L’offerta elettorale di María Corina Machado per le primarie delle opposizioni contiene una serie di promesse in ambito politico, come la riduzione del mandato presidenziale a cinque anni, l’eliminazione del referendum revocatorio e la fine della rielezione presidenziale.
Per quanto riguarda il suo piano economico, Machado ha dichiarato in un’intervista che, se diventasse presidente, attuerebbe un piano “massiccio” di privatizzazioni di beni statali, inclusa la compagnia petrolifera statale, Petróleos de Venezuela, S.A. (PDVSA), la più grande azienda del paese.
Queste promesse sono oggetto di analisi in quanto rimandano a un quadro di coordinate politiche intrinseche ad un’agenda ben al di là dei destinatari apparenti, che sono i potenziali elettori delle primarie delle opposizioni. È, oltre a una narrazione legatla alla campagna elettorale, una strategia di pubbliche relazioni rivolta a gruppi di potere economico e politico all’interno e all’esterno del Venezuela.
LA MANCANZA DI CONGRUENZA
Dato che la precandidata Machado non ha presentato come offerta cambiare la Costituzione, le sue proposte devono essere considerate oggi incostituzionali, in ogni loro parte. Questo è un punto di partenza dell’analisi. Le sue promesse, nell’ambito politico, non hanno fondamento nel testo base della legislazione venezuelana.
Pertanto, le promesse di Machado implicherebbero più che un emendamento una linea di riforma. Con mezzi costituzionali è impossibile che la figura presidenziale della repubblica possa da solo riformare la Costituzione e Machado lo sa, in assenza di un parlamento favorevole e senza invocare un processo costituente.
Conviene inoltre analizzare il fattore di congruenza sulle posizioni della precandidata sulle modifiche alla Costituzione.
Nel 2013 Machado ha stabilito posizioni di “difesa della Costituzione” per affrontare il chavismo. Ma quello stesso anno ha sostenuto la convocazione di un’assemblea costituente, ma nel 2017, quando Maduro l’ha convocata, Machado si è opposta.
La deriva politica del personaggio l’ha portata a un’enorme flessibilità nel discorso, fino al punto attuale in cui, senza promuovere apertamente un cambiamento del testo, rimanda a misure del tutto marginali.
A proposito di PDVSA, Machado ha dichiarato: “Certo che bisogna privatizzarla. E non solo PDVSA, le società della Guayana, gli hotel, le società di telecomunicazioni. Chiedetelo a una persona che lavora in Corpoelec, o PDVSA, o SIDOR, se vuole lavorare in un’azienda pubblica o privata …”.
Tuttavia, la Costituzione afferma chiaramente all’articolo 303 che “per ragioni di sovranità economica, politica e di strategia nazionale, lo Stato conserverà tutte le azioni di Petróleos de Venezuela, S.A., o dell’entità creata per la gestione dell’industria petrolifera”.
In cosa consiste il lancio di una temeraria proposta di privatizzazione, che peraltro non è stata integrata da un’offerta politica di cambiamento costituzionale?
Bisogna guardare, di nuovo, alla congruenza della candidata. Nel 2018, di fronte alla possibilità del sequestro della proprietà statale CITGO Petroleum sul suolo USA, Machado ha espresso la sua posizione in merito alla proprietà statale degli asset strategici: “CITGO è un gioiello petrolifero che appartiene a tutti i venezuelani… Perderla sarebbe un colpo irreparabile per il futuro dell’industria petrolifera venezuelana”.
UN’OFFERTA CONTROCORRENTE
Conviene analizzare il nesso dell’offerta elettorale privatizzatrice con altri sensi comuni tra gli oppositori. Mettere sul tavolo la privatizzazione di PDVSA ha suscitato reazioni tra gli economisti antichavisti che, inoltre, sono stati soggetti politici promotori del neoliberalismo nel Paese.
Una di queste è provenuta dal presidente della società Torino Capital, Francisco Rodríguez, promotore della dollarizzazione in Venezuela. Rodríguez ha spiegato che “il trasferimento della proprietà di PDVSA ad attori privati non farebbe altro che minare la capacità del nostro settore pubblico di fornire i beni e i servizi pubblici necessari a sostenere un processo di ripresa inclusiva e sostenibile”.
Da parte sua, José Guerra, l’economista ed ex deputato (ex presidente della Commissione Finanze dell’Assemblea Nazionale del 2015), ha considerato che la riscossione storica della rendita con le compagnie petrolifere nelle mani dello Stato abbia fornito benefici alla nazione. Ha sostenuto che nei principali paesi produttori —eccetto gli USA—, gli Stati sono i proprietari delle compagnie petrolifere. «Sarà per qualche ragione”, ha argomentato, sollecitando un dibattito sulla questione ma stabilendo posizioni di dissenso.
