Il punto morto nelle relazioni Venezuela-USA

 misionverdad.com

Le relazioni tra Venezuela e USA stanno attraversando una importante scissione, dopo che i funzionari della Casa Bianca hanno incontrato il presidente Nicolás Maduro, nel marzo 2022. L’incontro ha segnato l’inizio di una serie di tentativi verso un cambio di paradigma nel nesso bilaterale, con il tema della revoca delle misure coercitive unilaterali come parte dei colloqui, oltre alla stessa questione energetica e propriamente politica -elezioni-.

Da allora, Washington ha emanato misure per autorizzare operazioni e commercializzazione nel campo del petrolio e del gas —come la General License 41— e ordini politici incentrati nei campi dell’energia e della politica —General License 42—, inquadrati nello sviluppo della crisi energetica che prevale nei paesi del Nord Globale. I segni dei tempi attuali marcano l’agenda USA sul nostro Paese, uno dei motivi per cui è così difficile determinare a che punto siamo nei rapporti bilaterali.

L’altro principale motivo risiede nella imprevedibile strategia dell’amministrazione Joe Biden nei confronti del Venezuela, in risposta alle azioni e alle dichiarazioni di Caracas negli ambiti nazionali ed internazionali emersi negli ultimi mesi.

Dall’agosto 2021, il governo del presidente Nicolás Maduro, con l’agevolazione della Norvegia e l’accompagnamento di Paesi Bassi e Russia, ha installato, a Città del Messico, il Tavolo di Dialogo e Negoziazione insieme alla cosiddetta Piattaforma Unitaria Democratica (PUD), che rappresenta i settori di opposizione tradizionalmente più legati agli USA, al fine di raggiungere accordi politici, economici e sociali che potessero sbloccare lo scenario di conflitto che si è andato promuovendo, nell’ultimo decennio, sulla Repubblica Bolivariana con l’appoggio straniero.

Ricordiamo che la fondazione del PUD è stata realizzata da Juan Guaidó e una quarantina di partiti e organizzazioni politiche antichaviste in un atto nell’aprile 2021, mesi prima che iniziassero i primi round di colloqui, in Messico, tra il governo e quel settore dell’opposizione. Tra i suoi scopi c’è quello di fungere da piattaforma per il dialogo e le negoziazioni, inclusa la materia elettorale: la celebrazione delle elezioni presidenziali è uno dei punti più importanti sul tavolo allestito in Messico.

I delegati del PUD, compreso il suo capo, l’ex sindaco e deputato Gerardo Blyde, e altri politici come Stalin González e Freddy Guevara, hanno rappresentato gli interessi USA al tavolo del dialogo anche quando formalmente si tratta dell’opposizione nazionale, intesa così, non solo per i vincoli diretti tra loro e l’apparato governativo USA, ma anche perché sia ​​il Dipartimento di Stato che i connazionali antichavisti confessano le stesse intenzioni riguardo al processo negoziale, come se fosse copia e incolla.

Alla fine del 2022, il governo venezuelano e il PUD hanno firmato un secondo accordo parziale che garantiva la creazione di un fondo di 3,2 miliardi di $ per finanziare un’agenda di assistenza sociale in Venezuela attraverso la gestione finanziaria delle Nazioni Unite (ONU), con le risorse statali bloccate dalle misure coercitive di Washington nei conti in entità internazionali.

Insomma, ci sarebbe stata una restituzione di parte degli asset —liquidi— al Venezuela ma amministrati dall’ONU, il che avrebbe comportato un alto costo politico di fronte al fallimento, a vox populi, della strategia USA, che ha nelle “sanzioni” basate sul dollaro, e sull’intero sistema finanziario che gli ruota attorno, l’arma principale.

La Casa Bianca non ha adempiuto alla sua parte (dell’accordo ndt) e ha aggiunto una serie di azioni che hanno eroso il ponte di contatto tra il Paese del Nord ed il Venezuela -non dimenticare che esistono canali di comunicazione diretti tra Caracas e Washington, D.C., secondo lo stesso presidente Maduro-. Certo, la decisione finale sta dalla parte USA e significherebbe un cambiamento fondamentale nello schema delle misure coercitive applicate al Paese, una “ricalibratura” condizionata dal momento politico.

