Guyana, oltre la Corte Internazionale di Giustizia

Sai Sira

Martedì 7 novembre 2023, mentre si svolgeva a Caracas l’Atto di Unione Nazionale in Difesa della Guayana Esequiba, che ha riunito una pluralità di attori politici, economici, sociali, culturali e intellettuali che vivono in Venezuela, si è saputo, attraverso il presidente Nicolás Maduro, di una dichiarazione del primo ministro della Guyana, il brigadiere Mark Phillips, in cui, tra l’altro, assicurava che “il tempo dei negoziati è finito” (“time for negotiation is over”).

In un contesto caratterizzato dall’incremento della presenza del Comando Sud (SouthCom) nella regione attraverso l’approfondimento della “cooperazione militare” con la Guyana e che viene opportunamente denunciato dal Ministero degli Esteri venezuelano, nonché dal mancato rispetto da parte delle multinazionali dell’energia come ExxonMobil dalla disputa che resta sul territorio di Essequibo, le dichiarazioni della seconda autorità più importante dell’esecutivo della Guyana non possono essere sottovalutate ed esigono un’analisi approfondita.

Poiché, se qualcosa ha caratterizzato le alte autorità politiche della Guyana (presidenti, cancellieri e primi ministri) dal 2015, è il loro continuo diniego e rifiuto di qualsiasi forma di dialogo che possa innescare un processo di negoziazione con la Repubblica Bolivariana del Venezuela che porti a risolvere, in modo pacifico e reciprocamente soddisfacente, la controversia territoriale sull’Essequibo.

DIALOGO E NEGOZIAZIONE COME POLITICA DI STATO

Ripercorrendo la memoria storica della controversia che il Venezuela mantiene sull’Essequibo e analizzando in dettaglio il processo che ha seguito la firma dell’Accordo di Ginevra del 1966 con la Guyana indipendente e repubblicana, è innegabile la volontà di dialogo che lo Stato venezuelano ha mantenuto come spina dorsale della sua politica nella disputa territoriale.

Al di là delle critiche che una simile posizione potrebbe generare, soprattutto guardandola con gli occhi puntati sul presente e irrimediabilmente condizionati dalla insensata posizione della Guyana, la storia dimostra che quando non c’è dialogo né negoziazione, la strada che rimane è quella dello scontro e del conflitto violento, che quasi sempre, dopo un’incipiente escalation, sfocia in una guerra e con essa nessuno vince, tutti perdono.

Sebbene il consenso e il conflitto siano parte integrante della politica, in materia di Stati sovrani è sempre preferibile manifestare e sostenere iniziative che portino al consenso, al dialogo e all’accordo; i grandi conflitti che l’umanità ha attraversato sono stati una conseguenza della sua inosservanza e dell’impegno ad aumentare le differenze.

Questa dovrebbe essere una delle caratteristiche più rilevanti degli statisti e dirigenti politici, soprattutto in un contesto globale come quello attuale, caratterizzato da un’infinità di componenti geopolitiche che indicano un imminente cambiamento nell’ordine internazionale che condizionano, e talvolta addirittura determinano, il comportamento dei paesi, soprattutto di quella vasta fascia chiamata Sud Globale, che con sovranità parziali (condizionate dai poteri di fatto), tendono ad essere utilizzati dai paesi egemonici.

Vista in questa prospettiva, la responsabilità è maggiore per i dirigenti e politici del Sud Globale i quali, di fronte alle pretese delle grandi potenze (USA e Unione Europea in testa) e delle imprese transnazionali (quali nuovi attori di rilevanza e impatto sul concerto internazionale) per terziarizzarli a favore dei loro interessi, finiscono per essere fiches superflue in uno scontro geopolitico maggiore.

Forse l’esempio più recente di questa affermazione è l’intero quadro politico-diplomatico che si è configurato attorno all’estinto Gruppo di Lima e alle pretese di “isolamento” del Venezuela, negli anni 2017-2020, orchestrate dal Dipartimento di Stato durante l’amministrazione di Donald Trump. Dopo questo fallimento e il riposizionamento della Repubblica Bolivariana come attore regionale e globale, a partire dal 2020, tutto sembra indicare che la Guyana, seguendo il copione assegnatole sia dagli USA che da ExxonMobil, avrà un ruolo da protagonista in una nuova fase di destabilizzazione contro il Venezuela.