È evidente che un teorico governo di María Corina Machado difficilmente potrebbe contare sul consenso di alcuni oppositori. Dobbiamo considerare che un’eventuale privatizzazione “massiccia” manca di possibilità di un ampio consenso politico. Considerando l’indiscutibile e sostenuto quadro di fragilità delle alleanze antichaviste, Machado starebbe scommettendo su una misura a rischio.
L’esperimento politico chiamato “interim” ha dimostrato le capacità degli oppositori nel dividersi e scontrarsi su una disputa su risorse rubate alla nazione. È logico che alcuni di loro vogliano lucrare privatizzando la PDVSA e altri preferiscano tenerla allo Stato per averne una fetta. Quindi, una misura di questo tipo non può che facilitare un possibile scenario di conflitto che indebolirebbe il governo e le alleanze per sostenere un governo antichavista.
Insomma, questo rende la proposta di Machado ancora più temeraria.
Nelle sue dichiarazioni, Francisco Rodríguez ha fatto una segnalazione che merita di essere esaminato attentamente: “La privatizzazione di PDVSA non farà altro che assicurare il trasferimento di enormi risorse dello Stato alle élite economiche che si posizionerebbero per acquisirla”.
In questo senso, ha spiegato, che coloro che propongono la privatizzazione dell’industria petrolifera omettono di discutere come si impedirebbe che essa venga acquisita ben al di sotto del valore della sua capacità reddituale “da parte di gruppi economici vicini a coloro che realizzano il processo di vendita”.
Rodríguez fa una sparata, ma mostra il punto cruciale della sua posizione.
A poche settimane dall’inizio della lunga campagna delle primarie delle opposizioni, María Corina Machado ha giocato il tutto per tutto facendo un’offerta controcorrente, senza soppesare i costi e la reale fattibilità della sua realizzazione. Ma questo non è un errore politico, per quanto possa sembrarlo.
LA STRATEGIA DIETRO LE QUINTE
Qual è la natura di una proposta di privatizzazione incostituzionale, incompleta —per non proporre la riforma della Magna Carta— e anche rischiosa per la coesione di un ipotetico governo di destra?
Questa offerta elettorale potrebbe far parte di una una costruzione narrativa rivolta a un settore “liberale” e duro dell’opposizione, regolarmente astensionista. Machado si rivolge a un segmento della popolazione in cui può crescere ed espandere la sua portata politica.
Si riferisce a PDVSA, alle industrie di base della Guayana, ai servizi pubblici e alle aziende pubbliche, ma anche all’ordine politico costruito sull’attuale Costituzione; al mandato presidenziale e al suo vettore unificante politico-elettorale, che è il voto automatizzato, per il quale ha proposto un ritorno all’arcaico voto manuale come formula “antifrode”.
Ma dove punta realmente?
Come ogni campagna politica, Machado fabbrica nuove aspettative sotto la promessa di un governo decisamente neoliberale ma lo fa mediante un’offerta contraria ai sensi comuni socialdemocratici e chavisti e alla loro tradizione di governo politico ed economico in Venezuela.
Machado punta in maniera bidirezionale sia al chavismo che ad altre opposizioni. Ma sul tema, PDVSA ha chiarito la sua offerta politica e ha posto al centro del suo discorso una disputa sulla base materiale storico-tradizionale che è esistita come parte del tessuto esistenziale dei governi del Venezuela negli ultimi 100 anni.
Tutti queste componenti riferiscono che Machado ha preso i codici della “linea dura” per replicare in Venezuela fenomeni elettorali che sono apparsi in altri paesi, come quello di Javier Milei in Argentina, Jair Bolsonaro in Brasile e Donald Trump negli USA. In altre parole, sta fabbricando, sul suo nome, una candidatura “anti status quo”.
Sicuramente i responsabili della sua campagna hanno analizzato le condizioni soggettive del Paese e hanno preferito il rischio di assumere una linea “non tradizionale” per creare un “fenomeno” politico.
Machado —non a caso— è stata chiamata, come Margaret Thatcher, “la dama di ferro”, un riferimento neoliberale nel Regno Unito. Ha assunto sfumature di candidata outsider, cercando di valorizzare la sua immagine di figura che, benché facendo politica da anni, preferisce posizionarsi “al margine” della debacle dei partiti antichavisti, soprattutto quelli del quadriumvirato chiamato G4. “Siamo diversi”, ha detto.
Ma bisogna guardare più a fondo.
