Gli USA e la gestione del tema migratorio

José Ramón Cabañas Rodríguez

Tornano ad essere notizia il numero totale di migranti irregolari provenienti da Cuba. Ancora una volta, questo tema è relazionato al verificarsi di una crisi economica nel paese e al mancato rispetto degli accordi migratori firmati tra Cuba e gli USA. Nell’opinione pubblica USA si percepisce che il trattamento dei cubani costituisce una singolarità che può essere messa in discussione.

Ma è importante capire in quale contesto si svolgono questi eventi e quale potrà essere l’evoluzione del tema migratorio in quel Paese nei prossimi anni.

Quasi tutti i politici e gli studiosi statunitensi, che hanno uno sguardo permissivo e accondiscendente di fronte al fenomeno dell’immigrazione dall’estero, partono da un luogo comune: gli USA sono un paese di immigrati. Questa affermazione che ci sembra magnanima, inclusiva e persino progressista, è di per sé un pregiudizio nei confronti della storia.

Lo spazio che oggi occupa quel paese aveva una popolazione autoctona, che è stata quasi totalmente massacrata e spogliata del suo territorio. Quest’ultimo è stato trasformato in merce, monetizzato e acquisito come fonte di originaria accumulazione, che ha permesso lo sviluppo di uno schiavismo vorace e un capitalismo dominatore.

Chiarito questo antecedente, va ricordato che l’impulso, la priorità, i tempi e le geografie del movimento migratorio verso gli USA (e nel mondo in generale) sono stati determinati da fattori puramente economici, anche se di volta in volta abbiano un vestimento politico e siano usati per difendere programmi e accedere a posizioni elettive.

L’estensione del Nord America (USA e Canada) è vasta. La creazione di colonie, domini e stati ha richiesto un’iniezione di popolazione che non era soddisfatta solo dei tassi di natalità dei residenti. Per generazioni, i lavori più duri e peggio pagati erano di pertinenza di quelli nuovi arrivati ​​che hanno accettato qualsiasi paga per poter sopravvivere e stabilirsi.

La colonizzazione statunitense del vasto territorio del Messico settentrionale e nord-orientale ha trasformato milioni di nativi di quel paese (e i loro discendenti) in stranieri nella loro stessa terra, che fino ad oggi sono stati trattati come cittadini di seconda classe.

Ogni guerra contro nemici fabbricati dalla narrativa imperialista ha creato le proprie ondate di immigrati, dai portoricani e cubani, sino a vietnamiti, russi o iracheni. A poco a poco l’imbuto si è andato chiudendo e gradualmente sono cominciate ad essere approvate norme migratorie sempre più restrittive, nella misura in cui atteggiamenti criminali o gli alti tassi di disoccupazione si associavano, sul piano politico, all’arrivo di stranieri non autoctoni. Un italiano povero del sud della penisola era culturalmente incasellato dalla cultura sociale nell’ambiente di Cosa Nostra, mentre lo scienziato tedesco importato con visto preferenziale, negli anni ’40 del XX secolo, non era necessariamente catalogato come simpatizzante nazista.

In momenti molto specifici, come l’ascesa di Berlino Ovest o gli eventi accaduti in Ungheria tra il 1956 e il 1958, le autorità migratorie USA hanno creato dispense per adeguare lo status dei cittadini tedeschi e ungheresi, in via eccezionale e per un periodo di tempo limitato.

Alla fine degli anni ’50 del XX secolo, erano 125000 i cubani che vivevano permanentemente negli USA, mentre un altro numero consistente ma impreciso di cubani si recava in quella destinazione per diversi periodi di tempo, senza stabilirvi residenza.

Quando ha avuto luogo la Rivoluzione cubana, vengono ammessi in massa negli USA rappresentanti del regime di Fulgencio Batista, parenti, accoliti e servitori, che si stimava rimanessero lì solo temporaneamente, poiché sarebbero tornati indietro per recuperare i loro beni, quando Washington “avesse risolto il problema cubano”.

Nel 1966, quando la temporaneità si è convertita in permanenza, è stata approvata la Legge di Aggiustamento Cubano, con l’obiettivo di regolarizzare lo status migratorio di decine di migliaia di cubani. L’“adeguamento” doveva essere fatto nella condizione migratoria di cubani arrivati ​​tra il 1 gennaio 1959 e il 2 novembre 1966, quando è stata firmata la nuova legislazione. Ma la porta è rimasta aperta.