Il fattore geopolitico viene preso in considerazione al momento di comprendere la direzione verso cui navigano le decisioni dell’amministrazione Biden sul Venezuela. La guerra in Ucraina è stata una delle maggiori pietre miliari degli ultimi tempi in termini di cambio di paradigma nelle relazioni internazionali, e la risposta aggressiva degli USA ha avuto un effetto boomerang, negativo per l’economia USA a causa dai contraccolpi della crisi energetica globale, retro alimentata dalle decisioni dell’amministrazione Biden.

Il nostro Paese si trova al centro di un riassetto dei mercati globali delle materie prime e delle architetture finanziarie lontane dall’influenza dollaro centrica. In questo quadro, l’industria petrolifera venezuelana gioca un ruolo cruciale di cui i decisori USA sono preoccupati per il suo sviluppo, a causa delle sue alleanze strategiche con i maggiori concorrenti della potenza USA: Cina, Iran, Russia, ecc.

La maggior parte degli attivi del Venezuela all’estero, Citgo Petroleum, è stato sequestrato e redistribuito al cast dell’ “Operazione Guaidó” sia come bottino al servizio dell’avidità corporativa sia per continuare a finanziare tale opposizione, ogniqualvolta vi sia un profitto privato da parte dei detti operatori tramite la rapina. Quella del 2019. Ad oggi, resta nelle mani di terzi che non hanno alcun legame con lo Stato venezuelano bensì in mani private —di privati— per continuare con la messa in scena dell’“interim” sotto altre vie extralegali, con il cosiddetto Consiglio di Amministrazione e Protezione degli Attivi, a cui partecipano operatori politici del G3 —partiti che fanno parte del PUD—.

Senza dimenticare che, anche dopo aver fatto a meno di Juan Guaidó come protagonista della sua strategia, continua a muoverlo a piacimento —come pedina— tra i corridoi politici della “società civile”, tra i think tank e le ONG dell’intermediazione dominante di Washington, DC.

La quasi inerente consegna di Citgo all’asta, la contraddittoria distinzione su quale sia il “vero governo venezuelano” —AN-2015 o il Governo bolivariano, sebbene nei loro documenti ufficiali continuino a differenziarne uno come “governo ad interim” o come “Assemblea Nazionale legittima contro il regime” – e, quindi, l’assegnazione di conti dello Stato venezuelano a persone che non sono funzionari ufficiali, accumulano il compendio di azioni e norme che identificano una politica contraddittoria nei confronti del Venezuela.

Ma, soprattutto, sono decisioni USA che costituiscono una replica alla buona valutazione della politica estera venezuelana in relazione alla richiesta di revoca delle “sanzioni”, che ha avuto la Conferenza di Bogotá, alla fine dello scorso aprile, come sua massima espressione con il sostegno di 20 paesi —compresi europei— contro il blocco della Repubblica Bolivariana.

L’evento, pur non avendo la rilevanza con cui era stato anticipato, per non aver emanato politiche vincolanti sul tema centrale, è servito da piattaforma affinché in Nord America ed Europa acquisisse maggior rilevanza il problema energetico dietro lo schema “sanzionatorio” del Dipartimento del Dipartimento del Tesoro. In tal senso, è stato un risultato diplomatico venezuelano che forse gli USA non erano disposti a tollerare del tutto, non nel bel mezzo della loro debacle economica, finanziaria e sociale costantemente esposta.

Gli errori dell’amministrazione Biden hanno solo esaltato questa situazione, e la Repubblica Bolivariana è un ostacolo ai suoi interessi nella regione. L'”ordine basato sulle norme” non comprende completamente l’emisfero occidentale, e il Venezuela ha tutto a che fare con l’equazione.

Per questo, dopo un decennio di tentativi di golpe, strategie di “cambio di regime”, misure di soffocamento economico, finanziario e commerciale hanno recentemente determinato un cambiamento nei rapporti bilaterali. Tuttavia, non è stato raggiunto un punto di stabilità, tutto fa pensare che accadrà il contrario. Piuttosto, si sta vivendo un periodo di alti e bassi, con azioni congiunturali della Casa Bianca e senza un piano strategico visibile per le sue relazioni con il Venezuela.

