È possibile l’emergere di un nuovo Gruppo di Lima? Sì, indubbiamente. La possibilità che alcuni paesi concordino di posizionarsi in modo specifico su determinati temi è alla base di ciò che conosciamo come multilateralismo, e l’aspirazione a costruire in modo dialogato e concordato posizioni regionali su questioni specifiche è reale e auspicabile, sia per affrontare il cambio climatico, difendere l’Amazzonia, negoziare commercialmente in blocco e, perché no, posizionarsi contro il Venezuela.
E, sebbene tale possibilità contravverrebbe i principi più elementari del diritto internazionale e dei rapporti politici tra Stati, è una realtà alla quale, dal Venezuela, dovremmo prepararci, non solo per gli appelli degli attori politici più estremisti dell’opposizione venezuelana di coinvolgere, testardamente, la comunità internazionale in temi che sono esclusivi dei/lle venezuelani/e, bensì anche perché ci sono attori a livello internazionale entusiasti di immischiarsi, per affinità ideologica, con questa opposizione estremista venezuelana e di fronte ad un eventuale cambio di amministrazione alla Casa Bianca e quindi una modifica, anche, nella politica verso il Venezuela.
Del primo ci ha abituati, tale opposizione, che storicamente chiede sanzioni, interventi militari e isolamento internazionale, in particolare María Corina Machado, che non nasconde il suo pressing internazionale contro il paese.
Del secondo si pensava che fosse superato il penoso episodio in cui un gruppo di paesi latinoamericani e caraibici, chiaramente allineati agli USA, ha cercato di isolare il Venezuela, tra il 2017 e il 2020, ma dopo le dichiarazioni del presidente argentino, Javier Milei, si evidenza che ci sono governi che desiderano che tale scenario si ripeta.
L’importanza della discussione non verte sulla correttezza o meno di tale misura, tale frontiera è stata cancellata quando assistiamo al genocidio israeliano del popolo palestinese senza che la comunità internazionale adotti misure efficaci per evitarlo, o quando abbiamo assistito al bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco, violando le norme più elementari di convivenza tra gli Stati.
Il problema con la riproposizione di un Gruppo di Lima 2.0 risiede nella sua fattibilità/efficacia, e ancora più nelle implicazioni che avrebbe per l’America Latina e i Caraibi tale agire.
RISUSCITARE IL FALLIMENTO
Nella sua versione originale, sorta con la Dichiarazione di Lima, dell’8 agosto 2017, gli obiettivi prospettati dei suoi membri erano chiari: creare le condizioni per una transizione pacifica e negoziata in Venezuela. Così, il disconoscimento delle istituzioni dello Stato venezuelano è stato trasversale durante il funzionamento del Gruppo di Lima e nonostante le misure bilaterali adottate dai suoi membri non sono state omogenee, Caracas ha risentito con maggior rigore quelle dei paesi che hanno bloccato, confiscato e si sono prestati al furto dei suoi beni (come Monómeros del Caribe, debito con il Paraguay, Bandes Uruguay, per citarne solo alcuni).
E sebbene questi obiettivi prospettati dal gruppo non siano stati raggiunti e la transizione per cui hanno lavorato non è mai giunta, il Gruppo di Lima si è convertito in un inno al fallimento del multilateralismo latinoamericano perché ha evidenziato il disorientamento geopolitico della regione e la sua introiettata dipendenza dagli USA, che lo ha sempre visto come una cinghia di trasmissione o cassa di risonanza delle sue politiche contro il Venezuela, gettando le basi della sfiducia tra i paesi dell’America Latina e dei Caraibi.
Pertanto, che un Gruppo di Lima 2.0, versione aggiornata e con obiettivi più ‘credibili o fattibili’, sia materialmente e politicamente possibile nell’attuale contesto in cui fattori estremisti presiedono governi in alcuni paesi della regione e che hanno annunciato, come recentemente fatto da Javier Milei, essere disposti ad applicare sanzioni e cercare di convincere altri paesi della regione a unirsi a tale iniziativa perché secondo lui in Venezuela c’è una dittatura dalla quale bisogna uscire.