I tentativi di rovesciare la Rivoluzione cubana sono rimasti nel tempo, così come la disponibilità a dare un trattamento differenziato al “danno collaterale” migratorio dell’aggressione. Nessun altro gruppo di immigrati negli USA ha ricevuto né riceve tale privilegio.

In vista del ciclo delle elezioni presidenziali del 2016, negli USA, c’erano due principali posizioni di partito su come regolarizzare la situazione di 12 milioni di persone prive di documenti residenti nel paese. Vale chiarire che non c’erano, né ci sono, sostanziali differenze tra democratici e repubblicani in merito alla forma in cui si deve regolare la concessione dei visti all’estero per garantire il furto di cervelli, cacciare talenti e importare selettivamente forza lavoro per compiti specifici, per periodi di tempo determinati.

I Democratici nei primi quindici anni del XXI secolo avevano garantito un solido sostegno elettorale tra le minoranze immigrate, in particolare ispaniche, e avevano visto come, attraverso i cambiamenti demografici, fossero riusciti a cambiare il colore di stati o città, che erano stati tradizionalmente repubblicani.

I repubblicani, dal canto loro, percorrendo lo stretto spazio del tentativo di fornire limitati spazi di accoglienza agli immigrati, ma mai i diritti di cittadinanza, hanno visto, con preoccupazione, che una grande avanzata dei loro rivali sul tema potrebbe fare la differenza in termini di registrazione dei votanti, che definirebbe l’esito di molte elezioni a venire.

L’emergere di categorie sociali come i Dreamers (sognatori) o proposte legislative come Deferred Action for Childhood Arrivals, DACA, (Azione Differita per l’Arrivo dei Minori) stavano anche creando una mistica culturale nel senso che, a un certo punto, una parte degli irregolari negli USA potrebbero vedere realizzati i propri sogni.

Quell’illusione balzata al cinema, alla radio e alla televisione, nascondeva la realtà che sotto i suoi otto anni di mandato, il presidente democratico Barack Obama ha rimpatriato il maggior numero di immigrati in termini storici, al punto che è sorto il nome di Deporter in Chief (Capo Deportere), alludendo al suo status di Comandante in Capo (Commander in Chief) in termini militari.

Quando sembrava che il dado fosse tratto tra queste due posizioni elettorali differenziate, è apparsa una terza variante inaspettata, quella proposta dal trumpismo a partire da gennaio 2017.

Con i suoi discorsi misogini e razzisti, le sue campagne di odio, più che con le sue azioni concrete, Donald Trump perseguiva un obiettivo economico, dalle indubbie conseguenze politiche, ma concepito dalla sua logica imprenditoriale: ridurre il valore della forza lavoro immigrata, e ci è riuscito.

Se fino ad allora gli immigrati che aspiravano ad essere documentati per poter passare alla cittadinanza e accedere alla capacità di proporre ed eleggere, partecipavano ad eventi pubblici, frequentavano spazi associativi, con le vessazioni subite sotto il trumpismo si sono rifugiati, letteralmente, nelle loro comunità.

In settori come l’edilizia, alimentati essenzialmente da manodopera importata, i salari sono diminuiti tanto quanto la capacità del lavoratore di reclamare un aumento, di fronte alla minaccia di essere separato dal proprio ambiente immediatamente e definitivamente.

Tuttavia, il governo di Donald Trump ha adottato particolari politiche di vessazioni contro tre paesi (Venezuela, Cuba e Nicaragua), che c’era da aspettarsi che avrebbero prodotto esse stesse flussi migratori significativi. Ancora una volta, la politica migratoria USA ha mostrato fratture, incongruità e incoerenze dal punto di vista normativo più stretto.

I flussi migratori da queste tre destinazioni hanno registrato una preminenza statistica e politica, rispetto a quelli che fino a quel momento avevano catturato maggiore attenzione dei media: salvadoregni, guatemaltechi, honduregni.

Alla fine del governo Trump, il Muro in Messico, vessillo della sua crociata anti-immigrati, non era stato costruito né, tanto meno, erano stati raggiunti gli obiettivi di interventismo a Caracas, L’Avana o Managua.

