Recentemente ho avuto il piacere di leggere il libro autobiografico ‘Tan solo con 16’, scritto dal generale Rogelio Acevedo e pubblicato da Casa Editoriale Verde Olivo. In quest’opera, Acevedo racconta le sue esperienze di guerrigliero, uno dei più giovani ad incorporarsi nell’Esercito Ribelle. Sono pagine accattivanti, molto oneste, che narrano in modo molto dettagliato tutte le peripezie e le difficoltà che l’allora giovane tenente ha vissuto nella Sierra Maestra e nell’invasione dell’Escambray, culminata nell’epica battaglia di Santa Clara.
Se dovessi scegliere una frase che sintetizzi l’intero libro, sceglierei quella detta dal Che ai suoi sottoposti: “Coraggioso è colui che ha più vergogna che paura”. Acevedo non estrapola la frase né cerca di trovarle un significato più grande: la applica nella sua narrazione come l’ha applicata nella sua vita di guerrigliero, con senso pratico. Essere coraggiosi implicava avere paura della paura, implicava non l’assenza irrazionale di quel sentimento ma la decisione cosciente di vincerlo per non essere bollato come codardo.
Il valore personale è stato, per la storia di Cuba, un elemento costitutivo sine qua non dell’autorità morale e politica. Dal XIX secolo, con i mambise (guerriglieri indipendentisti anti spagnoli ndt), un capo che non caricasse per primo, con il machete, contro gli spagnoli aveva poche possibilità di guidare l’Esercito Libertador. Ecco perché le vittime tra gli ufficiali furono così numerose: senza soldi, senza cibo, senza alcun vettovagliamento… con cosa chiamare alla morte quei soldati della palude? Solo con l’esempio, solo facendo appello alla dignità.
Lo stesso sarebbe accaduto nella Sierra Maestra. Nonostante la persistente volontà dell’alto comando ribelle di preservare i quadri più validi, la dinamica stessa della guerriglia compulsava i suoi tenenti, capitani e comandanti ad assumere le posizioni più rischiose. In quale altro modo chiamare i contadini e i giovani a mettersi sulla linea del fuoco? Ne sono una prova le storie, quasi leggendarie, del coraggio di capi come Camilo Cienfuegos, o il fatto che il Che – e così lo raccoglie Acevedo nel suo libro – valutasse sopra ogni altra cosa, anche delle capacità intellettuali, il coraggio personale.
Un dirigente storico come Fidel non avrebbe mai avuto l’autorità morale e politica che ebbe se non si fosse esposto tante volte alla morte, sfidandola e sconfiggendola. Il popolo di Cuba non segue i codardi. Pertanto, è facile capire che quei “capi” che, da prudente distanza, comandano a noi che viviamo qui di “scendere in piazza”; a quegli “agitatori” che pagano con bonifico perché altri compiano atti di vandalismo; quelli che, dall’estero, chiamano “pecorelle” quelli di noi che scegliamo di restare nel nostro Paese; a quelli che si definiscono martiani, ma hanno fatto della Patria un piedistallo per il quale non sono disposti a sacrificare una goccia di sangue né un centesimo; nessuno li segue davvero, tranne le vittime dell'(auto)inganno.
Il coraggio è un valore così indissolubilmente unito all’anima di questa nazione che persino i suoi poeti lo fanno parte di una storia d’amore. Non stupisce che Silvio canti: “Gli amori codardi non finiscono negli amori né nelle storie, restano lì. Nemmeno il ricordo può salvarli.” Per questo e per tante altre cose che qui non saprei spiegare, mi sento così immedesimato con la frase del Che e con quell’atteggiamento di assumere la battaglia, per quanto cruenta possa essere, che attraversa il libro del generale Acevedo. Perché mi possono chiamarmi in molti modi, possono insultarmi in tante forme; possono non capirmi o non condividere ciò che dico e penso; ma quello che non ammetterei mai, in nessuna circostanza, è che qualcuno mi chiamasse codardo.
