Rosa Miriam Elizalde (*) – CENTRO STUDI ITALIA CUBA
I
Con la rivoluzione digitale viviamo un’illusione “democratizzatrice” che ha avverato l’utopia immaginata da Bertolt Brecht con la radiodiffusione. Ricordiamoci del suo sogno in cui ogni ascoltatore potesse non solo ascoltare, ma anche parlare.
Però questa possibilità convive non solo con un processo di colonizzazione dello spazio, del tempo e delle parole dei cittadini, ma anche – cosa ancora più importante – delle loro menti e del loro immaginario. La logica delle armi (cioè dell’intervento violento o della sua minaccia attraverso sanzioni o altri meccanismi ovunque il conflitto favorisca il dominio e gli interessi imperialisti) oggi non opera senza le “armi della logica” che mobilitano strumenti e risorse formidabili e che esercitano un controllo assoluto sull’informazione e sulla formazione dell’opinione pubblica, sui gusti e sui desideri, sulle aspirazioni e sulle speranze delle popolazioni sottoposte a un’esistenza di precarietà materiale e spirituale.
Queste “armi della logica” vengono utilizzate per legiferare e governare le soggettività, per costruire una coscienza collettiva che sia suscettibile al sistema di dominio. Il determinismo economico più grezzo, l’eliminazione dei riferimenti storici e la prospettiva del futuro – cioè della memoria e del progetto sociale – e la banalizzazione e la manipolazione del lavoro intellettuale sono tra i principi fondamentali di questa guerra culturale, che non avviene in modo arbitrario, ma sotto disegni politici e strutture organizzative che sono state costruite nel corso degli anni, come vedremo più avanti.
II
Quando nel mondo occidentale si parla di social media, si fa riferimento a una mezza dozzina di piattaforme digitali attraverso le quali circola l’80% del traffico di contenuti su Internet e che appartengono a multinazionali il cui modello di business consiste nell’offrire servizi e prodotti generalmente gratuiti o molto economici in cambio di una serie di privilegi: sorveglianza (come dimostrato da Edward Snowden), attenzione (che garantisce che ci siano persone dipendenti dallo schermo e che il modello di business funzioni) e i nostri dati (considerati il petrolio del XXI secolo).
Con il 63% della popolazione mondiale connessa a Internet e il 70% degli abitanti dipendenti dai dispositivi mobili, la Silicon Valley ha trovato una miniera d’oro apparentemente inesauribile e la tecnopolitica ha scoperto nuovi territori e geografie del tessuto sociale. Collegando a basso costo gli interessi degli individui, essi si sono rivelati il Santo Graal dell’azione politica perché possono essere più rilevanti nel motivare i cittadini rispetto alle condizioni economiche, educative o socio lavorative. “Lo sfruttamento è diventato auto-sfruttamento”, afferma il filosofo coreano Byung-Chul Han, conosciuto come il profeta del Big Data.
Il panottico (carcere circolare ideato dal filosofo inglese J. Bentham alla fine del ‘700 per facilitare la sorveglianza ) si è modernizzato nella forma dei social media: ora “ognuno è panottico a sé stesso”, dice Han. L’antica biopolitica è stata superata dalla “psicopolitica”, che si basa sulla “creazione di profili psicologici della popolazione attraverso l’incrocio di grandi volumi di dati e informazioni raccolte negli spazi online, gestite dalle aziende e offerte come merce agli Stati repressivi”.
Ciò che di solito non si comprende è che le piattaforme sociali non rappresentano un cambiamento di scala rispetto ai mezzi di comunicazione preesistenti come la radio, la televisione o la stampa, ma sono strutture mediatiche in grado di raggiungere milioni di persone con informazioni personalizzate, adattate a ogni individuo in base alle sue preferenze, senza che egli sia consapevole del fatto che il suo vicino o suo figlio riceva qualcosa di diverso, grazie all’evoluzione dei sistemi di archiviazione e elaborazione dei dati.
Gli ultimi mesi sono stati critici per la gestione delle grandi piattaforme digitali, basate sull’estrazione dei dati, con perdite in borsa dovute al fatto che i ritmi di crescita e di profitto di Alphabet (proprietaria di Google), Meta (proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp) e Twitter sono inferiori alle aspettative, mentre diverse di queste conglomerate stanno attuando licenziamenti di massa. Meta ha licenziato 11.000 dipendenti, il 13% del suo personale, mentre Twitter, di proprietà di Elon Musk, ha licenziato metà del suo personale, e Amazon ha stabilito un record con 13.000 persone che hanno perso il lavoro.
Tuttavia, il potere economico di queste multinazionali rimane schiacciante. Le 10 aziende più potenti e ricche del mondo, sei delle quali nel settore delle telecomunicazioni, hanno registrato nel 2022 un fatturato complessivo di 4300 miliardi di dollari, pari al 4,5% del prodotto interno lordo mondiale. Apple da sola rappresenta il PIL di 43 paesi africani (quasi mille miliardi di dollari).
Da alcuni anni diversi autori hanno introdotto il concetto di colonialismo 2.0 per descrivere e analizzare il modo in cui l’imperialismo del XXI secolo sfrutta i dati dei quasi 8 miliardi di persone che abitano il pianeta. Così come il colonialismo rese possibile l’accumulazione originaria che finanziò l’emergere del capitalismo 500 anni fa, grazie all’espansione territoriale e alla divisione del lavoro tra metropoli e colonie dalle quali venivano estratte materie prime a basso costo ma di valore, oggi stiamo vivendo una nuova spoliazione delle risorse che sta spingendo verso una nuova fase di strutturazione capitalistica. In altre parole, stiamo vivendo un nuovo ordine emergente per l’appropriazione della vita umana in modo che i dati possano essere continuamente estratti per ottenere profitti.
Cinque multinazionali statunitensi, che non pagano tasse nei paesi in cui operano e non rispettano la legislazione locale, agiscono come signori feudali che controllano infrastrutture critiche in tutto il mondo. Esperti come Cédric Durand parlano di tecno-feudalesimo, un feudalesimo proprio dei tempi moderni in cui pochi signori feudali, proprietari della tecnologia, monopolizzano le rendite che spetterebbero a milioni di cittadini (i vassalli), diventano tecno-dittatori, moltiplicano le disuguaglianze sociali, la disoccupazione cronica e i nuovi poveri. Questo pugno di tecno-oligarchi accumula fortune senza precedenti sulla base di un modello medievale, forse il più autoritario mai conosciuto: sanno tutto di tutti, ma nessuno o quasi sa come funziona né lo mette in discussione.