I primi due anni di Biden sul tema migratorio si erano mossi tra le contraddizioni del tentativo di riscattare l’agenda di Obama di cercare di avere più consenso elettorale tra le comunità di immigrati, subire a metà gli effetti del fallimento delle ricette di cambio di regime e, allo stesso tempo, provare a riordinare il processo di selezione degli immigrati qualificati di cui l’economia USA ha bisogno.

Nel caso cubano, ancora una volta, una parte dell’esecutivo USA ha agito in modo irresponsabile (chiudendo gli uffici consolari, sopprimendo i voli regolari, violando gli accordi migratori) di fronte al flusso migratorio cubano, per ricordare infine che è preferibile affrontare questa problematica attraverso l’uso di meccanismi reciprocamente concordati che hanno dimostrato la loro utilità in passato. Apparentemente, un altro settore delle agenzie federali sta ora riuscendo a imporre la sua visione, che una maggiore cooperazione con Cuba fornisca maggiore stabilità su quello che chiamano la frontiera sud.

Ci sono, tuttavia, altri fattori meno visibili che richiamano all’”ordine”. Quando i flussi migratori verso l’interno degli USA superano i livelli previsti nei budget, allora i fondi per una diversità di progetti sociali scarseggiano. Improvvisamente si producono coincidenze e accordi tra presunti nemici politici, sindaci e assessori repubblicani coincidono con gli scopi dei presidenti democratici, o viceversa.

Nonostante l’attuale istrionismo dei congressisti della Florida di origine cubana, nel senso di garantire i diritti speciali di coloro che arrivano dall’isola e sostengono la loro agenda, c’è una contraddizione che non sanno spiegare: se i cubani votano principalmente per la parte repubblicana e “fuggono” dal socialismo cubano, allora perché Hialeah, popolazione con la più alta densità di abitanti di origine cubana in tutta l’Unione, è allo stesso tempo il primo posto negli USA in termini di registro di beneficiari dell’Obamacare, un programma che offre servizi sanitar pubblici gratuiti a spese del bilancio federale e che viene catalogato dai suoi oppositori come “socialista”.

L’arrivo di cubani in forma non ordinata impedisce, invece, ai cacicchi repubblicani locali di riscuotere favori politici e condizionare l’arrivo di nuovi immigrati al sostegno di agende che garantiscano di continuare a dissanguare le casse del bilancio, che vengono riempite, con le loro tasse, dai contribuenti USA.


Estados Unidos y el manejo del tema migratorio

Por: José Ramón Cabañas Rodríguez

Vuelven a ser noticia los totales de migrantes indocumentados desde Cuba. Otra vez este tema esta relacionado con la ocurrencia de una crisis económica en el país y con el irrespeto a los acuerdos migratorios firmados entre Cuba y Estados Unidos. En la opinión pública estadounidense se percibe que el tratamiento a los cubanos constituye una singularidad que puede someterse a cuestionamiento.

Pero es importante entender contra qué telón de fondo suceden estos hechos y cuál puede ser la evolución del tema migratorio en aquel país en los próximos años.

Casi todos los políticos y estudiosos estadounidenses, que tienen una mirada permisiva y de aceptación frente al fenómeno migratorio desde el exterior, parten de un lugar común: Estados Unidos es un país de inmigrantes. Esa afirmación que nos parece magnánima, incluyente y hasta progresista, es en sí misma un sesgo a la historia.

El espacio que ocupa ese país hoy tenía población autóctona, que fue casi totalmente masacrada y despojada de su territorio. Este último fue convertido en mercancía, monetarizado y adquirido como fuente de la acumulación originaria, que permitió el desarrollo de un esclavismo voraz y un capitalismo avasallador.

Aclarado este antecedente debe recordarse que el impulso, la prioridad, los tiempos y las geografías del movimiento migratorio hacia Estados Unidos (y en el mundo en general) han estado determinados por factores puramente económicos, aunque de vez en cuando tengan un ropaje político y se utilicen para defender agendas y acceder a posiciones electivas.

La extensión de Norteamérica (Estados Unidos y Canadá) es vasta. La creación de colonias, dominios y estados requirió de una inyección de población que no era satisfecha solo con las tasas de natalidad de los residentes. Por generaciones, los trabajos más duros y peor pagados correspondieron a aquellos recién llegados que aceptaron cualquier remuneración para poder sobrevivir y asentarse.