GLI INTERESSI DIETRO IL RIFIUTO AL DIALOGO

Il nuovo capitolo per destabilizzare il Venezuela cercherebbe di presentarlo come uno Stato che trasgredisce le norme internazionali e rifiuta di rispettare la giurisdizione e, quindi, le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) sulla disputa territoriale che ha con la Guyana; da qui la pressione internazionale che viene esercitata su Caracas da diversi ambiti.

GLI UNICI BENEFICIARI DELLO SONTRO SONO LE TRANSNAZIONALI DELL”ENERGIA ED IL COMPLESSO INDUSTRIALE-MILITARE USA

 

Lo lasciano intendere le recenti dichiarazioni di Luis Almagro dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) e del Sottosegretario per gli Affari dell’Emisfero Occidentale USA, Brian Nichols e altri funzionari del governo USA, in cui ordinano allo Stato venezuelano di accettare le disposizioni della Corte nella controversia, ignorando che il Venezuela:

  • non ha accettato la giurisdizione volontaria della stessa;
  • che l’Accordo di Ginevra prevede che le istanze assunte debbano essere accettate da entrambi i paesi e non unilaterale come ha fatto la Guyana;
  • e che la soluzione deve essere pratica e reciprocamente soddisfacente per le parti.

La spavalderia della Guyana solo potrebbe essere spiegata sotto la tutela che le darebbe, come stato vassallo della ExxonMobil e degli interessi USA, la protezione giuridica nella CIG dove la società petrolifera starebbe assumendo le spese di rappresentanza e difesa della Repubblica Cooperativa della Guyana. e della sponsorizzazione militare mostrata negli ultimi anni con l’approfondimento della cooperazione militare con il Comando Sud USA.

La malizia e l’insolenza dimostrate dalla Guyana rifiutando un dialogo franco e sincero con il Venezuela al fine di risolvere la disputa territoriale nel quadro dell’unico strumento vincolante e approvato dalle parti coinvolte per risolvere la controversia, è fonte di instabilità regionale e cospirano contro la pace nei Caraibi. Rifiutare il dialogo e la negoziazione significa promuovere il conflitto e la violenza; questa è sempre stata la strada dei nemici del Venezuela, di coloro che ieri ignoravano lo Stato e puntavano su scorciatoie che negavano le istituzioni del Paese e di coloro che oggi disconoscono la controversia su un vasto territorio che era venezuelano fin dalle sue origini.

LA NEGOZIAZIONE SARÀ SEMPRE L’OPZIONE

La sottigliezza con cui il presidente Nicolás Maduro ha gestito gli affari internazionali del Venezuela nel contesto di persecuzione e assedio che il paese ha vissuto negli ultimi otto anni dimostra l’apprendimento che gli hanno lasciato la sua vasta esperienza sindacale ed i sei anni alla guida del Ministero degli Esteri durante il governo del presidente Hugo Chávez.

I negoziati che ha dovuto condurre per l’ingresso del Venezuela nel Mercosur, le innumerevoli consultazioni per la creazione d’Unasur e della CELAC, la costituzione di Petrocaribe e il consolidamento dell’ALBA-TCP, il suo ruolo di mediatore nel colpo di stato in Honduras e Paraguay, e in termini generali la sua partecipazione alla guida della diplomazia bolivariana nel più grande processo di integrazione regionale degli ultimi 50 anni, gli permettono di essere classificato come un uomo di dialogo che crede nella negoziazione.

Dal 2015, quando la Guyana, in palese violazione dell’Accordo di Ginevra, inizia la consegna delle concessioni petrolifere in acque ancora da delimitare con il Venezuela, le relazioni bilaterali soffrono un accelerato processo di deterioramento che sarà rafforzato dalla richiesta unilaterale, presentata alla CIG nel 2018, chiedendo la validità del Lodo Arbitrale di Parigi del 1899. In questo contesto, l’atteggiamento del presidente Maduro e del suo governo è stato, ancora una volta, quello di dare priorità al dialogo e al negoziato politico con la Repubblica Cooperativa.

