluzione, tra altri attributi) hanno avuto un effetto attrattivo sociale importante.
Questa lettura, per nulla incoraggiante nell’immediato futuro per il Brasile, sembra approfondirsi quando si osservi attentamente il modo in cui è stata interpretata l’aggressione. Vale a dire la storia del consenso che l’evento si è lasciato alle spalle, e che la sinistra occidentale, nelle sue diverse declinazioni, ha disegnato come confronto binario, senza zone d’ombra, tra democrazia e autoritarismo.
In primo luogo, la difesa acritica del concetto di democrazia, una categoria che, nel contesto brasiliano, ha anche il problema di essere il risultato di un processo di transizione costituzionale tutelato dai fattori di potere della dittatura uscente. Come hanno sottolineato all’epoca Florestán Fernándes e Waldo Ansaldi, la transizione alla democrazia in Brasile ha conservato i resti dello stato di sicurezza nazionale della dittatura, persistenti ancora oggi.
La democrazia in Brasile, conclude un’inchiesta dell’Everton Rodrigo Santos, si basava su un modello di conciliazione delle élite dall’alto che, utilizzando una dinamica istituzionale condivisa da militari e partiti tradizionali, è sopravvissuto nel tempo a costo di una riduzione delle capacità del potere reale dell’istituzione presidenziale.
In questa prospettiva, l’appello per la difesa della “democrazia brasiliana” in opposizione al bolsonarismo nasconde il modo in cui quello stesso modello, che conservava i privilegi e il potere dei militari, ha incubato un movimento dal profilo neofascista. Visto così, l’attuale modello di democrazia brasiliana non è la soluzione, o il sistema da difendere da una controrivoluzione autoritaria, bensì il problema stesso. L’origine dei mali attuali.
Questo argomento si scontra con un altro problema, forse più decisivo: sono stati i meccanismi legali della democrazia brasiliana che hanno reso possibile il rovesciamento di Dilma Rousseff, nel 2016, e che hanno facilitato l’assedio giudiziario di Lula fino alla sua incarcerazione. È paradossale che sia stato il bolsonarismo, e non il PT, ad attaccare l’infrastruttura fisica di una delle principali istituzioni (il Congresso) responsabile della persecuzione del partito di Lula.
La storia della difesa della democrazia come valore neutro, totalizzante e universale da parte della sinistra occidentale non solo pecca di eccessiva generalizzazione, bensì tiene anche, nel caso brasiliano, vive leve giuridiche e istituzionali, convertite in strumenti golpisti, che sono già state utilizzate per attaccare Lula e il suo partito.
La lettura della democrazia come un fine in se stesso, e non come mezzo per una lotta politica esistenziale, spiega l’ingenuità intellettuale di una sinistra che è sempre esposta a perdere potere dopo aver convalidato un sistema di regole del gioco concepito per limitarne la sua avanzata.
Difendere acriticamente la democrazia in Brasile, così come è concepita, garantisce solo la radicalizzazione e l’espansione del bolsonarismo, poiché ne è il prodotto politico e ideologico immediato. La via costituente, una riformattazione del modello politico e istituzionale, sembra essere l’unica via per contenere il fascismo, come il Venezuela ha dimostrato in diverse fasi della sua evoluzione.
Fingere di combattere un bolsonarismo che si batte per una controrivoluzione conservatrice difendendo lo status quo che l’ha generata è un’illusione.
Un altro aspetto interessante quanto paradossale che l’assalto ci lascia è lo scambio di ruoli in termini di tattica politica e approcci teorici. La sinistra, storicamente associata a un programma rivoluzionario di rottura, creazione di un potere duale e di smantellamento delle strutture di potere borghesi e oligarchiche, ora si assesta in una difesa della democrazia consolidata che renderebbe orgogliosa l’intellighenzia liberale. La destra, invece, legata secolarmente alla conservazione dei privilegi e dell’ordine, si dedica alla distruzione delle istituzioni dello Stato e a fare del caos uno strumento politico.
Forse il problema qui non è tanto come la complessità del postmodernismo causi questi spostamenti, bensì la stessa formulazione intellettuale di dividere il mondo in sinistra e destra, poiché entrambe le categorie sono svuotate di significato e perdono ogni funzione esplicativa del presente politico.
Insomma, l’assalto il Brasile non evidenzia le “minacce contro la democrazia”, quest’ultima ha troppi difensori su entrambi i lati dello spettro politico per essere in pericolo reale, ma piuttosto i limiti intellettuali della stessa sinistra occidentale per valutare il momento con un criterio indipendente dai dogmi del liberalismo e dal suo sistema di valori e credenze presumibilmente “universali”.
Ma il fatto lascia una preoccupazione, che va persino al di là del Brasile: la volontà delle espressioni di destra di rompere il consolidato (con fini che puntano chiaramente alla più aperta oppressione politica ed economica), lottare nelle strade per un orizzonte mondiale (l’anticomunismo) e cooptare significati politici di alto valore simbolico come classe o nazione, per realizzare il suo progetto politico.