Nel suo libro Tecno-feudalesimo: critica dell’economia digitale, Cédric Durand afferma che “c’è un numero molto limitato di individui in grado di guidare e controllare il processo di socializzazione di milioni di esseri umani per mantenere la posizione dominante di poche aziende. La centralizzazione degli spazi digitali ci porta verso l’opposto di ogni prospettiva di emancipazione”.
In un recente saggio, Evgueni Morozov ha invitato a non dimenticare il ruolo dello Stato nel consolidamento dell’industria tecnologica statunitense. Altrimenti non si capirebbe perché l’ex CEO di Google, Eric Schmidt, oggi guidi il Defense Innovation Board, un organo consultivo del Pentagono; né il legame di Palantir con la comunità dell’intelligence degli Stati Uniti – uno dei suoi principali proprietari, Peter Thiel, è dietro PayPal, Facebook, Tesla, Uber, Airbnb e SpaceX -; né si capirebbe la grande strategia di Zuckerberg messa in atto per impedire la frammentazione di Facebook: vincerebbero i cinesi e si indebolirebbe la posizione degli Stati Uniti. E finora, con questo ricatto, è riuscito a mantenere la sua azienda multinazionale, nonostante i mega-scandali che hanno scosso la piattaforma.
Nel colonialismo 2.0 non si può separare la ragione economica dalla politica. Queste aziende statunitensi sono predatrici in termini di produzione, finanza e ambiente, ma allo stesso tempo costituiscono il terreno comune e gli interpreti del potere politico che guidano la disputa per l’attenzione, il tempo, l’interazione e il controllo dei nostri popoli. Sono il sostegno delle potentissime “armi della logica” utilizzate nella guerra cognitiva, la nuova forma di intervento militare nelle operazioni della NATO.
Uno studio pubblicato dall’Alleanza Atlantica nel novembre 2020 riconosce l’esistenza di un nuovo esercito attivo che considera “il cervello come campo di battaglia del XXI secolo” (Claverie e du Cluzel, 2020). Oltre alle operazioni nell’aria, nel mare, sulla terra e nello spazio cibernetico, questo nuovo dispositivo bellico si dedica a “resettare” la mente delle persone con una truppa composta da una élite di scienziati specializzati come neurologi, sociologi, matematici, epidemiologi, esperti di intelligenza artificiale e altri professionisti.
Il Pentagono è l’istituzione che ha fatto maggiori progressi in questo campo. Nel rapporto si legge:
Anche se diverse nazioni hanno condotto e stanno attualmente conducendo ricerche e sviluppo neuroscientifico a fini militari, forse gli sforzi più anticipatori in tal senso sono stati compiuti dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti con la ricerca e lo sviluppo più significativo e maturato più rapidamente condotto dall’Advanced Research Projects Agency (DARPA) e dall’Intelligence Advanced Research Projects Activity (IARPA).
François du Cluzel, un ex ufficiale militare francese che nel 2013 contribuì a creare il NATO Innovation Hub (iHub) con sede a Norfolk, in Virginia, è stato il principale responsabile di questo studio dell’Alleanza Atlantica. In una recente videoconferenza, ha spiegato cos’è la “guerra cognitiva”:
È fondamentale capire che si sta giocando sulla nostra cognizione, sul modo in cui il nostro cervello elabora le informazioni e le trasforma in conoscenza, invece di essere semplicemente un gioco sull’informazione o sugli aspetti psicologici del nostro cervello. È un’azione non solo contro ciò che pensiamo, ma anche contro il nostro modo di pensare, il modo in cui elaboriamo le informazioni e le trasformiamo in conoscenza… In altre parole, la guerra cognitiva non è una parola qualsiasi, un altro nome per definire la guerra dell’informazione. È una guerra contro il nostro processore individuale, il nostro cervello (NAOC, 2021).
III
L’America Latina è la regione più dipendente al mondo dalle piattaforme statunitensi, e questo non è un caso.
Nel 2011 il Comitato per le Relazioni Esterne del Senato degli Stati Uniti ha approvato quello che in alcuni circoli accademici è noto come operazione di “connettività efficace”. È stato un piano dichiarato in un documento pubblico per “espandere” le piattaforme sociali statunitensi nel continente. L’obiettivo era promuovere gli interessi americani nella regione tenendo conto delle condizioni di ogni paese e in modo che la formazione e gli investimenti non avvenissero in blocco, ma in modo differenziato e quindi “efficace”. Il documento ha chiarito l’interesse degli Stati Uniti nel promuovere le loro piattaforme nel continente:
Con oltre il 50% della popolazione mondiale al di sotto dei 30 anni, i nuovi media sociali e le tecnologie associate, così popolari all’interno di questo gruppo demografico, continueranno a rivoluzionare le comunicazioni in futuro. I media sociali e gli incentivi tecnologici in America Latina, basati sulle realtà politiche, economiche e sociali, saranno cruciali per il successo degli sforzi governativi degli Stati Uniti nella regione (USGPO, 2011).
Il documento concludeva con raccomandazioni specifiche per ogni paese latinoamericano, compresa Cuba, sebbene la strategia per l’isola sia rimasta segreta. In tutti i casi, “aumenta la connettività e riduce al minimo i rischi critici per gli Stati Uniti. Il nostro governo deve essere il leader negli investimenti infrastrutturali”.
La “dottrina della connettività efficace” è stata un successo e le prove sono ovunque. Nel 2022, secondo il portale di statistiche internazionali Statista, la penetrazione media di Facebook nella regione è stata del 39,8%. In America Latina e nei Caraibi, il 77,8% della popolazione utilizza la piattaforma (367,4 milioni di utenti), oltre il 10% in più rispetto all’Europa. Tra i giovani di età inferiore ai 24 anni, la presenza su Facebook è ancora maggiore: l’81% dei latinoamericani.
Il nostro continente è anche in cima alla lista per il tempo trascorso dagli utenti sulle piattaforme sociali: 212 minuti al giorno. Uno studio congiunto dell’Istituto per l’Integrazione dell’America Latina e della Corporazione Latinobarometro ha stabilito che oltre il 50% dei latinoamericani che non hanno accesso a servizi di base utilizza quotidianamente reti come Facebook, WhatsApp o YouTube.
L’ultimo rapporto del Digital News Report ha evidenziato che l’America Latina è anche la regione del mondo in cui i cittadini si informano di più tramite i social media, in particolare Facebook e Instagram. In Argentina, ad esempio, lo fa il 69%, mentre in Messico il 68% e in Brasile il 64%.