Tale atteggiamento non deve essere confuso con candore o credulità. Al contrario, mostra una visione strategica che permette di distinguere tra il rumore prodotto dalle dichiarazioni altisonanti della Guyana e le implicazioni geopolitiche che lo scoppio di un conflitto genererebbe non solo per il Venezuela o la Guyana come principali parti coinvolte, bensì per l’intera regione latino caraibica, dove gli unici beneficiari dello scontro sarebbero le multinazionali dell’energia e il complesso militare-industriale USA.

In questo senso, le dichiarazioni del premier della Guyana Mark Phillips, che cospirava contro un negoziato con il Venezuela e invitava il presidente Irfaan Ali a evitare il dialogo con il presidente Nicolás Maduro, non sono solo un esempio del nanismo politico della classe dirigente della Guyana, bensì della sua  mancanza di comprensione del contesto geopolitico globale e regionale in cui entrambi i paesi si trovano inseriti.

Ma tale grande ignoranza non deve trascinare la Repubblica Bolivariana nel conflitto e nello scontro. Al contrario, deve continuare, fedele alla sua tradizione diplomatica, a puntare su un dialogo inquadrato nell’Accordo di Ginevra del 1966, che ci consenta di raggiungere, amichevolmente, una soluzione pratica, soddisfacente e accettabile per entrambe le parti.

Il compito non sarà facile, il Governo bolivariano insieme alla stragrande maggioranza dei venezuelani dovranno difendere gli interessi della Repubblica sull’Essequibo senza cadere nella scommessa di coloro che, dentro e fuori il Venezuela, rifiutano e condannano qualsiasi processo di dialogo e negoziazione che conducano ad una soluzione.

La prima azione in difesa del nostro territorio avverrà il prossimo 3 dicembre quando, in quel grande spazio di dialogo nazionale che costituisce il referendum consultivo, il Paese verrà consultato su questo tema di rilevanza nazionale e lì, come nazione, stabiliremo la nostra posizione in difesa della Guyana Essequiba.


GUYANA, MÁS ALLÁ DE LA CORTE INTERNACIONAL DE JUSTICIA

Sair Sira

El martes 7 de noviembre de 2023, mientras se realizaba en Caracas el Acto de Unión Nacional en Defensa de la Guayana Esequiba, que congregó una pluralidad de actores políticos, económicos, sociales, culturales e intelectuales que hacen vida en Venezuela, se conoció por intermedio del presidente Nicolás Maduro una declaración del primer ministro de Guyana, brigadier Mark Phillips, en la que, entre otras cosas, aseguraba que “el tiempo de la negociación se acabó” (“time for negotiation is over”).

En un contexto caracterizado por el aumento de la presencia del Comando Sur (SouthCom) en la región a través de la profundización de la “cooperación militar” con Guyana y que oportunamente está siendo denunciada por la Cancillería venezolana, así como por la inobservancia de las transnacionales energéticas como ExxonMobil del diferendo que se mantiene por el territorio del Esequibo, las declaraciones de la segunda autoridad en importancia dentro del ejecutivo guyanés no pueden ser infravaloradas y exigen un análisis profundo.

Toda vez que, si algo ha caracterizado a las altas autoridades políticas guyanesas (presidentes, cancilleres y primeros ministros) desde 2015, es su continua negativa y rechazo a toda forma de diálogo que pudiera desencadenar un proceso de negociación con la República Bolivariana de Venezuela conducente a solucionar de forma pacífica y mutuamente satisfactoria la controversia territorial sobre el Esequibo.

EL DIÁLOGO Y LA NEGOCIACIÓN COMO POLÍTICA DE ESTADO

Revisando la memoria histórica de la controversia que Venezuela mantiene sobre el Esequibo y analizando de forma minuciosa el proceso que siguió a la firma del Acuerdo de Ginebra de 1966 ya con Guyana independiente y republicana, es innegable la voluntad de diálogo que el Estado venezolano ha mantenido como eje vertebral de su política en el diferendo territorial.