Tuttavia, pensare che le politiche regionali di “massima pressione” sul governo venezuelano avranno, ora, effetto, non solo isolando politicamente e diplomaticamente il presidente Nicolás Maduro nella regione, bensì che inoltre contribuiranno alla “fine del regime”, è, quanto meno, illusorio. Ciò dimostra una profonda ignoranza sulla vera portata di tali misure, che continuano, quotidianamente, a dimostrare il loro fallimento.
Il Venezuela è riuscito a eludere, con sforzo proprio, l’effetto devastante delle misure coercitive unilaterali, non senza risentire le conseguenze imposte dal regime di sanzioni USA applicato sin dall’amministrazione di Barack Obama, approfondito durante la presidenza di Donald Trump e continuato dal presidente Joe Biden.
Non è che il Venezuela sia immune a questo tipo di misure (come quelle proposte dal presidente Milei e dal defunto Gruppo di Lima), al contrario: da un punto di vista diplomatico e di cooperazione, il principio di buon vicinato e le buone relazioni con i paesi vicini sono necessari per potenziare lo sviluppo nazionale e regionale di uno Stato, ma non indispensabili per il sostentamento di un paese, tanto meno di uno come il Venezuela che, negli ultimi 25 anni di esistenza repubblicana, ha investito nella costruzione di relazioni internazionali multipolari e pluricentriche.
Le bilance commerciali possono cambiare a velocità sorprendente così come i flussi di investimento; chi è oggi il nostro principale socio commerciale potrebbe non esserlo domani, come si è dimostrato negli ultimi anni. Oggi, vale più la stabilità politica come garanzia economica che le affinità ideologiche tra i paesi.
Perciò non bisognerebbe sopravvalutare una presunta riedizione della politica di “massima pressione” e isolamento sul Venezuela da parte di alcuni paesi dell’America Latina e dei Caraibi; in un contesto di transizione e cambio da un ordine internazionale all’altro, Caracas ha gli alleati necessari per far fronte, come lo va facendo da tempo, a tali tentativi di isolamento. Ma ciò non deve portarci a un esercizio di irriflessività che ci faccia perdere di vista gli obiettivi strategici a cui il Venezuela deve puntare come progetto di nazione.
DOVE STAREBBE IL DANNO
L’impatto primario di un processo di riedizione della politica di isolamento politico e diplomatico tramite un Gruppo di Lima 2.0 sarebbe, senza dubbio alcuno, sui migranti venezuelani che devono mantenere almeno un legame, minimo, tramite le sedi consolari con le istituzioni dello Stato venezuelano e che si vedrebbe colpita di fronte ad una rottura delle relazioni.
Tuttavia, è importante segnalare che nessun paese della regione, compresi gli USA, come si è potuto osservare dalla fine dello scorso anno, può affrontare il fenomeno migratorio in modo serio, ignorando il Venezuela e quindi il suo governo.
In questo modo, il deterioramento delle relazioni del paese con i suoi vicini latinoamericani e caraibici senza dubbio complicherebbe ulteriormente la già complicata situazione dei connazionali che si trovano all’estero che, mantenendo il loro status di migranti, non possono esercitare i loro diritti di cittadinanza che lo Stato venezuelano concede loro.
È probabile, inoltre, che le operazioni della compagnia aerea di stato venezuelana, Conviasa, così come quelle delle compagnie aeree private che mantengono operazioni internazionali, sarebbero danneggiate nei paesi che assumono tale posizione, colpendo, allo stesso modo, la comunità venezuelana che si trovano in quei paesi e che perderebbero la connettività diretta con Caracas.