La colonización estadounidense del extenso territorio del norte y noreste mexicanos, convirtieron en extranjeros en su propia tierra a millones de naturales de aquel país (y sus descendientes) que han recibido hasta hoy el tratamiento de ciudadanos de segunda clase.

Cada guerra contra enemigos fabricados por la narrativa imperialista creó sus propias salpicaduras de inmigrantes, desde los puertorriqueños y cubanos, hasta los vietnamitas, rusos, o iraquíes. Poco a poco, se fue cerrando el embudo y paulatinamente comenzaron a aprobarse normativas migratorias más restrictivas, en la medida en que actitudes criminales, o las altas tasas de desempleo fueron asociándose en el plano político con el arribo de extraños no autóctonos. Un italiano pobre del Sur de la península era culturalmente encasillado por la cultura social en el entorno de la Cossa Nostra, mientras que el científico alemán importado con visa preferencial en los años 40 del siglo XX no era necesariamente catalogado como un simpatizante nazi.

En momentos muy específicos, como el surgimiento de Berlín occidental, o los sucesos acaecidos en Hungría entre 1956 y 1958, las autoridades migratorias estadounidenses crearon dispensas para ajustar el estatus de ciudadanos de alemanes y húngaros, de forma excepcional y por un período limitado de tiempo.

A finales de los años 50 del siglo XX existían en Estados Unidos 125 000 cubanos radicando de modo permanente, mientras que otra cantidad grande pero imprecisa de cubanos viajaba con aquel destino por distintos períodos de tiempo, sin fijar residencia.

Cuando tiene lugar la Revolución Cubana son admitidos masivamente en Estados Unidos personeros del régimen de Fulgencio Batista, familiares, acólitos y servidumbre, que se estimaba que estarían allí solo de forma temporal, pues viajarían de regreso a recuperar sus posesiones, cuando Washington “resolviera el problema cubano”.

Para 1966, cuando la temporalidad se convirtió en permanencia, fue aprobada la Ley de Ajuste cubano, con el objetivo de regularizar el estatus migratorio de decenas de miles de cubanos. El “ajuste” debía hacerse en la condición migratoria de cubanos llegados entre el 1ero de enero de 1959 y el 2 de noviembre del 66, cuando era firmada la nueva legislación. Pero la puerta quedó abierta.

Los intentos de derrocar la Revolución cubana permanecieron en el tiempo, tanto como la disposición a darle tratamiento diferenciado al “daño colateral” migratorio de la agresión. Ningún otro grupo de inmigrantes en Estados Unidos recibió, ni recibe tal privilegio.

Con vista al ciclo electoral presidencial del 2016, en Estados Unidos había dos posiciones partidistas principales en cuanto a cómo regularizar la situación de 12 millones de personas indocumentadas que radicaban en el país. Vale aclarar que no existían, ni existen, diferencias esenciales entre demócratas y republicanos en cuanto a la forma en que se debe regular la concesión de visas en el exterior para garantizar el robo de cerebros, cazar talentos e importar selectivamente fuerza de trabajo para labores específicas, por períodos de tiempo determinados.

Los demócratas en los tres primeros lustros del siglo XXI habían garantizado un sólido apoyo electoral entre minorías inmigrantes, en particular hispanas, y habían visto cómo a través de cambios demográficos lograban cambiar el color de estados o ciudades, que habían sido tradicionalmente republicanas.

Los republicanos, por su parte, caminando por el estrecho espacio de tratar de brindar limitados espacios de acogida a los inmigrantes, pero nunca los derechos de la ciudadanía, veían con preocupación que un gran avance de sus rivales en el tema podría marcar diferencias en cuanto a registro de votantes, que definirían el resultado de muchas elecciones por venir.

El surgimiento de categorías sociales tales como los Dreamers (soñadores) o las propuestas legislativas como Deferred Action for Childhood Arrivals, DACA, (Acción Diferida para el Arribo de Menores) fueron creando también una mística cultural en el sentido de que, en algún momento cercano, una parte de los indocumentados en Estados Unidos podrían ver realizados sus sueños.

Esa ilusión que saltó al cine, la radio y la televisión, ocultaba la realidad de que bajo sus ocho años de mandato el presidente demócrata Barack Obama repatrió la mayor cantidad de inmigrantes en términos históricos, al punto de que surgiera el apelativo de Deporter in Chief (Deportador en Jefe), en alusión a su condición de Commander in Chief (Comandate en Jefe) en términos militares.