Más allá de la crítica que tal postura podría generar, sobre todo mirándola con los ojos puestos en el presente e irremediablemente condicionados por la insensata postura guyanesa, la historia demuestra que cuando no hay diálogo ni negociación, el camino que queda es la confrontación y el conflicto violento, que casi siempre, tras una incipiente escalada, termina en la guerra, y con ella nadie gana, todos pierden.

Si bien el consenso y el conflicto son parte consustancial de la política, en materia de Estados soberanos siempre es preferible la manifestación y el apoyo de las iniciativas que conduzcan al consenso, al diálogo y al acuerdo; los grandes conflictos por los que ha atravesado la humanidad han sido consecuencia de su inobservancia y la apuesta por la escalada de las diferencias.

Esta debería ser una de las características más relevantes de los estadistas y líderes políticos, sobre todo en un contexto mundial como el actual, caracterizado por una infinidad de componentes geopolíticos que indican un cambio inminente en el orden internacional, que condicionan, y a veces hasta determinan, el comportamiento de los países, sobre todo de esa gran franja llamada Sur Global, que con soberanías parciales (condicionadas por los poderes fácticos), tienden a ser usados por los países hegemónicos.

Vista desde esta perspectiva, la responsabilidad es mayor para los líderes y políticos del Sur Global, quienes ante las pretensiones de las grandes potencias (Estados Unidos y la Unión Europea a la cabeza) y empresas transnacionales (como nuevos actores de relevancia e incidencia en el concierto internacional) por tercerizarlos en favor de sus intereses, terminan siendo fichas prescindibles en una confrontación geopolítica mayor.

Quizá el ejemplo más reciente de esta afirmación lo constituya todo el entramado político-diplomático que se configuró en torno al extinto Grupo de Lima y a las pretensiones de “aislamiento” de Venezuela durante los años 2017-2020 orquestado por el Departamento de Estado durante la administración de Donald Trump. Tras ese fracaso y el reposicionamiento de la República Bolivariana como actor regional y global desde 2020, todo parece indicar que Guyana, siguiendo el guión que tanto Estados Unidos como ExxonMobil le han asignado, tendrá un papel estelar en una nueva etapa de desestabilización contra Venezuela.

LOS INTERESES DETRÁS DE LA NEGATIVA AL DIÁLOGO

El nuevo capítulo para desestabilizar a Venezuela trataría de presentarla como un Estado trasgresor de la normativa internacional que se niega a acatar la jurisdicción y, por ende, las decisiones de la Corte Internacional de Justicia (CIJ) sobre la controversia territorial que se mantiene con Guyana, de allí la presión internacional que desde diversos espacios se realiza sobre Caracas.

LOS ÚNICOS BENEFICIARIOS DE LA CONFRONTACIÓN SON LAS TRANSNACIONALES ENERGÉTICAS Y EL COMPLEJO INDUSTRIAL-MILITAR ESTADOUNIDENSE

Así lo han dejado entrever las declaraciones recientes de Luis Almagro desde la Organización de Estados Americanos (OEA) y del Subsecretario para Asuntos del Hemisferio Occidental de Estados Unidos, Brian Nichols y de otros funcionarios del gobierno estadounidense, en las que conminan al Estado venezolano a aceptar las disposiciones de la Corte en la controversia, desconociendo que Venezuela:

no ha aceptado la jurisdicción voluntaria de la misma;

que el Acuerdo de Ginebra contempla que las instancias que se asuman deben ser aceptadas por ambos países y no de forma unilateral como lo hizo Guyana;

y que la solución debe ser práctica y mutuamente satisfactoria para las partes.

La bravuconada guyanesa solo podría ser explicada bajo el amparo que les daría, como Estado vasallo de la ExxonMobil y de los intereses estadounidenses, la protección jurídica en la CIJ donde la empresa petrolera estaría asumiendo los gastos de representación y defensa de la República Cooperativa de Guyana y del padrinazgo militar mostrado en los últimos años con la profundización de la cooperación militar con el Comando Sur de Estados Unidos.

