Industria della propaganda

 Si tratta di una guerra di forma e sostanza. È lì che dispiegano le loro arti innovative: 1: l’individualismo galoppante. 2: ambiguità riformista. 3: paura poliedrica. 4: conservatorismo “progressista”. Più o meno lo stesso ma travestito da nuovo. Questo è ciò che chiede il cliente

 Fernando Buen Abad

Cercano di sedurre il “rispettabile pubblico” con verbosità ingannevoli che ben si adattano ai modelli mercantili della “cultura di massa”. E guadagnano somme stravaganti per ogni voto. La trappola logico-semantica dominante sta nel presentare le leadership come protagoniste reali della vita politica mentre si cancella con demagogia l’importanza e le amarezze dei popoli, dal basso, che con le loro lotte sono i veri artefici della storia. È l’arte della strategia elettorale. L’arte di vendersi a costi colossali e conseguenze culturali incalcolabili.

Portano e traggono salivari ipotesi di combattimento, architettate nei loro laboratori di senso o think tank, pubblicizzano i loro studi quali-quantitativi per sorprendere gli sprovveduti (o sprovvedute), per lo più conosciuti come clienti. Un’imboscata ideologica mercenaria riparata sotto i mantelli sacri della democrazia borghese. E si sentono intoccabili. La vincitrice di ogni piano di propaganda è lei stessa… e i suoi affari.

Alcuni consumatori di fumetti propagandistici attendono con morbosità (e non poco piacere) le “novità” narrative dei “geni” della propaganda commercializzata. Si sono create audience complici che naturalizzano l’audacia propagandistica come se fossero forme creative della “libertà di espressione” che forniscono, al tedio imperante nella verbosità “politica”, veicoli eccipienti divertenti e per nulla inoffensivi. Vale la pena ricordare che anche questa industria è dipinta da sospetti di corruzione, riciclaggio di denaro, frodi e oltraggi di ogni tipo, compresa la fatturazione di lavori inesistenti.

La sua apocalisse semantica fiorisce nei campi ideologici del “reset” della storia. È una guerra di forma e sostanza. È lì che dispiegano le loro arti innovative: 1: l’individualismo galoppante. 2: ambiguità riformista. 3: paura poliedrica. 4: conservatorismo “progressista”. Più o meno lo stesso ma travestito da nuovo. Questo è ciò che chiede il cliente. Il colmo sarebbe che i governi progressisti cadessero nella trappola di investire fortune inimmaginabili nell’acquisto di servizi di propaganda dalle società borghesi più identificate con la logica della merce.

Tutto ciò ha un effetto proficuo in un territorio afflitto da contraddizioni sociali dove la degradazione del pianeta continua ad essere nella sua ampiezza eclissata dalla propaganda di certi accordi e convenzioni internazionali. Continua il macabro saccheggio di materie prime, ad ogni costo, senza escludere colpi di Stato in tutte le sue forme, occultati dalla propaganda della democrazia borghese. Continua lo sfruttamento della classe lavoratrice ferita a morte con  “riforme del lavoro”, inflazione e disoccupazione pianificata, ma resa invisibile dalla propaganda di burocrazie filantropiche. Continua imperterrito il sistema ideologico dell’odio di classe impregnato di umiliazione e alienazione, ma benedetto in tutto il pianeta dalla propaganda della legalità e dei diritti umani. Ed è ancora attiva anche la forza ribelle che resiste e lotta permanentemente in condizioni di disuguaglianza, disunione e precarietà comunicativa. Storia vecchia e insostenibile.

Di tutto questo approfitta l’industria della propaganda commercializzata, finanziata con i soldi del popolo. Sono armi di guerra ideologica dispiegate in forme e fondi con reti di distribuzione, abitudini di consumo e modelli di retroalimentazione viziati tra sondaggi e studi di mercato. Guerra ideologica ibrida, di ampio spettro. Godono di licenze inaccettabili… eppure si muovono. Sebbene il suo regno retorico sia l’aritmetica che chiede voti a cottimo, non si riduce a questo perché il compito principale dell’industria della propaganda è vendersi come indispensabile e come cultura dell’impunità e della sfacciataggine. Lo chiamano marketing politico e la maggior parte viene battezzata con un nome inglese o qualcosa di simile.