Cuando parecía que la suerte estaba echada entre estas dos posiciones electoreras diferenciadas, apareció una tercera variante inesperada, la que propuso el trumpismo a partir de enero del 2017.

Con su discurso misógino y racista, sus campañas de odio, más que sus acciones concretas, Donald Trump persiguió un objetivo económico, de indudables consecuencias políticas, pero concebido desde su lógica empresarial: reducir el valor de la fuerza laboral inmigrante, y lo logró.

Si hasta ese momento inmigrantes que aspiraban a ser documentados para poder transitar a la ciudadanía y acceder a la capacidad de proponer y elegir, participaban en actos públicos, asistían a espacios asociativos, con el hostigamiento sufrido bajo el trumpismo se refugiaron literalmente en sus comunidades.

En sectores como el de la construcción, nutrido esencialmente por fuerza de trabajo importada, los salarios cayeron tanto como la capacidad del empleado de reclamar un aumento, ante la amenaza de ser separado de su entorno de forma inmediata y con carácter definitivo.

Sin embargo, el gobierno de Donald Trump asumió políticas particulares de hostigamiento contra tres países (Venezuela, Cuba y Nicaragua), que era de esperar que produjeran ellas mismas flujos migratorios significativos. De nuevo la política migratoria estadounidense mostró fracturas, incongruencias e incoherencias desde el punto de vista normativo más estricto.

Los flujos migratorios de esos tres destinos vieron registrar una preminencia estadística y política, sobre aquellos que hasta ese momento habían captado mayor atención de los medios: salvadoreños, guatemaltecos, hondureños.

A final del gobierno de Trump no estaba construido el Muro de México, estandarte de su cruzada anti inmigrante, ni mucho menos logrados los objetivos de intervención en Caracas, La Habana, o Managua.

Los primeros dos años de Biden en el tema migratorio se han movido entre las contradicciones de intentar rescatar la agenda obamista de pretender contar con más apoyo electoral entre comunidades de inmigrantes, sufrir a medias los efectos del fracaso de las recetas de cambio de régimen y, al mismo tiempo, tratar de reordenar el proceso de selección de inmigrantes calificados que necesita la economía estadounidense.

En el caso cubano, una vez más, una parte del ejecutivo estadounidense actuó de manera irresponsable (cierre de oficinas consulares, eliminación de vuelos regulares, incumplimiento de acuerdos migratorios) frente al flujo migratorio cubano, para finalmente recordar que es preferible asumir esta problemática mediante el uso de mecanismos mutuamente consensuados y que han mostrado su utilidad en el pasado. Al parecer, otro sector de las agencias federales va logrando imponer ahora su visión, de que mayor cooperación con Cuba proporciona más estabilidad en lo que llaman la frontera sur.

Hay, sin embargo, otros factores menos visibles que llaman al “orden”. Cuando los flujos migratorios hacia el interior de Estados Unidos sobrepasan los niveles previstos en los presupuestos, entonces escasean los fondos para diversidad de proyectos sociales. De pronto se producen coincidencias y acuerdos entre supuestos enemigos políticos, alcaldes y concejales republicanos coinciden con los propósitos de presidentes demócratas, o viceversa.

A pesar del actual histrionismo de congresistas floridanos de origen cubano, en el sentido de garantizar los derechos especiales de los que arriban desde la Isla y apoyan su agenda, hay una contradicción que no logran explicar: si los cubanos votan mayoritariamente del lado republicano y “huyen” del socialismo cubano, entonces por qué Hialeah, población con mayor densidad de habitantes de origen cubano en toda la Unión, es a la vez el principal lugar de los Estados Unidos en cuanto al registro de beneficiarios del Obamacare, programa que ofrece servicios de salud pública gratuita a costa del presupuesto federal y que es catalogado por sus oponentes como “socialista”.

El arribo de cubanos de forma no ordenada impide, por otro lado, a los caciques republicanos locales cobrar favores políticos y condicionar la llegada de los nuevos inmigrantes al apoyo de agendas que garanticen seguir desangrando las arcas presupuestarias, que llenan con sus impuestos los contribuyentes estadounidenses.

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