La malcriadez e insolencia mostrada por Guyana al negarse a un diálogo franco y sincero con Venezuela afín de resolver la disputa territorial en el marco del único instrumento vinculante y aprobado por los involucrados para resolver la disputa, es fuente de inestabilidad regional y conspiran contra la paz en El Caribe. Negarse al diálogo y a la negociación es promover el conflicto y la violencia; ese siempre ha sido el camino de los enemigos de Venezuela, de los que ayer desconocían al Estado y apostaron por atajos que negaban la institucionalidad del país y de los que hoy desconocen la controversia por un amplio territorio que desde sus inicios fue venezolano.

LA NEGOCIACIÓN SIEMPRE SERÁ LA OPCIÓN

La sutileza con que el presidente Nicolás Maduro ha manejado los asuntos internacionales de Venezuela en el contexto de acoso y asedio que vivió el país los últimos ocho años demuestra el aprendizaje que le dejaron su vasta experiencia sindical y los seis años a la cabeza de la Cancillería durante el gobierno del presidente Hugo Chávez.

Las negociaciones que tuvo que encabezar para el ingreso de Venezuela a Mercosur, las innumerables consultas para la creación de Unasur y CELAC, la constitución de Petrocaribe así como la consolidación del ALBA-TCP, su rol mediador en el golpe de Estado en Honduras y Paraguay, y en términos generales su participación liderando la diplomacia bolivariana en el mayor proceso de integración regional de los últimos 50 años, permite catalogarle de un hombre de diálogo que cree en la negociación.

A partir de 2015, cuando Guyana, en clara violación del Acuerdo de Ginebra, inicia la entrega de concesiones petroleras en aguas aún por delimitar con Venezuela, la relación bilateral sufre un proceso acelerado de deterioro que se potenciará con la demanda unilateral introducida ante la CIJ en el año 2018, pidiendo la validez del Laudo Arbitral de París de 1899. En dicho contexto, la actitud del presidente Maduro y de su gobierno ha sido, nuevamente, la priorización del diálogo y la negociación política con la República Cooperativa.

Tal actitud no debe ser confundida con candidez o credulidad. Por el contrario, muestra una visión estratégica que permite distinguir entre el ruido que produce las declaraciones altisonantes de Guyana y las implicaciones geopolíticas que el estallido de un conflicto generaría no solo a Venezuela o Guyana como principales implicados, sino para toda la región latinocaribeña, en donde los únicos beneficiarios de la confrontación serían las transnacionales energéticas y el complejo industrial-militar estadounidense.

En este sentido, las declaraciones del premier guyanés, Mark Phillips, conjurándose en contra de una negociación con Venezuela y exhortando al presidente Irfaan Ali a evitar el diálogo con el presidente Nicolás Maduro, no solo es muestra del enanismo político de la clase dirigente guyanesa, sino de su incomprensión del contexto geopolítico mundial y regional en el que se encuentran insertos ambos países.

Pero tamaña ignorancia no debe arrastrar a la República Bolivariana al conflicto y la confrontación. Por el contrario, debe continuar, fiel a su tradición diplomática, apostando por un diálogo enmarcado en el Acuerdo de Ginebra de 1966, que nos permita alcanzar amistosamente un arreglo práctico, satisfactorio y aceptable para ambas partes.

La tarea no será fácil, el Gobierno Bolivariano junto a la inmensa mayoría de las y los venezolanos tendrán que defender los intereses de la República sobre el Esequibo sin caer en la apuesta de aquellos que, dentro y fuera de Venezuela, se niegan y condenan cualquier proceso de diálogo y negociación que conduzcan a una solución.

La primera acción en defensa de nuestro territorio se dará el próximo 3 de diciembre cuando, en ese gran espacio de diálogo nacional que lo constituye el referéndum consultivo, se le consulte al país sobre este tema de transcendencia nacional y allí como nación fijaremos nuestra postura en defensa de la Guayan Esequiba.

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