Tuttavia, dove si vedrebbe un danno che rasenterebbe l’irreparabile, a partire dall’implementazione di un Gruppo di Lima 2.0, è nel progetto di integrazione che la regione ha continuato a rimandare e che vedrebbe in questo nuovo episodio una scusa in più per il suo procrastinamento. In primo luogo, per un motivo ovvio, la diffidenza che genererebbe prima in Venezuela, ma anche in altri Stati, la politicizzazione e l’ideologizzazione della politica estera dei paesi latinoamericani e caraibici, con i quali non potrebbe costruire relazioni durature poiché, con ogni cambio di governo, verrebbe l’istrumentalizzazione della sua politica estera.
In tale scenario sarebbe impossibile concretare qualsiasi progetto di integrazione, anche di tipo economico, dove secondo l’ortodossia neoliberale non dovrebbe essere coinvolta alcuna valutazione politica, tanto meno ideologica.
In questo scenario, la Comunità di Stati Latinoamericani e Caraibici (CELAC) correrebbe la stessa sorte dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), entrando in una sorta di paralisi e immobilità che ne comprometterebbe la sua vitalità, sia per lo stesso boicottaggio dei paesi che non vorrebbero partecipare a spazi politico-diplomatici in cui partecipi il Venezuela, sia per un interesse strategico nel porre definitivamente fine a quella possibilità di integrazione sovrana che si è consolidata intorno alla CELAC.
Le recenti dichiarazioni di Milei confermano che si sta convertendo nella cinghia di trasmissione degli USA nella regione, come lo è stato Macri in passato, allineandosi con la storica l’ingerenza USA in America Latina e nei Caraibi. Gli attacchi recenti al Venezuela e ad altri paesi, che agiscono autonomamente rispetto alle imposizioni di Washington, non sono casuali. Questa offensiva avviene in un contesto di arretramento del dollaro come valuta di riferimento nelle grandi transazioni internazionali.
In questo scenario ancora ipotetico, ma piuttosto probabile, il Venezuela deve iniziare a progettare la sua strategia per mitigare questi due effetti precedentemente menzionati. Il primo: progettare meccanismi che consentano di mantenere un legame diretto con i cittadini venezuelani residenti all’estero che potrebbero essere colpiti da questo tipo di politiche, facendo leva sui benefici del governo digitale.
In riferimento al progetto di integrazione regionale, previsto dalla Costituzione nazionale, il Venezuela deve rafforzare i meccanismi di integrazione come l’ALBA-TCP, rendendoli più efficaci e facendo leva sul suo impatto economico, superando il semplice forum di consultazione politica a cui è stato circoscritto in questo ultimo lustro.
Il Venezuela ha l’esperienza e la capacità di affrontare un nuovo scenario che emuli quanto accaduto con il Gruppo di Lima a partire dal 2017. Tuttavia, deve avviare una strategia coordinata e pianificata che permetta mitigare gli effetti che la nuova avventura interventista cerca di imporre, garantendo i diritti dei venezuelani all’estero e consolidando gli spazi in cui ha ancora presenza.
¿MILEI EN BUSCA DE UN GRUPO DE LIMA 2.0?
¿Es posible la irrupción de un nuevo Grupo de Lima? Sí, indiscutiblemente. La posibilidad de que algunos países acuerden posicionarse de una manera específica en ciertos temas puntuales es la base de lo que conocemos como multilateralismo y la aspiración de construir de forma dialogada y consensuada posturas regionales acerca de asuntos específicos es cierta y deseable, bien sea para el abordaje del cambio climático, la defensa de la Amazonía, las negociaciones comerciales en bloque y ¿por qué no?, como ya ocurrió, posicionarse contra Venezuela.
Y, aunque tal posibilidad contravendría los principios más elementales del derecho internacional y del relacionamiento político entre los Estados, es una realidad a la que desde Venezuela deberíamos estar preparándonos, no solo por los llamados de los actores políticos más extremistas de la oposición venezolana de involucrar, tozudamente, a la comunidad internacional en temas que son exclusivos de las y los venezolanos, sino también porque hay actores a nivel internacional entusiasmados en inmiscuirse por una afinidad ideológica con esa oposición extremista venezolana y ante un eventual cambio de administración en la Casa Blanca, y en consecuencia modificación también en la política hacia Venezuela.