La campagna delle primarie delle opposizioni è in realtà un’attività clientelare e di pubbliche relazioni a lungo termine. Ciò implica che i precandidati vogliano posizionarsi, costruire alleanze, allineare fattori di potere politico ed economico per sviluppare una trama elettorale.
Questo spiega la lunga lista di nomi di pre-candidature che, si sa, da sole non andranno da nessuna parte. Molti di coloro che si sono annunciati sanno che non arriveranno al prossimo ottobre quando si terranno quelle elezioni. Alcuni venderanno il proprio appoggio e cederanno la propria candidatura a favore di altri, man mano che le dinamiche di diatriba e clientelismo vengano metabolizzate.
In questo contesto, Machado aspira ad allineare il supporto di altri fattori e figure dure o con una tendenza simile alla sua linea elettorale.
Per questo alla precandidata risulta irrilevante essere criticata da altri oppositori sulle privatizzazioni. La sua proposta neppure aspira essere coerente con la Costituzione, né con il suo flessibile discorso del passato.
Punta sul fatto che il deterioramento della sfera pubblica dovuto al blocco abbia creato condizioni legittimanti la sua offerta neoliberale ad oltranza davanti all’elettorato. Ma alza la posta del suo discorso sulle privatizzazioni dirigendolo al settore privato, che è il suo vero destinatario.
Machado sta usando i beni pubblici come promessa, come stimolo attraente, al fine di sviluppare un quadro che spinga la sua campagna attraverso un forte sostegno e finanziamento da parte dei grandi capitali nazionali ed esteri. Vuole chiaramente ottenere il sostegno USA attraverso una “linea dura” credibile e piena di incentivi.
Il nome della sua offerta “anti status quo” implica la sostituzione del rapporto dello Stato con la rendita petrolifera, sebbene ciò implichi un processo di privatizzazione a beneficio solo dell’élite economica. Di default, implica la creazione di un eventuale e ridotto nuovo gruppo di potere politico che tragga profitto dalle privatizzazioni. Un gruppo di cui molti dirigenti del G4 non farebbero parte.
In questo scenario, il governo di destra sarebbe irrilevante poiché il fine in sé non sta nel possesso del potere politico bensì nella deturpazione del Paese, nel sequestro dei beni e nella perpetua inabilitazione dello Stato venezuelano.
Ciò fa dell'”offerta di privatizzazione” di Machado l’annuncio di una presunta nuova fase di spoliazione dei beni nazionali, in linea coerente con le misure che gli USA hanno già applicato contro il Paese negli ultimi anni: furto di beni e detonazione di dispositivi di potere per sottomettere lo Stato-nazione.
HACIA DÓNDE APUNTA LA OFERTA PREELECTORAL DE PRIVATIZACIÓN DE PDVSA
Franco Vielma
La oferta de campaña de María Corina Machado para las primarias opositoras contiene un conjunto de promesas en el ámbito político como la reducción del período presidencial a cinco años, la eliminación del referéndum revocatorio de mandato y el fin de la reelección presidencial.
Sobre su plan económico, Machado manifestó en una entrevista que, de llegar a la presidencia, implementaría un plan “masivo” de privatizaciones de bienes del Estado, incluida la estatal petrolera, Petróleos de Venezuela, S.A. (PDVSA), la máxima empresa del país.
Estas promesas están sujetas a análisis pues refieren un marco de coordenadas políticas intrínsecas a una agenda mucho más allá de los aparentes destinatarios, que son los potenciales votantes de las primarias opositoras. Es, además de una narrativa de campaña, una estrategia de relaciones públicas dirigida a grupos de poder económico y político dentro y fuera de Venezuela.
LA CARENCIA DE CONGRUENCIA
Dado que la precandidata Machado no ha presentado como oferta cambiar la Constitución, sus propuestas deben considerarse hoy, en toda línea, inconstitucionales. Este es un punto de partida del análisis. Sus promesas en lo político carecen de asidero en el texto base de la legislación venezolana.
Así, las promesas de Machado implicarían más que una enmienda una categoría de reforma. Por vías constitucionales es imposible que la figura presidencial de la república pueda por sí misma reformar la Constitución y Machado lo sabe, a falta de parlamento favorable y sin llamar a un proceso constituyente.
Conviene, además, analizar el factor de congruencia sobre las posiciones de la precandidata sobre cambios en la Constitución.
En 2013 Machado fijó posturas de “defensa de la Constitución” para enfrentarse al chavismo. Pero ese mismo año abogó por llamar a una constituyente, pero en 2017 cuando Maduro la convocó Machado se opuso.