Il governo di Nicolás Maduro ha posto al centro del conflitto la revoca delle “sanzioni” come fattore determinante nelle relazioni, e vi scommette in un contesto di ripresa economica e di riorganizzazione delle relazioni internazionali del Venezuela nel mercato mondiale.

Allora cosa possiamo aspettarci da relazioni che sono ad un punto morto? In primo luogo, in ambito politico-diplomatico, non ci sarà alcuno sblocco dovuto ai menzionati costi che comportano agli USA se riconosceranno effettivamente il presidente Maduro e il suo governo come legittimi in sede internazionale, elemento che va di pari passo con la richiesta venezuelana di revocare le “sanzioni”.

In secondo luogo, e ciò deriva da quanto sopra, il governo di Joe Biden continuerà a utilizzare il rilascio di licenze attraverso il Dipartimento del Tesoro come una componente della gestione e regolamentazione delle relazioni tra i due Paesi. Questa è una necessità per l’economia USA, con serie difficoltà nelle sue dinamiche energetiche interne. Allo stesso tempo, l’apertura e la riorganizzazione dei mercati delle materie prime è uno scenario favorevole per il Venezuela, quindi questo punto non dovrebbe vedersi sismicamente perturbato se non ci sono grandi cambiamenti politici.

Con la politica in stand-by e la gestione delle licenze energetiche a dare il tono alle relazioni, gli USA ricorrono ad altre manovre per cercare di continuare ad influenzare il Venezuela. La canalizzazione dei finanziamenti a organizzazioni non governative (ONG), il sostegno pubblico alle proteste settoriali di inizio anno —raccomandato da think tank come il Wilson Center— e l’assegnazione discriminatoria di risorse statali ai membri dell’AN-2015 sono gli altri movimenti, dietro le quinte, portati a termine dalla Casa Bianca.

Alla luce del comportamento dell’amministrazione Biden nei confronti del nostro Paese, si presume che continuerà a promuovere le suddette attività, a meno che qualche perturbazione esterna provochi un nuovo riassestamento della sua alterata strategia. Ma il fatto che debba ricorrere a ONG e partiti politici di opposizione, irregolarmente, in Venezuela per realizzare la sua agenda mostra, anche, che è soggetta agli eventi globali che perturbano lo status egemonico degli USA e, pertanto, è coinvolta in molteplici scenari che non può coprire completamente.


EL PUNTO MUERTO EN LAS RELACIONES VENEZUELA-EE.UU.

 

Las relaciones entre Venezuela y Estados Unidos están atravesando un cisma importante, luego de que funcionarios de la Casa Blanca se reunieron con el presidente Nicolás Maduro en marzo de 2022. El encuentro supuso el comienzo de una serie de intentos hacia un cambio de paradigma en el nexo bilateral, con el tema del levantamiento de las medidas coercitivas unilaterales como parte de las conversaciones, además del asunto energético y político propiamente —elecciones—.

Desde entonces Washington ha emitido medidas de autorización de operaciones y comercialización en materia de petróleo y gas —como la Licencia General 41— y órdenes políticas centradas en los campos de la energía y la política —la Licencia General 42—, enmarcadas en el desarrollo de la crisis energética que rige en los países del Norte Global. Los signos de los tiempos actuales marcan la agenda estadounidense sobre nuestro país, una de las razones por las que se hace tan difícil de determinar en qué punto de las relaciones entre ambos estamos.

La otra razón primordial reside en la errática estrategia de la administración de Joe Biden respecto a Venezuela, en respuesta a las acciones y declaraciones de Caracas en los ámbitos nacional e internacional que han trascendido en los últimos meses.

Desde agosto de 2021 el gobierno del presidente Nicolás Maduro, con la facilitación de Noruega y el acompañamiento de Países Bajos y Rusia, instaló la Mesa de Diálogo y Negociación en Ciudad de México junto con la llamada Plataforma Unitaria Democrática (PUD), que representa a los sectores opositores tradicionalmente más afines a Estados unidos, con el fin de llegar a acuerdos políticos, económicos y sociales que pudieran destrabar el escenario de conflicto que vino impulsándose en la última década sobre la República Bolivariana con apoyo foráneo.