Tutti sappiamo che i dirigenti politici, legittimati da un programma d’azione elaborato dalle basi sociali, richiedono strategie comunicative organizzative, basate sul dialogo e consenso, per esprimere il disagio e anche le vittorie delle loro lotte. Sappiamo che tale comunicazione organizza e, pertanto, richiede un filtro etico che regola l’estetico e che lo confronti con la verità, con la rendicontazione e con la revoca del mandato quando la base l’ha acconsentito. Sappiamo che è fondamentale comunicare idee per risolvere problemi specifici e richiedere il sostegno elettorale per rispettare, responsabilmente, il piano che si impone con i voti. Che la politica è prodotto dell’insieme contraddittoriop delle relazioni sociali, delle condizioni oggettive e diseguali del modo e dei mezzi di produzione e delle pressioni storico-economiche internazionali.

Non si tratta di negare il ruolo della propaganda né dell’agitazione, si tratta di confermare il suo carattere sociale e tutti i suoi requisiti partecipativi per far sì che le idee e le azioni, materia di esposizione in campagne elettorali o in compiti di costruzione o organizzazione di senso, godano di pieno avallo sociale incluso quando potrebbero essere fonti di dibattito teorico o pratico. In ogni caso, il compito di produrre uno stato di coscienza partecipativa intorno e contro le calamità che affliggono i popoli, i loro programmi di superamento, dovrebbe essere al sicuro dagli avvoltoi commerciali.

Non dovrebbe essere né irresponsabile né impunita la produzione di campagne di propaganda politica nel mondo. Ogni materiale propagandistico dovrebbe essere permanentemente verificabile e servire come documento pubblico per interrogare i suoi finanziatori e costringerli a mantenere le promesse e la retorica offerte all’elettorato. L’attività di promettere e non adempiere dovrebbe essere un crimine punibile. Indipendentemente dal suo fascino mercenario.


Industria de la propaganda

Se trata de una guerra de forma y fondo. Ahí despliegan sus artes novedosas: 1: individualismo a galope. 2: ambigüedad reformista. 3: miedo poliédrico. 4: conservadurismo «progre». Más de lo mismo pero disfrazado como nuevo. Así lo pide el cliente

Autor: Fernando Buen Abad

Buscan seducir al «respetable público» con palabrerío efectista que cuadre bien con los modelos mercantiles de la «cultura de masas». Y cobran sumas estrambóticas por cada voto. La trampa lógico-semántica dominante radica en presentar a las cúpulas como protagonistas reales de la vida política mientras se borra con demagogia la importancia y las amarguras de los pueblos, desde abajo, que con sus luchas son artífices verdaderos de la historia. Es el arte de la estrategia electorera. El arte de venderse a sí mismos a costos siderales y consecuencias culturales incalculables.

Llevan y traen hipótesis de combate salivoso, pergeñadas en sus laboratorios de sentido o think tanks, publicitan sus estudios cuali-cuantitativos para sorprender a los incautos (o incautas), mayormente conocidos como clientes. Una emboscada ideológica mercenaria cobijada bajo los mantos sagrados de la democracia burguesa. Y se sienten intocables. La ganadora de cada plan de propaganda es ella misma… y sus negocios.

Algunos consumidores del cómic propagandista aguardan con morbo (y no poco placer) las «novedades» narrativas de los «genios» de la propaganda mercantilizada. Se han creado audiencias cómplices que naturalizan las audacias propagandísticas como si fuesen formas creativas de la «libertad de expresión» que proporcionan, al tedio predominante en la verborrea «política», vehículos excipientes divertidos y nada inofensivos. No sobra recordar que esa industria está pintada también por sospechas de corrupción, lavado de dinero, fraudes y tropelías de toda especie, incluyendo facturaciones por trabajos inexistentes.