La deriva política del personaje la ha llevado a una flexibilidad enorme en su discurso, al punto actual en el que sin promover abiertamente un cambio en el texto refiere medidas completamente al margen.
Sobre PDVSA, Machado dijo: “Por supuesto que hay que privatizarla. Y no solamente PDVSA, las empresas de Guayana, los hoteles, las empresas de telecomunicaciones. Pregúntale a una persona que trabaja en Corpoelec, o PDVSA, o SIDOR, si quieren trabajar en una empresa pública o privada…”.
Sin embargo, la Constitución refiere de manera clara en el artículo 303 que “por razones de soberanía económica, política y de estrategia nacional, el Estado conservará la totalidad de las acciones de Petróleos de Venezuela, S.A., o del ente creado para el manejo de la industria petrolera”.
¿En qué consiste el lanzamiento de una propuesta temeraria de privatización, que además no ha sido complementada con una oferta política de cambio constitucional?
Hay que mirar nuevamente la congruencia de la precandidata. En 2018, ante la posibilidad de la incautación de la estatal CITGO Petroleum en suelo estadounidense, Machado manifestó su posición acerca de la propiedad del Estado sobre bienes estratégicos: “CITGO es una joya petrolera que es de todos los venezolanos… Perderla sería un golpe irreparable para el futuro de la industria petrolera venezolana”.
UNA OFERTA A CONTRACORRIENTE
Conviene analizar el vínculo de la oferta electoral privatizadora con otros sentidos comunes entre opositores. La puesta en el tapete de la privatización de PDVSA generó reacciones entre economistas antichavistas, quienes además han sido sujetos políticos promotores del neoliberalismo en el país.
Una de ellas provino del presidente de la firma Torino Capital, Francisco Rodríguez, propulsor de la dolarización en Venezuela. Rodríguez explicó que “transferir la propiedad de PDVSA a actores privados no haría más que mermar la capacidad de nuestro sector público de proveer los bienes y servicios públicos necesarios para respaldar un proceso de recuperación inclusiva y sostenible”.
Por su parte José Guerra, el economista y exdiputado (expresidente de la Comisión de Finanzas de la Asamblea Nacional de 2015), consideró que la captación histórica de renta con las petroleras en manos del Estado ha dado beneficios a la nación. Alegó que en los principales países productores —excepto en Estados Unidos—, los Estados son los propietarios de las empresas petroleras. “Por algo será”, alegó, instando a debatir el tema pero fijando posturas de desacuerdo.
Es evidente que un teórico gobierno de María Corina Machado difícilmente podría contar con el consenso de algunos opositores. Debemos considerar que una eventual privatización “masiva” carece de posibilidades para un amplio consenso político. Considerando el indiscutido y sostenido cuadro de fragilidad de las alianzas antichavistas, Machado estaría apostando a una medida sujeta a riesgo.
El experimento político llamado “interinato” demostró las capacidades de los opositores e n dividirse y enfrentarse debido a una disputa por recursos robados a la nación. Es lógico que algunos de ellos quieran lucrarse privatizando PDVSA y otros prefieran mantenerla en el Estado para sacar tajada con ella. De ahí que una medida de esta naturaleza solo puede facilitar un posible escenario de pugna que debilitaría la gobernanza y las alianzas para sostener un gobierno antichavista.
En suma, esto hace a la propuesta de Machado más temeraria aún.
En sus aseveraciones, Francisco Rodríguez hizo un señalamiento que merece ser mirado con atención: “La privatización de PDVSA no haría más que asegurar la transferencia de enormes recursos del Estado a las élites económicas que se posicionarían para adquirirla”.
En ese sentido explicó que quienes plantean la privatización de la industria petrolera omiten discutir cómo se impediría que esta sea adquirida muy por debajo del valor de su capacidad de generación de ingresos “por grupos económicos cercanos a quienes lleven a cabo el proceso de venta”.
Rodríguez hace un tiro por elevación, pero deja ver el meollo de su postura.
A solo semanas de iniciar la larga campaña de las primarias opositoras, María Corina Machado ha puesto todo en el asador al realizar una oferta a contracorriente, sin sopesar los costos y la viabilidad real de llevarla a cabo. Pero esto no es una torpeza política, por más que lo parezca.
LA ESTRATEGIA TRAS BASTIDORES
¿Cuál es la naturaleza de una propuesta de privatización inconstitucional, incompleta —por no proponer la reforma de la Carta Magna— y además riesgosa para la cohesión de un hipotético gobierno de derecha?