Recordemos que la fundación de la PUD fue realizada por Juan Guaidó y una cuarentena de partidos y organizaciones políticas antichavistas en un acto de abril de 2021, meses antes de que comenzaran las primeras rondas de conversaciones en México entre gobierno y ese sector de las oposiciones. Entre sus fines está el de servir como plataforma para el diálogo y las negociaciones, incluida la materia electoral: la celebración de comicios presidenciales es uno de los puntos más destacados en la mesa instalada en México.

Los delegados de la PUD, entre ellos su jefe, el exalcalde y exdiputado Gerardo Blyde, y otros políticos como Stalin González y Freddy Guevara, han representado los intereses de Estados Unidos en la mesa de diálogo aun cuando formalmente se trata de oposición nacional, entendido así no solo por los vínculos directos entre aquellos y el aparato gubernamental estadounidense sino también porque tanto el Departamento de Estado como los connacionales antichavistas confiesan las mismas intenciones en torno al proceso negociador, cual si fuera calco y copia.

A finales de 2022 el gobierno venezolano y la PUD firmaron un segundo acuerdo parcial mediante el que se garantizaba la creación de un fondo de 3 mil 200 millones de dólares para el financiamiento de una agenda de asistencia social en Venezuela a través de la gestión financiera de la Organización de Naciones Unidas (ONU), con los recursos estatales bloqueados por las medidas coercitivas de Washington en cuentas en entidades internacionales.

En definitiva, ocurriría una devolución de parte de los activos —líquidos— a Venezuela pero administrada por la ONU, lo que habría significado un alto costo político ante el fracaso a vox populi de la estrategia estadounidense, que tiene a las “sanciones” basadas en el dólar, y a todo el sistema financiero que gira en su entorno, como principal arma.

La Casa Blanca no ha cumplido con la parte que le corresponde y ha sumado una serie de acciones que han erosionado el puente de contacto entre el país del Norte y Venezuela —no olvidar que existen canales de comunicación directos entre Caracas y Washington, D.C., de acuerdo con el mismo presidente Maduro—. Por supuesto, la decisión final está del lado norteamericano y significaría un cambio fundamental en el esquema de medidas coercitivas que se aplican sobre el país, una “recalibración” condicionada por el momento político.

El factor geopolítico se toma en cuenta a la hora de comprender la dirección hacia la que navegan las decisiones de la administración Biden sobre Venezuela. La guerra de Ucrania ha sido uno de los mayores hitos de los últimos tiempos en términos de giros paradigmáticos en las relaciones internacionales, y la respuesta agresiva de Estados Unidos ante aquello ha tenido un efecto búmeran, negativo para la economía norteamericana por los embates de la crisis energética global, retroalimentada por las decisiones de la administración Biden.

Nuestro país se encuentra en el centro de un reacomodamiento de los mercados globales de materias primas y arquitecturas financieras alejadas de la influencia dolarcéntrica. Dentro de ese marco, la industria petrolera venezolana juega un papel crucial por el cual los decisores estadounidenses están preocupados en su desarrollo, por sus alianzas estratégicas con los mayores competidores del poder estadounidense: China, Irán, Rusia, etcétera.

El mayor de los activos de Venezuela en el exterior, Citgo Petroleum, fue secuestrado y repartido al elenco de la “operación Guaidó” tanto como botín al servicio de la avaricia corporativa como para seguir financiando a esa oposición, toda vez que hay una ganancia particular por parte de dichos operadores vía goteo de la rapiña. Eso en 2019. Hasta la fecha sigue en manos de terceras personas que no tienen vinculación alguna con el Estado venezolano sino en manos privadas —de particulares— para continuar con la puesta en escena del “interinato” bajo otras vías extralegales, con el llamado Consejo de Administración y Protección de Activos, donde participan operadores políticos del G3 —partidos que forman parte de la PUD—.

Sin olvidar que, aun luego de haber prescindido de Juan Guaidó como protagonista de su estrategia, sigue moviéndolo a discreción —cual peón— entre los pasillos políticos de la “sociedad civil”, entre think tanks y las ONG del corretaje dominante de Washington, D.C.