Di fronte a questo, la sinistra occidentale, che ha assunto gli eventi in Brasile come un evento di definizione intellettuale d’epoca, sembra scegliere di operare passivamente sulle regole del gioco esistenti, aspirando a sopravvivere politicamente all’interno della falsa neutralità della democrazia.
Forse un po’ di bolsonarismo, il suo spirito combattivo, la sua volontà di rompere il quadro della normalità e la sua determinazione politica e ideologica su ciò che deve essere cambiato, non danneggerebbe la sinistra occidentale e quella che ora ha il potere in Brasile. In caso contrario, l’unica cosa che possiamo aspettare è un nuovo 2016, in altri metodi.
OTRA MIRADA SOBRE LO QUE OCURRIÓ EN BRASIL
William Serafino
El asalto del pasado domingo 8 de enero a las sedes del Congreso Nacional, la Presidencia y el Supremo Tribunal Federal de Brasil a manos de una turba de militantes del bolsonarismo fue un evento de indudable gravedad por su connotación política e institucional, representando para el propio país suramericano un hecho sin precedentes y un cortocircuito general para su mapa político.
La convención interpretativa a raíz del evento ha sido que se trata de un ataque frontal a la democracia, una especie de maniobra insurreccional equivalente al asalto al Capitolio de Washington el 6 de enero de 2021, pero en formato brasileño. El modo en que se desarrolló la acción violenta, el amplio registro audiovisual de las excentricidades de los partidarios de Bolsonaro y los destrozos ocasionados, sin duda facilitan la superposición de imágenes con los hechos del Capitolio gringo.
A estas alturas, tras varias jornadas de movilización convocadas por el bolsonarismo para impugnar la victoria electoral de Lula, en las que se exigía la intervención (golpista) de las Fuerzas Armadas, sería ilusorio creer que el asalto fue una sorpresa, más allá del shock que representó el acontecimiento en sí. Resumiendo, la mesa para una acción violenta estaba servida incluso antes de la primera vuelta en octubre del año pasado, con informaciones de inteligencia, informes periodísticos y advertencias políticas que alertaban con suficiente anticipitación sobre la preparación de un dispositivo golpista y violencia callejera.
El bolsonarismo mantuvo a sus seguidores fanatizados tras la victoria de Lula, nucleados en torno a la narrativa del fraude, prolongó el ánimo de movilización y con ello fueron creando la atmósfera de tensión psicológica necesaria para apostar por la acción violenta del pasado domingo, una vez solidificadas las vinculaciones previas en la policía militar, cuerpo a cargo de la seguridad de la Plaza de los Tres Poderes que terminó escoltando a los asaltantes.
Con todos esos elementos y antecedentes, sería ingenuo pensar que Lula y la alta dirigencia del gobierno brasileño no tenían previsto un evento de tales características. Es altamente probable que la decisión fue dejar que se desarrollara el plan, evitando la contención directa horas antes para desarticular la acampada de bolsonaristas en el Cuartel General del Ejército, en vista de que la vida y el cargo de Lula no peligraban al no estar físicamente en ese momento en el Palacio de Planalto.
Con esta decisión, Lula expuso mediáticamente los excesos violentos del bolsonarismo, aumentó la métrica de apoyo nacional e internacional alrededor de su figura y ahora tiene elementos reales para desplegar una narrativa de condena generalizada, perdurable en el tiempo, que contribuya a aislar al bolsonarismo de sus alianzas periféricas con sectores conservadores de la política brasileña. Una buena jugada del presidente en las primeras de cambio tras haber asumido nuevamente el mando del país. En resumen, tradujo un intento de golpe (con pocas posibilidades de éxito real) en un marco de justificación para encarar el inicio de su mandato fortalecido políticamente y posicionado como el gran árbitro de la política brasileña.
Aunque por el lado de la táctica todo pareciera estar en orden, al menos en el saldo favorable a Lula que dejó la histeria del domingo pasado, el largo plazo de la política brasileña luce conflictivo y preocupante. Como apunta Gabriela de Lima, especialista en geografía e historia consultada por el medio La Marea, el bolsonarismo va más allá de la propia figura de Bolsonaro, lo que significa que no sólo tiene vida propia en tanto movimiento, sino que ha incorporado nuevos valores y significados (políticos, éticos, institucionales) a la política del país. Ha dejado una huella profunda en la sociedad brasileña, relata de Lima, quien asevera que las formas de hacer política del bolsonarismo (suprimir el consenso como forma de gobierno, presentar la dictadura como una revolución, entre otros atributos) han tenido un efecto de atracción social importante.
Esta lectura, para nada alentadora en el futuro inmediato para Brasil, parece profundizarse cuando se observa con detenimiento la forma en que se interpretó el asalto. Es decir, el relato de consenso que dejó el acontecimiento, y que la izquierda occidental, en sus distintas variaciones, dibujó como un enfrentamiento binario, sin grises, entre democracia y autoritarismo.