(tratto da Granma)
Cobarde
Por: Michel E Torres Corona
Hace poco tuve el placer de leer el libro autobiográfico Tan solo con 16, escrito por el general Rogelio Acevedo y publicado por la Casa Editorial Verde Olivo. En esta obra, Acevedo narra sus experiencias como guerrillero, uno de los más jóvenes en incorporarse al Ejército Rebelde. Son entrañables páginas, muy honestas, que narran con lujo de detalles todas las peripecias y dificultades que protagonizara el entonces joven teniente en la Sierra Maestra y en la invasión hasta el Escambray, culminando con la épica batalla de Santa Clara.
Si tuviera que elegir una frase que sintetizara todo el libro, escogería una dicha por el Che a sus subordinados: “Valiente es el que tiene más vergüenza que miedo”. Acevedo no extrapola la frase ni trata de buscarle un mayor significado: la aplica en su narración como mismo la aplicara en su vida de guerrillero, con sentido práctico. Ser valiente implicaba tenerle miedo al miedo, implicaba no la ausencia irracional de ese sentimiento sino la decisión consciente de vencerlo para no ser tildado de cobarde.
El valor personal ha sido, para la historia de Cuba, un elemento constitutivo sine qua non de la autoridad moral y política. Desde el siglo XIX, con los mambises, un jefe que no cargara al machete de primero contra los españoles tenía escasas posibilidades de dirigir en el Ejército Libertador. De ahí que las bajas entre oficiales eran tan numerosas: sin dinero, sin comida, sin avituallamiento alguno… ¿con qué llamar a la muerte a esos soldados de la manigua? Solo con el ejemplo, solo apelando a la vergüenza.
En la Sierra Maestra ocurriría lo mismo. Pese a la persistente voluntad del alto mando rebelde por preservar a los cuadros más valiosos, la dinámica misma de la guerrilla compulsaba a sus tenientes, capitanes y comandantes a asumir las posiciones de mayor riesgo. ¿De qué otra forma llamar a campesinos y jóvenes a que se colocaran en la línea de fuego? Los casi legendarios relatos de arrojo de jefes como Camilo Cienfuegos son prueba de ello, o el hecho de que el Che –y así lo recoge Acevedo en su libro– valorara por encima de todo, aun de las capacidades intelectuales, el arrojo personal.
Un líder histórico como Fidel nunca hubiera tenido la autoridad moral y política que poseyó si no se hubiera expuesto a la muerte tantas veces, desafiándola y venciéndola. El pueblo de Cuba no sigue a cobardes. Se hace sencillo, por ende, entender que aquellos “líderes” que, a distancia prudente, encomiendan a los que aquí vivimos a “tomar la calle”; a esos “agitadores” que pagan por transferencia para que otros acometan actos de vandalismo; a esos que, desde el extranjero, llaman “carneros” a los que elegimos permanecer en nuestro país; a los que se dicen martianos, pero han hecho de la Patria un pedestal por el que no están dispuestos a sacrificar ni una gota de sangre ni un centavo; a ellos nadie los sigue en realidad, salvo las víctimas del (auto)engaño.
El coraje es un valor tan indisolublemente unido al alma de esta nación que hasta sus poetas lo hacen parte de un romance. No extraña que cante Silvio: “Los amores cobardes no llegan a amores ni a historias, se quedan allí. Ni el recuerdo los puede salvar”. Por eso y por tantas otras cosas, que no podría explicar aquí, me siento tan identificado con la frase del Che y con esa actitud de asumir la batalla, por cruenta que sea, que recorre el libro del general Acevedo. Porque pueden llamarme muchas cosas, pueden insultarme de muchas formas; pueden no entenderme o no compartir lo que digo y pienso; pero lo que nunca admitiría, bajo ningún concepto, es que alguien me llamase cobarde.
(Tomado de Granma)