A fronte di questa situazione, come prometteva la “dottrina della connettività efficace”, l’impatto dei social media sulla vita politica latinoamericana è travolgente. Basta guardare alle campagne più recenti. In Colombia, mentre Rodolfo Hernández era conosciuto come “il vecchietto di TikTok” per i suoi video deliranti, Gustavo Petro è diventato, nel giro di poche settimane, uno dei colombiani con più seguaci nel paese. In Cile, il referendum per una nuova costituzione è stato caricato di accuse e di fake news su ciò che proponeva o non proponeva il quesito, mentre settimana dopo settimana dichiarazioni e azioni di ogni tipo diventavano virali. In Brasile, durante le recenti elezioni presidenziali, la Corte Suprema Federale non solo ha ordinato la cancellazione di migliaia di pubblicazioni considerate antidemocratiche dai social media, ma ha anche arrestato cinque imprenditori per aver “promosso” un colpo di Stato tramite WhatsApp. È diventato normale che leader come Nayib Bukele in El Salvador e Andrés Manuel López Obrador in Messico, con oltre 5 milioni e 9,7 milioni di follower su Twitter, rispettivamente, siano accusati di governare tramite i social media, attraverso i quali diffondono costantemente le loro opinioni, azioni e decisioni.
L’analista Daniel Zovatto avverte diverse tendenze fondamentali che caratterizzano la politica elettorale in America Latina dal 2020. Entrambi riconoscono l’importanza che i social media hanno avuto in questi cambiamenti:
• Distruzione della fiducia nelle istituzioni: nella nostra regione ci sono due grandi sondaggi su questo argomento: il Barometro delle Americhe (BA) e il Latinobarometro (LB). In entrambi i casi, il sostegno ai governi è diminuito negli ultimi anni passando dal 69% nel 2008 al 62% nel 2021 (BA) e dal 63% nel 2010 al 49% nel 2020 (LB). Nel frattempo, il 73% degli intervistati nel 2020 ha affermato che “si governa per gruppi potenti a proprio vantaggio” (LB). La fiducia nei partiti politici ha raggiunto il suo livello più basso: 13%.
• Iperpolarizzazione tossica: negli ultimi cinque anni si osserva un indebolimento della fiducia nella politica tradizionale, accompagnato da una frammentazione estrema che consente a candidati marginali di distinguersi con i loro messaggi. La polarizzazione estrema genera anche livelli pericolosi di violenza politica, verbale o fisica. In contesti iperpolarizzati, i candidati sconfitti tendono a non accettare i risultati, denunciando frodi inesistenti e avviando campagne di attacco e discredito alle istituzioni elettorali e governative.
• Trivializzazione della politica: si ricorre all’effetto, alla spettacolarità e alla semplificazione dei messaggi. La società viene divisa in campi di battaglia: noi contro loro. Questo “loro” viene spesso descritto come un’élite, una casta o una classe sociale a cui vengono associati tutti i mali del paese (antiestablishment), cercando di caricaturare gli avversari. Si privilegiano le relazioni dirette con i sostenitori e si sottovaluta la coesione comunitaria.
• Contaminazione informativa: le fake news, le campagne di disinformazione e la contaminazione informativa sono in aumento. I messaggi trasmessi attraverso i social media sono per lo più negativi – con emozioni di rabbia, paura e diffidenza – riproducono la polarizzazione e generano effetti di echo chamber (dialogo tra simili). Questo impedisce un dialogo politico costruttivo. I loro effetti sui processi elettorali sono avversi.
• Voto di punizione per il partito al governo: dal 2019 al 2022 si sono tenute 15 elezioni presidenziali. Ad eccezione del Nicaragua, in tutte queste elezioni c’è stato un voto di punizione per i partiti o i candidati del partito al governo, che sono stati sconfitti alle urne.
IV
A Cuba abbiamo vissuto gli effetti della guerra cognitiva, condotta dal governo degli Stati Uniti, che ha avuto il momento più pericoloso nell’estate del 2021, durante le proteste dell’11 e 12 luglio.
Quando si affrontano pubblicamente questi eventi, si parla poco della complicità delle piattaforme tecnologiche nelle operazioni di influenza straniera del governo degli Stati Uniti e nella creazione di un “bioma dell’odio” come catalizzatore della violenza a Cuba.
All’inizio degli anni ’90 del secolo scorso fu discussa e approvata la Legge Torricelli che consentì a Cuba di connettersi a Internet, perché i politici statunitensi vedevano nella “glasnost digitale” un’opportunità per distruggere la Rivoluzione Cubana. Il ricercatore Herbert I. Schiller considerava l’esistenza di un “Impero Nordamericano Emergente” che si stava preparando per la guerra elettronica: “È un impero con un minimo di sostanza morale, ma Hollywood è solo la zona più visibile di quell’impero. Esiste già un’ampia e attiva coalizione di interessi governativi, militari e commerciali che abbracciano le industrie informatiche, dell’informazione e dei media. La percezione del mondo di questi attori è decisamente elettronica”.
La maggior parte dei fondi pubblici e privati per il “cambio di regime” a Cuba si sono concentrati sull’ambito digitale a partire da quel decennio. Da quell’industria sono emersi i progetti più stravaganti, come Radio e TV Martí, il cosiddetto Twitter cubano Zunzuneo, la rete che il contractor Alan Gross ha cercato di installare clandestinamente, e la VPN Psiphon, creata dalla comunità di intelligence degli Stati Uniti e offerta gratuitamente ai cubani a luglio 2021.
I due principali obiettivi, non gli unici, per la ricolonizzazione di Cuba sono stati, da un lato, sedurre e soggiogare le masse con una narrazione favorevole al “sogno” americano, alla sua benevolenza e potere; dall’altro, punire il cittadino comune con un mostruoso regime di sanzioni e intervenire nella sfera pubblica dell’isola per criminalizzare il governo cubano.
Non hanno mai creduto di essere così vicini al raggiungimento di questi obiettivi come con il colonialismo 2.0, quando la nebulosa catena di intermediari – politici di origine cubana negli Stati Uniti, emigrati, media, diplomazia, centri di ricerca, l’industria culturale americana e altri – è riuscita a coordinarsi alla velocità di un clic, ad affermare come normale che Cuba fosse sull’orlo di un’esplosione e ad amplificare tale narrazione grazie alle piattaforme social e ai sistemi di elaborazione dei dati, che consentono agli strateghi della guerra cognitiva di sapere cosa sta accadendo in ogni angolo. Oltre il 70% dei cubani è connesso a Internet e la piattaforma più popolare nel paese è Facebook.
