Una targhetta di metallo indica i media della comunicazione a cui appartengono le 49 sedie del salone per la stampa nella Casa Bianca. Nelle prime fila ci sono AP, CBS, Washington Post e The New York Times; nel fondo c’è un posto a nome di Talk Radio, una piccola compagnia che mette a fuoco le reti sociali.
I giornalisti seduti davanti non alzano la mano, quelli del fondo sì.
A Washington ci sono molte leggi che non sono scritte ma alle quali tutto il mondo deve obbedire, anche una dozzina di giornalisti cubani con 11 milioni di domande.
Nessuno di noi era stato lì prima ed è difficile ricordare un giornalista di un media cubano che sia entrato dai cancelli della Casa Bianca negli ultimi decenni.
Indubbiamente abbiamo riconosciuto l’azzurro, la bandiera e il logo White House, che sono serviti da sfondo a colossali menzogne, come la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq o la dichiarazione degli ultimi conflitti statunitensi.
Richard Nixon decise di costruire questo salone nel luogo dove c’era la piscina, di fronte alla valanga di giornalisti che accorrevano alla Casa Bianca alla fine degli anni ’60, in piena guerra del Vietnam.
Il principale giornale della capitale lo pagò con una copertura dello scandalo Watergate che aiutò a farlo uscire dall’Ufficio Ovale. Era l’inizio della fine di una tappa del miglior giornalismo nordamericano.
Per la delegazione di un paese che ancora appare formalmente nella categoria di “nemico degli Stati Uniti”, entrare non è stato molto difficile.
La pioggia e il freddo repentino sono stati più severi delle misure di sicurezza, simili a quelle di un aeroporto.
Certo non ci sono dubbi che la scena era impensabile prima del 17 dicembre dell’anno scorso.
Chiunque può giungere sino ai cancelli della Casa Bianca camminando per Avenida Pennsylvania, senza notare la presenza del Servizio Segreto. Per i circa 300 milioni di abitanti di questo impero sembra consolante poter quasi bussare alla porta del loro presidente, anche se questi non risponderà mai.
L’illusione è un’arte in questo paese e questo lo avevamo constato da prima.
Per un errore di procedimento eravamo restati senza possibilità di domande nella conferenza stampa della seconda tornata di conversazioni di febbraio nel Dipartimento di Stato. Non avevamo chiesto la parola la mattina e semplicemente ci ignorarono.
A L’Avana un mese fa, duecento giornalisti nordamericani avevano ricevuto il loro accredito e più di una dozzina avevano fatto domande dirette a Josefina Vidal, la funzionaria a capo della delegazione cubana.
Noi siamo stati al punto di ripetere la storia di febbraio. Per un’ora abbiamo ascoltato il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, parlare dello Stato Islamico e confessare la sua ignoranza sulla Tunisia, il cui presidente era in visita a Washington.
Dopo varie decine d interventi, Oliver Knox, corrispondente politico di Yahoo News, ha ricevuto la parola ed ha ricordato a Earnest la nostra presenza lì.
“Quand’è stata l’ultima volta che un portavoce statunitense ha risposto a una domanda di un giornalista cubano?”, ha chiesto.
Il portavoce che sicuramente era pronto per lasciar passare il tema ci ha saluto con un benvenuti negli Stati Uniti e nella Casa Bianca e ci ha aperto una porta.
“Sono della televisione cubana”, ha iniziato Cristina Escobar, la giovane giornalista e presentatrice del Sistema Informativo, che occupava la sedia della sesta fila di Salem Radio, il cui corrispondente non era presente.
“L’amministrazione di Barack Obama è impegnata con un cambio nel comportamento dei funzionari della futura ambasciata a L’Avana; si manterranno i programmi di cambio di regime che si promuovono nell’attuale Sezione d’Interesse o si rispetteranno le Leggi di Cuba?” ha chiesto Cristina, che ha domandato anche se il presidente era impegnato ad usare le sue facoltà esecutive per continuare ad ampliare i vincoli con l’Isola.
Le risposte di Earnes sono state la solita cortina di fumo.
Ha ripetuto la posizione ufficiale ed ha lasciato colare la frase che ha marcato questa tappa del processo.
“Gli Stati Uniti cambiano i loro metodi ma non i loro obiettivi”. Si è persino permesso una licenza ed ha parlato “del tipo di cambio che ci piacerebbe vedere in Cuba”.
Cristina ha replicato, chiedendo se l’attuale amministrazione almeno si proponeva di dichiarare in forma più aperta le intenzioni di questi piani ed ha espresso la domanda che ha avuto la maggior ripercussione mediatica: “Obama pensa di visitare Cuba prima della fine del suo mandato?”
Earnest non ha detto molto sul primo tema, ma ha assicurato che era certo che al presidente piacerebbe molto avere l’opportunità di visitare l’Isola di Cuba, ma non ha accuratamente parlato di date.
“Sono un uomo abbastanza giovane, così immagino che in qualche momento della vita avrò l’opportunità di visitare Cuba” aveva detto lo stesso Obama alcuni mesi fa, rispondendo ad una domanda simile.
Il fatto non aveva niente di straordinario, ma chi faceta la domanda e chi rispondeva sì, ha scritto uno dei cento media statunitensi che hanno pubblicato la storia dei giornalisti cubani nella Casa Bianca.
Di sicuro la scena era impensabile solo un giorno prima del 17 dicembre scorso, ma la relazione tra L’Avana e Washington è ancora tanto complicata che una domanda cubana nella Casa Bianca è capace di fare il giro del mondo.