Nella capitale dell’Ecuador, paese sull’orlo del fallimento da 16 omicidi al giorno, che ora legalizza le armi per difesa personale, la resistenza politica sfila nei cortei delle donne e delle comunità indigene
Federico Nastasi il Manifesto
«Per sostenervi nella guerra contro i criminali, abbiamo liberalizzato l’uso delle armi». Tweet rapidamente cancellato, uno squarcio nel linguaggio vuoto del presidente dell’Ecuador, il banchiere conservatore Guillermo Lasso, per annunciare il decreto che autorizza l’uso di armi da fuoco per difesa personale. La bandiera bianca di un governo che non sa come fronteggiare la crisi sicurezza che vive il paese.
ALLA FINE DEL 2022, 4603 MORTI per omicidio, il numero più alto della storia dell’Ecuador. Ma il 2023 promette di battere il record: nei primi 72 giorni dell’anno 1151 morti. 16 al giorno. Autobombe, esecuzioni, rivolte nelle carceri, furti finiti male, sequestri finiti peggio. Nelle province della costa pacifica, «le autostrade della cocaina verso Europa e Stati Uniti» secondo Insight Crime, il narcotraffico sostituisce lo Stato, le imprese pagano il pizzo, i giornalisti minacciati abbandonano il paese. Nella zona andina, la violenza è minore, ma la paura ha contagiato tutto il paese.
Anche Quito, 2850 metri sul livello del mare. Capitale dell’anima di montagna del paese, del mais, delle comunità indigene, del potere politico.
«SIAMO CIRCONDATI da montagne, per questo siamo un po’ chiusi verso coloro che arrivano da fuori» racconta Susana Morán, giornalista, originaria della periferia nord della capitale. Sono le montagne che danno il colore alla città. D’inverno, prevale il grigio. Grigio della nebbia, delle case ammassate nelle periferie, dei camion che trasportano prodotti agricoli. Con la primavera, si accende il verde dei pini e dei prati e il blu del cielo andino che corona le montagne.
Sono così tanti i colori della capitale, che Oswaldo Guayasamin, il pittore ecuadoriano amico di Fidel Castro, ha dipinto decine di Quito, variazioni di colore allo stesso tema: le montagne. Le tele sono esposte nella sua Casa Museo nella capitale, che sorge di fianco alla Cappilla del Hombre, santuario laico alle lotte e alla sofferenza del genere umano.
E TRA QUESTI PICCHI ANDINI, i vulcani: il Pichincha, il Cayambe, il Cotopaxi. Se davvero le montagne influenzano il carattere di Quito, i vulcani determinano il comportamento imprevedibile dei suoi abitanti.
L’esplosione del malcontento dei Quiteños cambia il corso della storia dell’Ecuador. Nel 1809, a Quito scoppiò la protesta contro la corona spagnola, la breccia che aprì il cammino all’indipedenza dell’America Latina. E qui, lo scorso 8 marzo, nonostante la pioggia, si è svolto un grande corteo femminista. Migliaia di donne, studentesse e indigene, sfilavano per il centro, preoccupate più dalla politica che della poetica: «Se il Papa fosse donna, l’aborto sarebbe legge» cantavano. In Ecuador, come in molti paesi della regione, l’interruzione di gravidanza è autorizzata in rari casi, fuori dai quali, è perseguita come reato.
QUITO È IL TEATRO DELLE MARCE, degli scioperi indigeni, dei golpe militari. Qui si concentra un potere distruttivo che rovescia governi e ciclicamente scuote un paese con un sistema istituzionale debole e fratture sociali che rendono impossibili patti sociali di lungo periodo. Città cresciuta in fretta: nel 1982 aveva 800mila abitanti, oggi sono oltre due milioni. Tre se si considera l’area metropolitana. Ed è cresciuta disordinatamente, assorbendo i villaggi circostanti, con le occupazioni della terra e i grandi progetti immobiliari.
«Le élite qui si preoccupano più di dove costruire un supermercato che di un progetto di città» racconta Augusto Barrera, ex sindaco di Quito. Nella zona nord, nel Condado, non c’è una panchina né una piazza. L’edificio principale è il centro commerciale, il mall come lo chiamano tutti. Una volta dentro, tra aria condizionata e vetrine di marche internazionali, ci si dimentica del traffico, del marciapiede con le buche e della merda dei cani.
