Geraldina Colotti
Davanti all’ambasciata del Brasile in Italia, un gruppo di persone staziona sotto gli occhi dei turisti incuriositi. Attende il ritorno della delegazione di deputati, salita a consegnare una lettera di sostegno a Lula all’ambasciatore brasiliano. In piazza ci sono parlamentari del Pd, di Sinistra Italiana, esponenti di Rifondazione Comunista, dell’associazionismo e dei movimenti di solidarietà. Un’attivista dei Sem Terra esprime ripudio per l’attacco alle tre principali istituzioni compiuto dai sostenitori di Bolsonaro, il giorno prima, 8 gennaio. “No al golpe in Brasile. No al fascismo in Brasile”. Tutti sembrano convenire, con qualche riferimento a quel che succede in Italia, dove “un governo erede dei fascisti”, è stato votato a cento anni dalla marcia su Roma.
Un’altra piazza, quella dell’Esquilino, sempre a Roma. Un gruppetto di ragazze della comunità peruviana all’estero, srotola uno striscione: “No al golpe in Perù. Dina assassina. Basta morti. Libertà per Pedro Castillo”. Qui, ad accompagnare l’iniziativa “auto-organizzata”, non ci sono deputati. Né c’erano quando la destra golpista attaccava le istituzioni venezuelane o, con il viatico di Washington e via Colombia, organizzava un attentato con i droni contro Nicolas Maduro. Anzi. Come si ricorderà, vi fu tutto un affannarsi a ricevere il farfugliante autoproclamato “presidente a interim” del Venezuela, Juan Guaidó, e a dar spazio sui media alla sua banda di ladroni.
E ora, questo schema si cerca di imporlo anche a Cuba, sempre con l’appoggio dell’Unione europea del signor Borrell, che “accompagna” le attività dei “gusanos” per dargli riconoscimento dall’estero. L’estrema destra cubana e venezuelana, dopo aver fallito all’Avana e a Caracas, cerca di approfittare dello spazio apertosi con il governo. Dal 26 al 29 gennaio hanno organizzato a Roma un forum europeo, ospitato dalle istituzioni italiane, definito “uno spazio di dialogo contro le dittature del continente: Cuba, Venezuela, Nicaragua e Bolivia”.
Il loro scopo è tornare alle costituzioni esistenti prima della rivoluzione cubana, venezuelana e sandinista e cancellare lo Stato plurinazionale della Bolivia. Ci sono anche esponenti dell’estrema destra venezuelana abituati a mimetizzarsi per confondere i simboli e sviare i contenuti. Da un lato, quando spiegano chi sono sulla loro piattaforma, si definiscono “di destra”. Ma poi, sul loro manifesto, usano una frase di Sandro Pertini, ex presidente socialista. E, chiamando il forum contro “la dittatura comunista”, hanno il coraggio di mettere in apertura una frase di José Martí…
Questa volta, però, hanno provocato il ripudio delle organizzazioni di solidarietà con Cuba, che domani scendono in piazza a Roma e in altre città d’Italia. C’è da dire che i golpisti venezuelani, che si autodefiniscono pomposamente “esuli politici”, hanno già ricevuto a più riprese appoggi “bipartisan”, sia dalla tradizionale “sinistra” italiana e dai suoi rappresentanti al Parlamento europeo, sia dal centrodestra. E Antonio Tajani, da sempre schierato dalla loro parte, e affrontato a suo tempo dal dirigente del Psuv, Darío Vivas, durante un incontro internazionale, è ora ministro degli Esteri.
E dunque. Più che una prova in sedicesimo di “unità a sinistra”, quella piazzetta riunita dopo il golpe in Brasile indica lo stato di confusione imperante in Italia dopo la caduta dell’Unione Sovietica, e dopo la perdita di paradigmi comuni per contrastare il modello capitalista. D’altro canto, alla crisi della democrazia borghese e dei partiti tradizionali, in Italia, non si è data una risposta analoga a quella spagnola con l’irruzione di Podemos, o come quella francese con i Gilet gialli, che comunque mantengono un legame con la lotta di classe, come indica il curriculum politico di Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise.
È infatti da quegli anni, dalla sconfitta di quel ciclo di lotte, che ha lasciato un saldo di oltre 5000 prigionieri e prigioniere politiche, che il bilancio storico-politico è stato consegnato ai tribunali e alla dietrologia, evitando così la domanda inaggirabile sul perché, in Italia e in Europa, non si sia riusciti a “passare”, né con le armi, né con i voti. Che la Grecia di Tsipras sia finita come sappiamo, e nonostante la presenza di una più forte tradizione di classe e di un forte consenso, ha a che vedere con la dismissione, in Europa, delle forze della “sinistra”, più impegnate in una corsa verso “il centro” e nel riconoscimento del capitalismo come modello insuperabile, che con la costruzione di nuove modalità per fuoriuscirne, proponendo almeno riforme di struttura.
Logico, quindi, che, in Italia, il “socialismo del secolo XXI” – a cui, per esempio, Mélenchon guarda – sia visto come il fumo negli occhi o con sufficienza da quella “sinistra istituzionale” che considera il recinto della democrazia borghese così prezioso da doverlo esportare con le bombe o da doverlo imporre con le “sanzioni”: sempreché lo decida il grande padrino occidentale, di qualunque colore si ammanti.