Alan McLeod ha documentato il ruolo avuto da un gruppo privato di Facebook chiamato “La Villa del Humor” nella pianificazione delle proteste iniziate l’11 luglio nella città di San Antonio de los Baños. Il giornalista del giornale digitale statunitense Mint Press News infiltratosi in questo gruppo, ha personalmente verificato come “notizie e immagini delle manifestazioni fossero alimentate da individui e gruppi negli Stati Uniti (…), a un livello che è difficile immaginare nel paese stesso”. Facebook non solo ha permesso la diffusione di contenuti incendiari, compresi quelli che promuovevano l’odio e incitavano a violenza, ostilità e discriminazione, ma si è trasformato anche in una cassa di risonanza di contenuti antigovernativi su reti utilizzate dagli utenti cubani, ma promossi da uno stato e da organizzazioni straniere. I suoi effetti potrebbero portare a gravi violazioni dei diritti umani, compreso il genocidio, come è accaduto in Myanmar (2018) e in Etiopia (2019) a causa degli abusi consentiti dalle piattaforme dei social media, come ampiamente documentato. Twitter ha svolto un ruolo chiave nella diffusione dell’hashtag #SOSCuba, che è diventato artificialmente l’argomento di discussione internazionale più ampio sulla storia di Cuba su Internet.
#SOSCuba ha avuto una viralità completamente artificiale, poiché l’hashtag che ha accompagnato e reso visibili le proteste è stato condiviso solo dal 5% degli utenti geolocalizzati a Cuba, tra l’11 e il 12 luglio 2021, come si può vedere in questo grafico:
La rappresentazione delle proteste dell’11 luglio a Cuba è un caso di studio perfetto su come le piattaforme sociali conducano alla alterazione delle vecchie regole della propaganda basate sull’esagerazione e semplificazione, sulla ridicolizzazione dell’avversario, sulla menzogna, sulla disinformazione, sulla diffusione di falsità e sulla diffusione di teorie del complotto. La peculiarità della situazione attuale è che i bias informativi possono essere indotti e configurati automaticamente per modellare gli scenari politici in brevi periodi di tempo.
Da alcuni anni abbiamo affrontato questi temi con amici latinoamericani, statunitensi ed europei nel Colloquio Internazionale “Patria”, promosso dall’Unione dei Giornalisti di Cuba.
Nell’ultima edizione del Colloquio si è discusso del fatto che sotto le regole imposte dal colonialismo 2.0 è molto difficile costruire società veramente democratiche in un mondo digitale. Ma la sinistra non dovrebbe mai smettere di considerare che ci sono molteplici possibilità di utilizzare le tecnologie al di là dell’ineguaglianza, della depredazione e dell’alienazione di milioni di esseri umani.
Per questo si è parlato dell’urgenza di contestare il potere statunitense nel panorama digitale e di favorire alleanze politiche, lo sviluppo di competenze e spazi che integrino la comunicazione, la generazione di contenuti e servizi e lo sviluppo di tecnologie sovrane.
Ci sono stati appelli a riprendere i progetti latinoamericani promossi dall’UNASUR, come il cavo in fibra ottica per il Sud America o lo sviluppo di piattaforme proprie per riportare in patria i contenuti ospitati sui server statunitensi, ma strategicamente gli sforzi dovrebbero essere dispiegati su diversi fronti di battaglia:
• Battaglia giuridica: combattere per un quadro giuridico uniforme e affidabile che ridimensioni il controllo dei giganti tecnologici statunitensi. Questa lotta deve essere combattuta su tutte le scale: locale, nazionale, regionale e globale. Come avviene oggi nelle lotte per i diritti di genere, della famiglia o dell’ambiente, è essenziale concordare un insieme di principi comuni sulla regolamentazione dello spazio cibernetico, in particolare sui diritti alla privacy, alla sovranità e al controllo dei dati.
• Battaglia comunicativa: creare un’agenda comunicativa comune, sovranazionale, che includa argomenti come formazione, governance di Internet, copyright, innovazione, industria culturale, narrazioni politiche contemporanee, divari di genere e di età, e altri temi.
• Battaglia delle relazioni: costruire reti politiche, economiche, finanziarie e tecnologiche che vincano la battaglia per l’autonomia del pensiero di fronte alla colonizzazione dello spazio digitale e recuperare e condividere le buone pratiche e le azioni di resistenza.
• Battaglia per gli strumenti: creare i nostri propri laboratori per la tecno-politica e le nostre piattaforme. È improbabile che un singolo paese, e ancor meno un’organizzazione isolata, possa trovare risorse per affrontare le cyber-truppe organizzate dalla destra e dai laboratori dell’impero che si muovono alla velocità di un clic durante le elezioni o in scenari di crisi, ma un blocco di professionisti, organizzazioni, movimenti e governi progressisti avrebbe una maggiore capacità di sviluppare livelli di risposta. Ciò consentirebbe un maggiore potere contrattuale nei confronti delle potenze nell’Intelligenza Artificiale e nei Big Data e delle loro aziende, oltre a sfidare gli organismi globali in cui vengono definite le politiche di governance.
(*) Rosa Miriam Elizalde
Giornalista cubana. Primo Vice Presidente dell’UPEC e Vice Presidente della FELAP, è dottoressa di ricerca in Scienze della Comunicazione e autrice o coautrice dei libri “Antes de que se me olvide”, “Jineteros en La Habana” e “Chávez Nuestro”, tra gli altri. Ha ricevuto in diverse occasioni il Premio Nazionale di Giornalismo “Juan Gualberto Gómez” e il Premio Nazionale “José Martí” alla carriera. Fondatrice di Cubadebate e caporedattore fino a gennaio 2017. È editorialista per La Jornada, in Messico
Influencia de las plataformas sociales en procesos políticos de nuestra región.
Rosa Miriam Elizalde
I
Vivimos una ilusión «democratizadora» con la revolución digital, que hizo realidad la utopía que imaginara Bertolt Brecht con la radiodifusión -recordemos su sueño de que cada oyente no solo escuchara, sino que hablara-
Pero esa posibilidad convive no solo con un proceso de colonización del espacio, el tiempo y las palabras de los ciudadanos, sino de lo que es más importante, de sus mentes y sus imaginarios. La lógica de las armas (es decir, de la intervención violenta o la amenaza de ella mediante sanciones u otros mecanismos dondequiera que el conflicto favorezca a la dominación y los intereses imperialistas), no opera hoy sin las «armas de la lógica», que movilizan formidables instrumentos y recursos, y que ejercen controles absolutistas sobre la información y la formación de opinión pública, los gustos y los deseos, los anhelos y las esperanzas de la población sometida a una existencia de precariedad material y espiritual.