Su apocalipsis semántico florece en los campos ideológicos del «reseteo» de la historia. Se trata de una guerra de forma y fondo. Ahí despliegan sus artes novedosas: 1: individualismo a galope. 2: ambigüedad reformista. 3: miedo poliédrico. 4: conservadurismo «progre». Más de lo mismo pero disfrazado como nuevo. Así lo pide el cliente. El colmo sería que gobiernos progresistas caigan en la trampa de invertir fortunas inimaginables en comprar servicios de propaganda a las empresas burguesas más identificadas con la lógica de la mercancía.

Todo eso surte efecto rentable en un territorio plagado por contradicciones sociales donde la depredación del planeta sigue a sus anchas eclipsada por la propaganda de ciertos acuerdos y convenciones internacionales. Sigue el saqueo macabro de materias primas, a cualquier costo, sin excluir golpes de Estado en todas sus modalidades, ocultados por la propaganda de la democracia burguesa. Sigue la explotación de la clase trabajadora herida de muerte con «reformas laborales», inflación y desempleo planificado, pero invisibilizada con propaganda de burocracias filantrópicas. Sigue impertérrito el sistema ideológico del odio de clase impregnado con humillaciones y enajenación, pero bendecido en todo el planeta con propaganda de legalidad y derechos humanos. Y también sigue activa la fuerza rebelde que resiste y lucha permanentemente en condiciones de desigualdad, desunión y precariedad comunicacional. Historia añeja e insostenible.

De todo esto se aprovecha la industria de la propaganda mercantilizada que se financia con dinero de los pueblos. Son armas de guerra ideológica desplegada en formas y fondos con redes de distribución, hábitos de consumo y modelos de retroalimentación viciados entre encuestas y estudios de mercado. Guerra ideológica híbrida, de amplio espectro. Gozan de licencias inaceptables… y, sin embargo, se mueven. Si bien su reino retórico es la aritmética que pide votos a destajo, no se reduce a eso porque la tarea principal en la industria de la propaganda es venderse a sí misma como indispensable y como cultura de impunidades e impudicias. Le llaman marketing político y la mayoría se bautiza con un nombre en inglés o algo que se le parezca.

Todos sabemos que los líderes o lideresas políticos, legitimados por un programa de acción elaborado desde las bases sociales, requieren de estrategias de comunicación organizativa, basada en el diálogo y consensos, para expresar los malestares y las victorias también de sus luchas. Sabemos que tal comunicación organiza y, por tanto, requiere del filtro ético que norme lo estético y que lo confronte con la verdad, con la rendición de cuentas y con la revocación del mandato cuando la base lo ha consensuado. Sabemos que es indispensable comunicar ideas para resolver problemas concretos y solicitar apoyo electoral para cumplir, responsablemente, el plan que se mandata con votos. Que la política es producto del conjunto contradictorio de las relaciones sociales, de las condiciones objetivas y desiguales del modo y los medios de producción y de las presiones económico-históricas internacionales.

No se trata de negar el papel de la propaganda, ni de la agitación, se trata de confirmar su carácter social y todos sus requisitos participativos para asegurar que las ideas y acciones, materia de exposición en campañas electorales o en tareas de construcción u organización de sentido, gocen de aval social pleno incluso cuando pudiesen ser fuentes de debate teórico o práctico. En todo caso, el cometido de producir un estado de conciencia participativa sobre y contra las calamidades que aquejan a los pueblos, sus programas superadores, debiera estar a salvo de los buitres mercantiles.

No debería ser ni irresponsable ni impune la producción de campañas de propaganda política en el mundo. Cada material propagandístico debería ser auditable, permanentemente, y servir como documento público para interpelar a sus financistas y obligarlos a cumplir promesas y retóricas ofrecidas al electorado. Debería ser delito punible el negocio de prometer y no cumplir. Sin importar su glamur mercenario.

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