Il feticismo della democrazia borghese e della sua “legalità”, che sempre più apertamente confligge con la legittimità dei diritti, porta a comportamenti schizofrenici. Lo abbiamo visto nei confronti di Lula in Brasile, portato dalle stelle alle stalle nel silenzio di quanti celebravano la “moderazione” del suo programma di governo rispetto ai “populismi di sinistra”, prima che la magistratura lo trascinasse nel fango del lawfare. E poi di nuovo incensato ora che Biden ne ha “riconosciuto” il governo, attaccato dagli imitatori di Trump.
Qualcosa di analogo è accaduto anche nei confronti di Evo Morales. Celebrato come “il primo presidente indigeno” fautore del “miracolo economico” boliviano, Morales fu accusato di una frode inesistente durante le elezioni del 2009. Ne seguì l’autoproclamazione di Janine Añez, benedetta dall’Osa, l’Organizzazione degli Stati Americani di Luis Almagro, che quel golpe aveva innescato.
Anche in Perù, abbiamo assistito a una nuova variante del “golpe istituzionale”, uno schema sempre più frequente in America Latina, accompagnato dal lawfare, l’uso del diritto e della magistratura a fini politici, per screditare e mettere fuori gioco figure scomode per Washington.
Dina Boluarte, vice del presidente Pedro Castillo, un maestro eletto dal popolo e non dalle oligarchie, è stata “unta” da Almagro, dunque dagli Stati Uniti, e continua a reprimere le proteste nell’indifferenza delle “democrazie” occidentali. La Celac – che comprende 33 paesi americani e caraibici, tranne gli Stati Uniti e il Canada – ha espresso in questi giorni il suo sostegno al legittimo presidente imprigionato e una ferma condanna del golpismo e della repressione. Di ben altro tenore e ipocrisia è suonata invece la dichiarazione del Parlamento Europeo, che ha manifestato “la speranza che il comportamento impeccabile e responsabile delle autorità peruviane rafforzerà la democrazia in Perù”.
Quanto “impeccabile” sia stato questo comportamento, lo testimoniano gli oltre 60 morti, le centinaia di detenzioni illegali e ferimenti dei manifestanti disarmati, gli stupri dei militari denunciati durante la repressione agli studenti che occupavano l’università di Lima: per difendere il loro voto, disattivato dai continui attacchi contro il governo Castillo. In una recente intervista, l’avvocato di Pedro Castillo, Wilfredo Robles, ci ha spiegato le tappe del golpe, e le trappole tese al maestro rurale, che rappresenta le popolazioni indigene più povere, scese a protestare anche nella capitale.
Robles, che è stato in carcere 11 anni prima di essere scagionato dall’accusa di “terrorismo”, ha spiegato come il ricatto del “terruqueo” – espressione coniata dalle forze repressive per definire gli oppositori alla dittatura fujimorista – venga utilizzato costantemente contro i nuovi movimenti di opposizione. A questo pensano le grandi concentrazioni mediatiche che, in America Latina come in Europa, distruggono carriere politiche scomode e ne costruiscono altre confacenti alla continuità del sistema dominante.
Meccanismi che vediamo agire anche dalle nostre parti, dove il ricatto del passato conflitto pesa come un macigno sulle nuove generazioni, obbligate a prendere le distanze dalla lotta di classe, pena essere definiti “terroristi”. Intanto, un’osservazione generale dei fatti, sia a livello europeo che internazionale, mostra la crescita delle organizzazioni di estrema destra, favorite dalla dismissione della “sinistra” e dal trasformismo che storicamente caratterizza il fascismo.
Il partito Vox, in Spagna, è al centro della ricostruzione di una vera e propria “internazionale nera” che, con l’appoggio dei partiti xenofobi europei, si è trasferita in Latinoamerica, e ha i suoi centri nevralgici nei paesi in cui occorre rimettere in moto un nuovo “Plan Condor” economico-finanziario, ma anche militare, contro i governi socialisti o progressisti della regione: dal Brasile, alla Colombia, dal Messico al Perù, dall’Argentina alla Bolivia. E, ovviamente al Venezuela, vero e proprio laboratorio delle guerre di Quarta e Quinta generazione, ma anche della resistenza che è possibile opporre. E che parla anche a noi.
Intanto, perché ha mostrato che è dal rafforzamento delle proprie radici – anticoloniali e rivoluzionarie -, e non dal loro sradicamento, che si può ricostruire una prospettiva di cambiamento radicale per le classi popolari e un’unità nella diversità. Vale ricordare che, in Venezuela come in Italia e in Europa, dopo la rivoluzione cubana si è avuta una lunga guerriglia, che ha combattuto le “democrazie camuffate” della IV Repubblica.