Esas «armas de la lógica» se aplican para legislar y gobernar las subjetividades, para construir una conciencia colectiva que resulte sensible al sistema de dominación. El determinismo económico más grosero, la eliminación de referentes históricos y la perspectiva de futuro –esto es, de la memoria y del proyecto–, la trivialización y la manipulación del trabajo intelectual, están entre los principios fundamentales de esa guerra cultural, que no se produce de manera arbitraria, sino bajo diseños políticos y estructuras organizativas que llevan años construyéndose, como veremos más adelante.
II
Cuando se habla de redes sociales en el mundo occidental, se hace referencia a media docena de plataformas digitales por las que circula el 80% del tráfico de contenido que hay en internet, y que pertenecen a empresas multinacionales cuyo modelo de negocio consiste en ofrecer servicios y productos generalmente gratuitos, o muy baratos, a cambio de una serie de privilegios: la vigilancia (como demostró Edward Snowden), la atención (lo que garantiza que haya gente adicta a la pantalla y funcione el modelo de negocio) y nuestros datos (conocidos como el petróleo del siglo XXI).
Con el 63 por ciento de la población mundial conectada a Internet y el 70 por ciento de los habitantes enganchados a los dispositivos móviles, Silicon Valley encontró una aparentemente inagotable mina de oro y la tecnopolítica ha descubierto nuevos territorios y geografías de lo social. Al conectar a bajo costo los intereses de los individuos, estos se han revelado como el santo grial para la acción política, porque pueden ser más relevantes para motivar a la ciudadanía que las condiciones económicas, educativas o sociolaborales. «La explotación ha devenido en autoexplotación», afirma el filósofo coreano Byung-Chul Han[1], conocido como el profeta del Big Data.
El panóptico se modernizó en la forma de las redes sociales, ahora «cada uno es panóptico de sí mismo», dice Han. La antigua biopolítica quedó superada por la «psicopolítica», que se basa en la «creación de perfiles psicológicos de la población a partir del cruzamiento de grandes volúmenes de datos e información recopilada en nubes online, administradas por las empresas y ofrecidas como mercadería a los Estados represivos».
Lo que no se suele comprender es que las plataformas sociales no son un cambio de escala respecto a medios preexistentes -la radio, la televisión, la prensa escrita-, sino estructuras mediáticas capaces de llegar a millones de personas con información personalizada, adaptada como un guante a cada individuo, según sus preferencias y sin que este tenga conciencia de que su vecino o a su hijo recibe otra cosa, debido a la evolución de los sistemas de almacenamiento y procesamiento de datos.
Los últimos meses vienen siendo críticos para la gestión de las grandes plataformas digitales, basadas en el extrativismo de los datos, con pérdidas bursátiles que obedecen a que los ritmos de crecimiento y obtención de ganancias por parte de Alphabet (dueño de Google), de Meta (dueño de Facebook, Instagram, WhatsApp) y de Twitter son menores a los esperados, al tiempo que varios de estos conglomerados protagonizan despidos masivos. Meta ha expulsado a 11 mil trabajadores, el 13% de su plantilla, en tanto que Twitter, poseída por Elon Musk, despidió a la mitad de su planta laboral, y Amazon, ha establecido un récord, 13 mil personas enviadas a la calle.
Pero el poder económico de estas transnacionales sigue siendo abrumador. Las 10 empresas más poderosas y ricas del mundo -seis de ellas en el negocio de las telecomunicaciones- tuvieron en 2022 unos ingresos conjuntos que suman 4,3 billones de dólares, lo que equivale al 4,5 % del Producto Interno Bruto mundial. Apple sola concentra al PIB de 43 países africanos (cerca de un billón de dólares).
Varios autores hemos propuesto desde hace algunos años el concepto de colonialismo 2.0 para describir y analizar el modo en que el imperialismo del siglo XXI explota los datos de los casi 8 000 millones de personas que viven en el planeta. Así como el colonialismo posibilitó el proceso de acumulación originaria que financió el surgimiento del capitalismo hace 500 años, en un proceso de expansión territorial y división del trabajo entre metrópolis y colonias de las que se extraían materias primas al mismo tiempo baratas y valiosas, hoy estamos viviendo un nuevo despojo de recursos que está impulsando una nueva fase de estructuración capitalista. Es decir, estamos viviendo un nuevo orden emergente para la apropiación de la vida humana de modo que los datos puedan ser extraídos continuamente de ella para obtener ganancias.
Cinco multinacionales estadounidenses, que no pagan impuestos donde operan y no cumplen la legislación local, actúan como señores feudales que controlan infraestructuras críticas en todo el planeta. Expertos como Cédric Durand hablan de tecnofeudalismo, un feudalismo propio de los tiempos modernos en el cual unos pocos señores feudales, dueños de tecnología, acaparan las rentas que corresponderían a millones de ciudadanos (los vasallos), se convierten en tecnodictadores, multiplican las desigualdades sociales, el desempleo crónico y millones de pobres suplementarios. Ese puñado de tecno-oligarcas acumulan fortunas jamás igualadas, a partir de un modelo medieval, quizás el más autoritario que se conozca: sabe todo de todos, pero nadie o casi nadie sabe cómo funciona ni lo desafía.
En su libro Tecnofeudalismo: crítica de la economía digital, Cédric Durand afirma que «hay un número muy limitado de individuos capaces de conducir y controlar el proceso de sociabilización de millones de seres humanos para mantener la posición dominante de unas pocas empresas. La centralización de los espacios digitales nos conduce al lado opuesto de toda perspectiva de emancipación».[2]
En un ensayo reciente[3], Evgueni Morozov ha llamado a no olvidar el papel del Estado en la consolidación de la industria tecnológica estadounidense. De otra forma no se entendería por qué el antiguo CEO de Google, Eric Schmidt, dirige hoy el Defense Innovation Board, órgano asesor del Pentágono; ni el nexo de Palantir con la comunidad de inteligencia de Estados Unidos -uno de sus principales dueños, Peter Thiel, está detrás de PayPal, Facebook, Tesla, Uber, AirBnb y SpaceX -; ni se entendería el gran argumento de Zuckerberg para impedir la fragmentación de Facebook: ganarían los chinos y se debilitaría la posición de EEUU. Y hasta ahora, con ese chantaje, ha logrado mantener su transnacional, a pesar de los mega-escándalos que han sacudido a esta plataforma.