La casi inherente entrega de Citgo en subasta, la contradictoria distinción referente a cuál es el “verdadero gobierno venezolano” —AN-2015 o Gobierno Bolivariano, si bien en sus documentos oficiales siguen diferenciando a uno como “gobierno interino” o como “Asamblea Nacional legítima frente al régimen”— y, por ende, la asignación de cuentas del Estado venezolano a personas que no son funcionarias oficiales, acumulan el compendio de acciones y normas que identifican una política contradictoria en torno a Venezuela.

Pero, sobre todo, son decisiones estadounidenses que constituyen una réplica a la buena estimación de la política exterior de Venezuela con relación a la demanda de levantamiento de “sanciones”, que tuvo a la Conferencia de Bogotá a finales de abril pasado como su mayor expresión con el apoyo de 20 países —incluidos europeos— en contra del bloqueo sobre la República Bolivariana.

Si bien el evento no tuvo la relevancia con la que se anticipaba, por no haber emitido políticas vinculantes en torno al asunto central, sirvió como plataforma para que en Norteamérica y Europa adquiriera mayor relevancia el problema energético detrás del esquema “sancionatorio” del Departamento del Tesoro. En ese sentido, fue un logro diplomático venezolano que quizás Estados Unidos no estaba dispuesto a tolerar del todo, no en medio de su propia debacle económica, financiera y social expuesta constantemente.

Los errores de la administración Biden solo han exaltado dicha situación, y la República Bolivariana es una de las piedras de tranca de sus intereses en la región. El “orden basado en normas” no subsume por entero el hemisferio occidental, y Venezuela tiene todo que ver en la ecuación.

Por eso, tras una década de intentos de golpe, estrategias para el “cambio de régimen”, medidas de asfixia económicas, financieras y comerciales recientemente provocaron un cambio en las relaciones bilaterales. No obstante, no se ha llegado a un punto de estabilidad, todo apunta a que suceda lo contrario. Más bien se está experimentando una etapa de altibajos, con acciones coyunturales de la Casa Blanca y sin un plan estratégico visible de cara a sus relaciones con Venezuela.

El gobierno de Nicolás Maduro ha puesto en el centro del conflicto el levantamiento de “sanciones” como un factor determinante de las relaciones, y apuesta a ello en un contexto de recuperación económica y reorganización de las relaciones internacionales de Venezuela en el mercado mundial.

Entonces, ¿qué podemos esperar de unas relaciones que se encuentran en un punto muerto? Primero, en lo político-diplomático, no habrá un destrabamiento debido a los mencionados costos que le suponen a Estados Unidos si en efecto reconociera al presidente Maduro y su gobierno como legítimos ante la arena internacional, un elemento que va de la mano con la exigencia venezolana de levantamiento de “sanciones”.

Segundo, y esto deviene de lo anterior, el gobierno de Joe Biden seguirá utilizando la emisión de licencias a través del Departamento del Tesoro como un componente de gestión y regulación de las relaciones entre ambos países. Siendo esta una necesidad para la economía estadounidense, con serias dificultades en su dinámica energética interna. Al mismo tiempo, la apertura y el reordenamiento de los mercados de materias primas es un escenario favorable para Venezuela, por lo que este punto no debería verse perturbado de manera sísmica si no hay mayores alteraciones en lo político.

Con lo político en stand-by y la gestión de licencias energéticas dando el tono de las relaciones, Estados Unidos recurre a otras maniobras para tratar de seguir influyendo en Venezuela. La canalización de financiamiento a organizaciones no gubernamentales (ONG), el apoyo público a las protestas sectoriales a inicios de año —recomendado por tanques de pensamiento como Wilson Center— y la asignación discriminada de recursos estatales a miembros de la AN-2015 son los otros movimientos detrás de cortinas que lleva a cabo la Casa Blanca.

En vista del comportamiento de la administración Biden respecto a nuestro país, se supone que ella continúe impulsando las mencionadas actividades, a menos que alguna perturbación exterior provoque un nuevo reajuste de su alterada estrategia. Pero el hecho de que tenga que recurrir a las ONG y partidos políticos opositores erráticamente en Venezuela para llevar a cabo su agenda da cuenta, también, de que se encuentra supeditada a los acontecimientos globales que perturban el estatus hegemónico de Estados Unidos y, por ende, está involucrada en múltiples escenarios que no puede cubrir de manera cabal.

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