Lì, però, si è dato un bilancio storico che ha rivitalizzato e non demonizzato i tentativi rivoluzionari, trasportando nel presente quelle istanze di cambiamento radicale, il cui spirito connota la resistenza quotidiana all’imperialismo. Una resistenza, e questo è l’altro elemento importante, organizzata dal Partito Socialista Unito del Venezuela (Psuv), che unisce una capillare organizzazione di massa all’azione cosciente di una direzione politica, orientata dalla difesa della memoria nel suo profilo anticapitalista, antimperialista e anti-patriarcale. Lo si è visto in occasione del 23 gennaio, data in cui si commemora la cacciata del dittatore Marcos Pérez Jimenez da parte del popolo, nel 1958.
Il Psuv ha pubblicato la lettera del dirigente Fabricio Ojeda quando si dimise da parlamentare per passare alla lotta armata, il 30 giugno del 1962. Quale fosse la situazione economica del paese petrolifero, nel 1958 e negli anni successivi, lo spiegano alcuni libri fondamentali, scritti da marxisti quali Ali Rodriguez Araque o Salvador de la Plaza, co-redattore della legge di riforma agraria durante il governo di Romulo Betancourt. Salvador ha segnalato la sproporzione tra la produzione petrolifera e il consumo interno, e il fatto che questa risorsa non rinnovabile fosse controllata dalle grandi multinazionali che portavano all’estero oltre il 40% del valore dell’esportazione, ostacolando e possibilità di sviluppo indipendente del paese.
Nella sua lettera di rinuncia, dopo il tradimento adeco-copeyano, Ojeda spiegò che il Venezuela necessitava di un cambiamento profondo per ritrovare il suo profilo di nazione sovrana, per recuperare le sue ricchezze, che erano in mano al capitale straniero. E scrisse: “Il 23 gennaio, devo ammetterlo a mo’ di autocritica costruttiva, in Venezuela non è successo niente altro che un semplice cambio di uomini con altri a dirigere le istituzioni pubbliche”. Come chiave per comprendere l’importanza di quella data storica e quel che ne è seguito, il Psuv ha pubblicato poi alcune frasi di bilancio sia del comandante Chávez che del presidente Maduro.
A ogni latitudine, la battaglia per la memoria storica è uno strumento fondamentale per la ricostruzione di un’alternativa al capitalismo anche nel presente. La borghesia lo sa bene, e per questo dispiega grandi mezzi per distruggere, screditare o distorcere il portato delle vittorie o delle sconfitte dei precedenti tentativi rivoluzionari. In questo ha gioco facile nei paesi capitalisti, dove la dismissione delle sinistre tradizionali ha aperto la strada a un vero e proprio corto circuito politico e simbolico, teso a confondere e dunque a impedire il risveglio e il posizionamento di nuovi movimenti popolari contro il nemico comune.
Che Maduro, in Europa, venga considerato “un dittatore”, mentre il pagliaccio Zelensky sia diventato il nuovo eroe dei talk show, come prima lo era il ladrone farfugliante, autoproclamatosi “presidente a interim” del Venezuela, ha molto a che vedere con l’imposizione di una memoria addomesticata da parte dei vincitori, che ha preso piede soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ma anche – per quel che riguarda l’Italia – dopo la sconfitta del tentativo rivoluzionario che si è dato, a sinistra del Partito Comunista più forte d’Europa, che aveva riconosciuto la Nato già nel 1973, nel corso degli anni 70 del secolo scorso.
Una strategia di inquinamento simbolico che si cerca di trasferire anche in America Latina. Così, in Venezuela, anche in questo 23 gennaio, alcuni sicari delle opinioni si sono esercitati persino nel recupero della figura del dittatore Marco Pérez Jimenez, per sminuire l’importanza dell’insurrezione popolare, e della rivoluzione bolivariana, che ne ha ripreso il testimone.
Un terzo, fondamentale, messaggio, che viene dalla rivoluzione bolivariana, riguarda la necessità di attrezzare la soggettività rivoluzionaria circa i costi da pagare per non finire come la Grecia di Tsipras, che ha ceduto al ricatto del Fondo Monetario Internazionale, nonostante il consenso di cui godeva. E occorre mettere in rilievo, in questa fase, anche l’importanza di essere inseriti nel campo dei paesi che si muovono per la costruzione di un mondo multicentrico e multipolare, dopo il venir meno di quello socialista.
Costi che richiedono la mobilitazione cosciente e costante delle masse organizzate: per resistere all’imposizione delle misure coercitive unilaterali illegali, dette “sanzioni”, che asfissiano a tutti i livelli il paese bolivariano, come accade con il bloqueo a Cuba da oltre sessant’anni. Bombe silenziose che considerano la sofferenza del popolo come un “danno collaterale”, necessario a ottenere il cosiddetto “cambio di regime”.
Il sequestro e la deportazione del diplomatico venezuelano, Alex Saab, che ha cercato di spezzare l’assedio al Venezuela importando alimenti e medicine a rischio della sua incolumità, ne sono un esempio. Gli Stati Uniti hanno agito violando la Convenzione di Vienna e tutti i suoi diritti umani, quelli che sventolano come una bandiera per motivare le peggiori sopraffazioni. E l’Unione europea dei banchieri e dei padroni si è accodata, come sempre, dietro il gendarme occidentale.
(Articolo pubblicato su Cuatro F)