No se puede separar la razón económica de la política en el colonialismo 2.0. Estas compañías estadounidenses son depredadoras en términos de producción, finanzas y medioambiente, pero a la vez constituyen arena común y agentes de poder político que encabezan la disputa por la atención, el tiempo, la interacción y el control de nuestros pueblos. Son el soporte de las poderosísimas «armas de la lógica» que se utilizan en la guerra cognitiva, la nueva forma de intervención militar en las operaciones de la OTAN.
Un estudio publicado por la Alianza Atlántica en noviembre de 2020, reconocía que hay un nuevo ejército en activo, que contempla «el cerebro como campo de batalla del siglo XXI» (Claverie y du Cluzel, 2020).[4] Además de las operaciones de aire, mar, tierra y el ciberespacio, este un nuevo dispositivo bélico se dedica a «resetear» la mente de los individuos, con una tropa integrada por científicos de especialidades de élite como neurólogos, sociólogos, matemáticos, epidemiólogos, expertos en Inteligencia Artificial y otros profesionales.
El Pentágono es la institución que más ha avanzado en este ámbito, según el informe:
Aunque varias naciones han llevado a cabo y actualmente están realizando investigación y desarrollo neurocientíficos con fines militares, quizás los esfuerzos más proactivos en este sentido han sido realizados por el Departamento de Defensa de los Estados Unidos; con la investigación y el desarrollo más notable y de rápida maduración llevada a cabo por la Agencia de Proyectos de Investigación Avanzada de Defensa (DARPA) y la Actividad de Proyectos de Investigación Avanzada de Inteligencia (IARPA).[5]
François du Cluzel, un ex oficial militar francés que en 2013 ayudó a crear el Centro de Innovación de la OTAN (iHub), con base en Norfolk, Virginia, fue el principal encargado de elaborar este estudio de la Alianza Atlántica. En una vidoconferencia reciente, explicó de qué va la «guerra cognitiva»:
Es crucial entender que se trata de un juego sobre nuestra cognición, sobre la forma en que nuestro cerebro procesa la información y la convierte en conocimiento, en lugar de únicamente un juego sobre información o sobre aspectos psicológicos de nuestro cerebro. No es solo una acción contra lo que pensamos, sino también una acción contra nuestra forma de pensar, la forma en que procesamos la información y la convertimos en conocimiento… En otras palabras, la guerra cognitiva no es una palabra más, otro nombre para la guerra de información. Es una guerra contra nuestro procesador individual, nuestro cerebro. (NAOC, 2021) [6]
III
América Latina es la región más dependiente del mundo de las plataformas estadounidenses, y no es obra de la casualidad.
En 2011 el Comité de Relaciones Exteriores del Senado de Estados Unidos aprobó lo que en algunos círculos académicos se conoce como operación de «conectividad efectiva». Fue un plan declarado en un documento público para «expandir» las plataformas sociales de EEUU en el continente. El objetivo era promover los intereses norteamericanos en la región, pero teniendo en cuenta las condiciones de cada país, de modo que la capacitación y las inversiones no se produjeran en bloque, sino de manera diferenciada y por tanto «efectiva». El documento dejó claro el interés de Estados Unidos para promover sus plataformas en el continente:
Con más de 50 por ciento de la población del mundo menor de 30 años, los nuevos medios sociales y las tecnologías asociadas, que son tan populares dentro de ese grupo demográfico, seguirán revolucionando las comunicaciones en el futuro. Los medios sociales y los incentivos tecnológicos en América Latina sobre la base de las realidades políticas, económicas y sociales serán cruciales para el éxito de los esfuerzos gubernamentales de Estados Unidos en la región. (USGPO, 2011) [7]
El documento concluyó con recomendaciones específicas para cada país latinoamericano, incluida Cuba -aunque la estrategia para la Isla se mantuvo en secreto-. En todos los casos, «aumenta la conectividad y se reduce al mínimo los riesgos críticos para Estados Unidos. Nuestro gobierno debe ser el líder en la inversión de infraestructura», concluyó.
La «doctrina de la conectividad efectiva» ha sido un éxito, y las evidencias están por todos lados. En 2022, según el portal de estadísticas internacionales Statista[8], el promedio mundial de penetración de Facebook en la región fue del 39,8%. En América Latina y el Caribe, el 77,8% por ciento de la población utiliza este canal (367,4 millones de usuarios), más de 10 puntos porcentuales que en Europa. Entre los menores de 24 años, la presencia en Facebook es aún mayor: el 81% de los latinoamericanos.
Nuestro continente también encabeza la lista de mayor tiempo en pantalla de los usuarios de las plataformas sociales: 212 minutos diarios. Un estudio conjunto del Instituto de Integración de América Latina y Corporación Latinobarómetro determinaron que más del 50% de los latinoamericanos que no cuentan con servicios básicos utilizan diariamente redes como Facebook, WhatsApp o YouTube[9].
El último informe del Digital News Report[10] señaló que América Latina es también la región del mundo donde más los ciudadanos se informan por redes sociales, especialmente por Facebook e Instagram. En Argentina, por ejemplo, lo hace el 69%, mientras que en México el 68% y en Brasil el 64%.
Ante este panorama, como prometía la «doctrina de conectividad efectiva», el impacto de las plataformas sociales en la vida política latinoamericana es abrumador. Basta mirar las campañas más recientes. En Colombia, mientras Rodolfo Hernández era conocido como el viejito de TikTok por sus reels delirantes, Gustavo Petro se transformó en cuestión de semanas en uno de los colombianos con más seguidores de su país. En Chile, el plebiscito de salida para una nueva constitución estuvo cargado de acusaciones de fake news sobre lo que decía y no decía la propuesta, a la vez que semana a semana se viralizaban declaraciones y acciones de todo tipo. En Brasil, durante las recientes elecciones presidenciales, el Tribunal Supremo Federal, no sólo ordenó borrar a las redes sociales miles de publicaciones que consideró antidemocráticas, sino que arrestó a cinco empresarios por «promover» desde sus WhatsApp un golpe de Estado. Se ha hecho habitual que mandatarios como Nayib Bukele en El Salvador y Andrés Manuel López Obrador en México, con más de 5 millones y 9,7 millones de seguidores en Twitter, respectivamente, sean acusados de gobernar por las redes sociales, en las que divulgan sus opiniones, acciones y decisiones contantemente.