Da queste periferie, ogni giorno si realizzano due milioni seicentomila viaggi nel trasporto pubblico. Un viaggio in bus è un corso rapido di Latinoamérica: una sfida corpo a corpo, gomiti su bocche sconosciute, studentesse con la divisa scolastica con gonna e calze di spugna al ginocchio, piccoli professionisti con cravatte lise. Una venditrice ambulante si lancia dentro il groviglio umano e sulle teste dei viaggiatori sfila un vassoio di merengue.
«QUANDO LAVORAVO come stagista, per arrivare alla redazione, ogni giorno facevo quattro ore di bus. E scrivevo quel che vedevo: la crudeltà, la vita difficile degli ambulanti. Ho scoperto i lavori improvvisati dei Quiteños, come “l’orologio del bus”, un uomo che annotava l’orario di passaggio del bus, pagato con la colletta dei conducenti» racconta Morán. Uno dei tanti impieghi informali, la metà dei posti del lavoro nel paese. E un tentativo di ordinare il caos.
Oggi Morán è giornalista professionista e il trasporto è migliorato. Tra qualche mese dovrebbe iniziare a funzionare la metropolitana – una linea, 22 chilometri, 15 fermate – che intanto è stata inaugurata già due volte. Due sindaci hanno tagliato il nastro davanti ai fotografi, per un funzionamento di pochi giorni. Quest’anno, il nuovo sindaco, dovrebbe tagliare il nastro per la terza volta. Quella definitiva, dicono.
QUITO È UNA CITTÀ COSMOPOLITA in trasformazione. Negli angoli delle strade, i venezuelani – ce ne sono 440 mila – vendono arepas, frittele di mais; gli indigeni, con una treccia di capelli nerissimi sul poncho di lana, entrano nella sede della Conaie (Confederazione nazionale dei popoli indigeni); gli afro-ecuadoriani emigrati dalla costa, fanno suonare la bomba nei quartieri popolari. «Come in tutta l’America Latina, ci sono fratture urbane. Quito sono almeno tre città – spiega Barrera -: la più grande è quella della classe media e media bassa».
È LA ZONA CENTRALE, il centro storico con le chiese gesuite e l’arte sacra patrimonio Unesco, la zona universitaria, la Casa della cultura. E anche le grandi periferie del sud, le zone dimenticate della capitale. A cui dà le spalle perfino la Virgen de Quito, una madonna alata di metallo di 30 metri, sulla collina del Panecillo, nel centro della città.
«C’è poi la Quito rurale, i comuni delle comunità indigene, nella zona orientale, con gli indici di esclusione più alti. E poi la città dei ricchi, i proprietari dei supermercati, dell’agroexport dei fiori, del settore immobiliare. È una città in cerca d’identità. La più forte è quella dei Quiteños de bien, coloro che vantano un cognome europeo e vivono nei condomini recintati con telecamere e vigilanza 24/7. «Ma è una minoranza che non riesce a trasformare la propria visione in senso comune» spiega Barrera.
DOPO IL TRAMONTO, QUITO si trasforma in un deserto. A La Florida, quartiere degli alternativi, uscendo dal Cinema Ocho y Medio o da un sushi, si salta in macchina, guardandosi attorno circospetti. «Oggi c’è la crisi della sicurezza. Ma siamo andini, qui non c’è mai stata la movida della costa» racconta Ximena.Ma Quito è soprattutto la capitale politica di uno Stato che cammina sul bordo del fallimento: record nei flussi di emigrazione, il crollo degli investimenti e l’aumento dell’inflazione, lo Stato che non riesce a garantire sicurezza e servizi pubblici essenziali, la mancanza di alternative politiche.
L’ASSEMBLEA NAZIONALE, nelle prossime settimane, voterà l’impeachment al presidente Lasso, accusato di peculato nell’ambito di contratti di imprese petrolifere. Se non dovesse essere sfiduciato, si prospettano elezioni anticipate. O la ripresa di nuove proteste sociali. Tutti scenari di tensione, nessuna soluzione di lungo periodo per il paese. Ancora una volta, dura da seco