Esta oferta electoral podría formar parte de una construcción narrativa dirigida a un sector “liberal” y duro de la oposición, el cual regularmente es abstencionista. Machado se dirige a un segmento de la población sobre el cual ella puede crecer y expandir su alcance político.
Refiere a PDVSA, a las industrias básicas de Guayana, a los servicios públicos y a las empresas públicas, pero también al ordenamiento político construido sobre la Constitución vigente; al periodo presidencial y a su vector político-electoral unificador, que es el voto automatizado, para lo cual ha propuesto el regreso al arcaico voto manual como fórmula “anti-fraude”.
¿Pero hacia dónde apunta realmente?
Como toda campaña política, Machado fabrica nuevas expectativas bajo la promesa de un gobierno decididamente neoliberal, pero lo hace mediante una oferta adversa a los sentidos comunes socialdemócratas y chavistas, y a su tradición de gobernanza política y económica en Venezuela.
Machado apunta de manera bidireccional tanto al chavismo como a otras oposiciones. Pero en el tema PDVSA ha clarificado su oferta política y ha puesto como núcleo de su discurso una disputa por la base material tradicional-histórica que ha existido como parte del tejido existencial de los gobiernos de Venezuela en los últimos 100 años.
Todos estos componentes refieren que Machado ha tomado los códigos de “línea dura” para replicar en Venezuela fenómenos electorales que han aparecido en otros países, como el de Javier Milei en Argentina, Jair Bolsonaro en Brasil y Donald Trump en Estados Unidos. En otras palabras, está fabricando sobre su nombre una candidatura “anti statu quo”.
Seguramente, los gestores de su campaña analizaron las condiciones subjetivas en el país y han preferido el riesgo de asumir una línea “no tradicional” para crear un “fenómeno” político.
Machado —no de manera casual— ha sido denominada, al igual que Margaret Thatcher, como “la dama de hierro”, referente neoliberal en Reino Unido. Ha tomado matices de candidata outsider, intenta rentabilizar su imagen como figura que, aunque ha formado parte de la política durante años, prefiere situarse “al margen” de la debacle de los partidos antichavistas, especialmente los del cuadriunvirato llamado G4. “Somos distintos”, ha dicho.
Pero hay que mirar más a fondo.
La campaña de primarias de la oposición es en realidad una actividad clientelar y de relaciones públicas de largo aliento. Ello implica que los precandidatos quieren posicionarse, construir alianzas, alinear factores de poder político y económico para desarrollar un tejido electoral.
Ello explica la larga lista de nombres de precandidaturas que, se sabe, no llegarán por sí solas a ninguna parte. Muchos de quienes se han anunciado saben que no alcanzarán el próximo mes de octubre cuando se realicen esas elecciones. Algunos venderán su apoyo y cederán su candidatura a favor de otros, conforme sea metabolizada la diatriba y la dinámica clientelar.
En ese contexto, Machado aspira alinear apoyos de otros factores y figuras duras o con tendencia afín a su línea de campaña.
Por eso, a la precandidata le es irrelevante ser criticada por otros opositores sobre las privatizaciones. Su propuesta ni siquiera aspira a ser coherente ni con la Constitución, ni con su flexible discurso del pasado.
Apuesta a que el deterioro de lo público por causa del bloqueo ha creado condiciones de legitimación a su oferta neoliberal a ultranza frente al electorado. Pero eleva la apuesta de su discurso sobre privatizaciones dirigiéndolo al sector privado, el cual es su verdadero receptor.
Machado está sirviendo los bienes públicos como promesa, como estímulo atractivo, para poder desarrollar un entramado que impulse su campaña mediante un fuerte respaldo y financiamiento de los grandes capitales nacionales y también foráneos. Claramente desea cautivar el apoyo estadounidense mediante una “línea dura” creíble repleta de incentivos.
La denominación de su oferta “anti statu quo” implica sustituir la relación del Estado con la renta petrolera, aunque eso implique un proceso privatizador para beneficiar únicamente a la élite económica. Por defecto, implica la creación de un eventual y reducido nuevo grupo de poder político que se haga de beneficios con las privatizaciones. Un grupo del cual muchos dirigentes del G4 no formarían parte.
En ese escenario, la gobernanza de derecha sería irrelevante pues el fin en sí mismo no radica en la posesión del poder político sino en la desfiguración del país, la captura de bienes y la inhabilitación perpetua del Estado venezolano.
Esto hace de la “oferta privatizadora” de Machado el anuncio de una pretendida nueva fase de despojo de los bienes nacionales, en línea coherente con las medidas que los estadounidenses ya han aplicado contra el país en los últimos años: Robar bienes y detonar dispositivos de poder para avasallar al Estado-nación.