El analista Daniel Zovatto[11] advierte varias tendencias fundamentales que marcan la política electoral en América Latina desde el 2020. Ambos reconocen el peso que en estos cambios han tenido las plataformas sociales:
Destrucción de la confianza en las instituciones: En nuestra región existen dos grandes encuestas sobre este tema: el Barómetro de las Américas (BA) y el Latinobarómetro (LB). En ambas, el apoyo a los gobiernos ha descendido en los últimos años, del 69 % en 2008 al 62 % en 2021 (BA) y del 63 % en 2010 a 49 % en 2020 (LB). Mientras, el 73 % de los encuestados en 2020 afirmaban que «se gobierna para grupos poderosos en su propio beneficio» (LB). La confianza en los partidos políticos ha llegado a su piso más bajo: 13 %.
Hiperpolarización tóxica: En el último lustro se observa un debilitamiento de la confianza en la política tradicional, acompañado de una hiperfragmentación que permite que candidatos marginales se destaquen en sus mensajes. La polarización extrema genera además niveles peligrosos de violencia política, verbal o física. En estos contextos hiperpolarizados, los candidatos derrotados tienden a no aceptar los resultados, denunciar fraudes inexistentes y comenzar campañas de ataque y desprestigio a las instituciones electorales y gubernamentales.
Trivialización de la política: Se apela al efectismo, a la espectacularidad y a la simplificación de los mensajes. Se divide a la sociedad en campos de batalla: nosotros versus ellos. Ese «ellos» suele ser descrito como una élite, casta o clase social a la cual se asocian todos los males del país (antiestablishment), buscando caricaturizar a los oponentes. Se privilegian las relaciones directas con los seguidores y se desestima el tejido comunitario.
Contaminación informativa:Las fake news, las campañas de desinformación y la contaminación informativa están en ascenso. Los mensajes transmitidos vía redes sociales son mayoritariamente negativos -con emociones de ira, miedo y desconfianza-, reproducen la polarización y generan efectos de cámaras de eco (diálogo entre iguales). Esto impide el diálogo político constructivo. Sus efectos sobre los procesos electorales son adversos.
Voto de castigo al oficialismo: Desde 2019 a 2022 se han celebrado 15 elecciones presidenciales. Salvo en Nicaragua, en todas ellas hubo un voto castigo a los partidos o candidatos del partido gobernante, que fueron derrotados en las urnas.
IV
En Cuba vivimos los efectos de la guerra cognitiva liderada por el gobierno de Estados Unidos, que tuvo el momento más peligroso en el verano de 2021, durante las protestas del 11 y 12 de julio de ese año.
Cuando se abordan públicamente estos acontecimientos poco se habla de la complicidad de las plataformas tecnológicas en las operaciones de influencia extranjera del gobierno de Estados Unidos y en la creación de “biomas del odio” como catalizadores de la violencia en Cuba.
A inicios de la década del 90 del siglo pasado se discutió y aprobó la Ley Torricelli que permitió la conexión de Cuba a Internet, porque los políticos estadounidenses vieron en la «glasnost digital» una oportunidad para destruir la Revolución cubana. El investigador Herbert I. Schiller daba por sentado la existencia de un «Imperio Norteamericano Emergente», que se preparaba para la guerra electrónica: «Es un imperio con un mínimo de substancia moral, pero Hollywood es solo la zona más visible de ese imperio. Existe ya una amplia y activa coalición de intereses gubernamentales, militares y empresariales que abarcan las industrias informática, de la información y de medios de comunicación. La percepción del mundo que tienen estos actores es decididamente electrónica».[12]
La mayoría de los fondos públicos y privados para el «cambio de régimen» en Cuba derivaron desde esa década al escenario digital. Salieron de esa industria los proyectos más rocambolescos, desde Radio y TV Martí, pasando, entre muchos otros, por el llamado Twitter cubano, Zunzuneo; la red que intentó instalar clandestinamente el contratista Alan Gross, y la VPN Psiphon, creada por la comunidad de inteligencia de EEUU y ofrecida gratuitamente a los cubanos en julio de 2021.
Los dos objetivos principales y no excluyentes para la recolonización de Cuba han sido, por un lado, seducir y subyugar a las audiencias con una narrativa a favor del «sueño» estadounidense, su benevolencia y poder; por el otro, castigar al ciudadano común con un monstruoso régimen de sanciones e intervenir la esfera pública de la Isla para criminalizar por ello al gobierno cubano.
Pero nunca creyeron estar más cerca de lograrlo que con la variante del colonialismo 2.0, cuando la nebulosa cadena de intermediarios -legisladores de ascendencia cubana en Estados Unidos, emigrados, medios de comunicación, diplomacia, centros de investigación, la industria cultural estadounidense y otros- lograron coordinarse a la velocidad de un clic, instalar como sentido común que Cuba estaba a las puertas de un estallido y amplificar ese relato, gracias a las plataformas sociales y a los sistemas de procesamiento de datos, que permiten saber a los estrategas de guerra cognitiva qué está pasando en cada manzana -más del 70 por ciento de los cubanos están conectados a Internet y la plataforma más popular en el país es Facebook.
Alan McLeod documentó el papel que tuvo un grupo privado de Facebook «La Villa del Humor», en la planificación de las protestas que se iniciaron el 11 de julio por la ciudad de San Antonio de los Baños. El periodista del diario digital estadounidense Mint Press News, que se infiltró en este grupo, comprobó personalmente cómo «las noticias y las imágenes de las manifestaciones eran impulsadas por individuos y grupos en los Estados Unidos (…), a un nivel que difícilmente puede concebirse en ese país». [13]
Facebook no solo permitió la exhibición de contenido incendiario, incluido el que propugnaba el odio e incitaba a la violencia, la hostilidad y la discriminación, sino que se convirtió en una cámara de resonancia de contenido antigubernamental en redes utilizadas por usuarios cubanos, pero promovido desde un estado y organizaciones en el extranjero. Sus efectos pudieron conducir a procesos con graves violaciones de los derechos humanos, incluido el genocidio, como los que se vivieron en Myanmar (2018) y Etiopía (2019) debido a los abusos que permitió la plataforma de redes sociales y han sido ampliamente documentados. Twitter fue clave, a su vez, en la propagación de la etiqueta #SOSCuba, que se convirtió de manera artificial en el tema de conversación de mayor alcance internacional sobre Cuba en la historia de Internet.