En primer lugar, la defensa acrítica del concepto democracia, una categoría que, en el contexto brasileño, además tiene el problema de ser resultado de un proceso de transición constitucional tutelado por los factores de poder de la dictadura saliente. Como destacaron en su momento Florestán Fernándes y Waldo Ansaldi, la transición hacia la democracia en Brasil conservó rezabios del estado de seguridad nacional de la dictadura, persistentes hasta la actualidad.
La democracia en Brasil , concluye una investigación de Everton Rodrigo Santos, se sustentó en un modelo de conciliación de élites por arriba que, sirviéndose de una dinámica institucional pactada por militares y partidos tradicionales, ha sobrevivido en el tiempo a costa de una reducción de las capacidades de poder real de la institución presidencial.
Desde esta perspectiva, el alegato por la defensa de la “democracia brasileña” en oposición al bolsonarismo encubre la forma en que ese mismo modelo que conservó los privilegios y el poder de los militares, incubó a un movimiento de perfil neofascista. Visto así, el modelo actual de la democracia brasileña no es la solución, o el sistema a ser defendido de una contrarrevolución autoritaria, sino el problema en sí. El origen de los males actuales.
Este argumento se enfrenta a otro problema, quizás más determinante: fueron los mecanismos legales de la democracia brasileña los que viabilizaron el derrocamiento de Dilma Rousseff en 2016 y que facilitaron el acorralamiento judicial de Lula hasta llevarlo a prisión. Resulta paradójico que fue el bolsonarismo, y no el PT, quien agredió la infraestructura física de una de las principales instituciones (el Congreso) responsables de la persecución al propio partido de Lula.
El relato de defensa de la democracia como un valor neutral, totalizador y universal por parte de la izquierda occidental no solo peca de generalización excesiva, sino que, en el caso brasileño, mantiene con vida las palancas legales e institucionales, convertidas en instrumentos golpistas, que ya fueron utlizadas para atacar a Lula y su partido.
La lectura de la democracia como un fin en sí mismo, y no como un medio para una lucha política existencial, explica la ingenuidad intelectual de una izquierda siempre expuesta a perder el poder tras validar un sistema de reglas de juego concebido para limitar su avance.
Defender acríticamente la democracia en Brasil, tal como está concebida, sólo garantiza la radicalización y expansión del bolsonarismo, pues es su producto político e ideológico inmediato. El camino constituyente, un reformateo del modelo político e institucional, pareciera ser la única vía de contención del fascismo, como en distintas etapas de su evolución ha demostrado Venezuela.
Pretender combatir a un bolsonarismo que pugna por una contrarrevolución conservadora defendiendo el statu quo que le dio origen es una ilusión.
Otro aspecto interesante a la vez que paradójico que nos deja el asalto es el intercambio de roles en términos de táctica política y planteamientos teóricos. La izquierda, asociada históricamente a un programa revolucionario de ruptura, creación de poder dual y desmontaje de las estructuras burguesas y oligárquicas de poder, ahora se afinca en una defensa de la democracia establecida que haría sentir orgulloso a la intelectualidad liberal. La derecha, por otro lado, ligada secularmente a la conservación de privilegios y al orden, se aboca a la destrucción de instituciones del Estado y a hacer del caos un instrumento político.
Quizás aquí el problema no es tanto cómo la complejidad de la posmodernidad provoca estos desplazamientos, sino la propia formulación intelectual de dividir al mundo en izquierdas y derechas, a medida que ambas categorías se vacían de significado y pierden toda función explicativa del presente político.
En definitiva, el asalto en Brasil no viene a evidenciar las “amenazas contra la democracia”, la misma tiene demasiados defensores en ambos lados del espectro político como para estar en peligro real, sino los límites intelectuales de la propia izquierda occidental para evaluar el momento con un criterio independiente de los dogmas del liberalismo y su sistema de valores y creencias pretendidamente “universales”.
Pero el hecho sí deja una preocupación, que incluso va más allá de Brasil: la voluntad de las expresiones de la derecha de quebrantar lo establecido (con fines que claramente apuntan hacia la opresión política y económica más abierta), luchar en las calles por un horizonte de mundo (el anticomunismo) y cooptar significados políticos de alto valor simbólico como la clase o la nación, para implementar su proyecto político.
Ante esto, la izquierda occidental, que ha tomado los hechos en Brasil como un evento de definición intelectual de época, parece optar por operar pasivamente sobre las reglas de juego existentes, aspirando a sobrevivir políticamente dentro de la falsa neutralidad de la democracia.
Quizás un poco de bolsonarismo, de su ánimo de combate, de su voluntad de ruptura del marco de normalidad y su determinación política e ideológica sobre lo que debe ser cambiado, no le vendría mal a la izquierda occidental y a la que ahora tiene el poder en Brasil. Si no, lo único que podemos esperar es un nuevo 2016, bajo otros métodos.