#SOSCuba tuvo una viralidad totalmente artificial, porque la etiqueta que acompañó y visibilizó las protestas solo fue compartida por el 5% de usuarios geolocalizados en Cuba, entre el 11 y 12 de julio de 2021, como se puede ver en esta gráfica:
La representación de las protestas del 11 de julio en Cuba es un perfecto caso de estudio de cómo las plataformas sociales conducen a la sofisticación de las viejas reglas de la propaganda, basadas en la exageración y la simplificación, la ridiculización del adversario, la mentira, la desinformación, la difusión de bulos y la propagación de teorías conspirativas. La peculiaridad de la situación actual es que los sesgos informativos se pueden inducir y configurar automáticamente para modelar los escenarios políticos en cortos períodos de tiempo.
V
Desde hace unos años hemos abordado estos temas con amigos latinoamericanos, estadounidenses y europeos, en el Coloquio Internacional «Patria», auspiciado por la Unión de Periodistas de Cuba.
En la más reciente edición del Coloquio, se habló de que bajo las reglas que ha impuesto el colonialismo 2.0 es muy difícil construir sociedades verdaderamente democráticas en un mundo digital. Pero la izquierda no debería bajo ningún concepto dejar de considerar que hay múltiples posibilidades de usos de las tecnologías bajo otro signo que no sea la desigualdad, la depredación y la alienación de millones de seres humanos.
Por eso se habló de la urgencia de disputar el poder estadounidense en el escenario digital y de propiciar las alianzas políticas, la formación de capacidades y los espacios que integren la comunicación, la generación de contenidos y servicios, y el desarrollo de las tecnologías soberanas.
Hubo llamados a recuperar proyectos latinoamericanos que impulsó UNASUR -como el cable de fibra óptica para América del Sur o el desarrollo de plataformas propias para repatriar contenidos alojados en servidores estadounidenses-, pero en lo estratégico se deberían desplegar esfuerzos en varios frentes de batalla:
- Batalla jurídica: pelear por un marco jurídico homogéneo y fiable que minimice el control de los gigantes tecnológicos norteamericanos. Esta disputa hay que darla a todas las escalas: en lo local, lo nacional, lo regional y lo global. Como ocurre hoy con las luchas por los derechos de género, familia o medioambiente, es imprescindible conciliar un cuerpo de principios comunes sobre la regulación del ciberespacio, en particular sobre los derechos a la privacidad, la soberanía y el control de los datos.
- Batalla comunicacional: armar una agenda comunicacional común, supranacional, que incorpore temas como la formación, la gobernanza de Internet, el copyright, la innovación, la industria cultural, las estéticas contemporáneas en la narrativa política, las brechas de género y etarias, entre otros temas.
- Batalla de las relaciones: concertar redes políticas, económicas, financieras, tecnológicas que ganen la disputa de sentido frente a la colonización del espacio digital, y recuperar y socializar las buenas prácticas y las acciones de resistencia.
- Batalla por las herramientas: crear nuestros propios laboratorios para la tecnopolítica y nuestras propias plataformas. Es improbable que un país por sí solo -y mucho menos una organización aislada- pueda encontrar recursos para enfrentar a las cibertropas organizadas por la derecha y por los laboratorios imperiales que se movilizan a la velocidad de un clic en jornadas electorales o en escenarios de crisis, pero un bloque de profesionales, organizaciones, movimientos y gobiernos progresistas tendría mayor capacidad de desarrollar niveles de respuesta. Permitiría más poder de negociación frente a las potencias en Inteligencia Artificial y Big Data y sus empresas, además de desafiar las instancias globales donde se definen las políticas de gobernanza.
[1] Han, Byung-Chul (2012). La sociedad del cansancio. Bunoes Aires: Editorial Herder. P.17
[2] Durand, C. (2021). Tecnofeudalismo: crítica de la economía digital. La Cebra; Donostia: Kaxilda. pp.32-33.
[3] Morozov, E. (2022). Critique of Techno-Feudal Reason. New Left Review (Vol. 133-134). Enero-Junio 2022. Accedido el 26 de marzo de 2023, en https://newleftreview.org/issues/ii133/articles/evgeny-morozov-critique-of-techno-feudal-reason .
[4] Claverie, B; du Cluzel, F (2022). “The Cognitive Warfare Concept”. Innovation Hub Sponsored by NATO Allied Command Transformation. Accedido el 23 de marzo de 2023, en https://www.innovationhubact.org/sites/default/files/202202/CW%20article%20Claverie%20du%20Cluzel%20final_0.pdf
[5] Ibidem.
[6] NAOC (2021). Canada – NATO Innovation Challenge Fall 2021: Cognitive Warfare. Videoconferencia. Accedido el 23 de marzo de 2023, en https://www.eventbrite.ca/e/canada-nato-innovation-challenge-fall-2021-cognitive-warfare-tickets-181243302597#
[7] U.S. Government Printing Office (USGPO). Latin American Governments Need to «Friend» Social Media and Technology. A Minority Staff Report Prepared for the Use of the Committee on Foreign Relations United States Senate. One Hundred Twelfth Congress. First Session, October 5, 2011. 13/11/2013 23:12 hs. En: http://www.gpo.gov/fdsys/pkg/CPRT-112SPRT70501/html/CPRT-112SPRT70501.htm
[8] Statista (2022). Porcentaje de población global usuaria de de Facebook a mayo de 2022, por área geográfica. En: https://es.statista.com/estadisticas/634940/facebook-tasa-de-penetracion-global-en-mayo-de–por-region/
[9] Corporación Latinobarómetro (2022). Informe 2021. En: https://www.latinobarometro.org/LATDocs/F00011665-Latinobarometro_Informe_2021.pdf
[10] Neuman, N. et al. (2021). Digital News Report 2021. Reuters Institute for the Study of Journalism.
[11] Zovatto, D. (2022) “El superciclo electoral latinoamericano 2021-2024”. Diálogo político. En:
https://dialogopolitico.org/elecciones/el-superciclo-electoral-latinoamericano-2021-2024/
[12] Schiller, H. (2006). “Augurios de supremacía electrónica global”. CIC Cuadernos de Información y Comunicación 2006, vol. 11, 167-178 .
[13] McLeod, A. (2021). “Private Facebook Group That Organized the July Protests in Cuba Plans Bigger Ones Soon”. Mint Press News, 5 de octubre de 2021. En: https://www.mintpressnews.com/private-facebook-group-organized-july-protests-cuba-plans-bigger-ones-soon/278598/