De lo primero nos tiene acostumbrados esa oposición que históricamente pide sanciones, intervenciones militares y aislamiento internacional, en especial María Corina Machado quien no oculta su cabildeo internacional contra el país. De lo segundo, se pensó superado el penoso episodio en donde un grupo de países latinoamericanos y caribeños claramente alineados con Estados Unidos intentaron aislar a Venezuela entre los años 2017-2020, pero tras las declaraciones del presidente argentino Javier Milei, se evidencia que hay gobiernos añorando por que ese escenario se repita.
La importancia de la discusión no versa sobre lo correcto o incorrecto de tal medida, esa frontera ha quedado borrada cuando presenciamos el genocidio israelí del pueblo palestino sin que la comunidad internacional tome medidas efectivas para evitarlo, o cuando asistimos al bombardeo israelí del consulado iraní en Damasco, violando las normas más elementales de convivencia entre los Estados. El problema con la reedición de un Grupo de Lima 2.0 radica en su viabilidad/efectividad, y más aún en las implicaciones que para América Latina y El Caribe tendría tal accionar.
RESUCITAR EL FRACASO
En su versión original, surgida con la Declaración de Lima del 8 de agosto de 2017, los objetivos planteados por sus integrantes eran claros: generar las condiciones para una transición pacífica y negociada en Venezuela. Así, el desconocimiento de la institucionalidad del Estado venezolano fue transversal durante el funcionamiento del Grupo de Lima y a pesar de que las medidas bilaterales que tomaron sus miembros no fueron homogéneas, Caracas resintió con mayor rigor las de los países que bloquearon, confiscaron y se prestaron para el robo de sus activos (Monómeros del Caribe, deuda con Paraguay, Bandes Uruguay, por solo citar algunos).
Y, si bien los objetivos planteados por el grupo no fueron alcanzados y la transición por la que trabajaron nunca llegó, el Grupo de Lima se convirtió en una oda al fracaso del multilateralismo latinoamericano porque evidenció la desorientación geopolítica de la región y su introyectada dependencia a los Estados Unidos, que lo vio siempre como una correa de trasmisión o caja de resonancia de sus políticas contra Venezuela, sentando las bases de desconfianza entre los países de América Latina y El Caribe.
De allí que un Grupo de Lima 2.0, actualizado y quizá con objetivos más “creíbles o viables”, sea material y políticamente posible, en un contexto actual donde factores extremistas presiden gobiernos en algunos países de la región y que han anunciado, como recientemente lo hizo el presidente Javier Milei, estar dispuestos aplicar sanciones y tratar de convencer a otros países de la región a que se sumen a tal iniciativa, porque a su entender en Venezuela hay una dictadura de la que habría que salir.
Sin embargo, pensar que las políticas regionales de “máxima presión” sobre el gobierno venezolano ahora sí tendrán efecto, ya no solo de aislar política y diplomáticamente en la región al presidente Nicolás Maduro, sino que además contribuirán al “fin del régimen” es, cuando menos, iluso. Esto demuestra una profunda ignorancia sobre el verdadero alcance de esas medidas, que a diario siguen demostrando su fracaso.
Venezuela ha logrado sortear, con esfuerzo propio, el efecto devastador de las medidas coercitivas unilaterales, no sin resentir las consecuencias propias que le impone el régimen de sanciones de Estados Unidos aplicado desde la administración de Barack Obama, profundizado durante la presidencia de Donald Trump y que ha continuado el presidente Joe Biden.
No es que Venezuela sea inmune a este tipo de medidas (como las planteadas por el presidente Milei y el extinto Grupo de Lima), al contrario: desde un enfoque diplomático y de cooperación, el principio de buena vecindad y las buenas relaciones con los países cercanos son necesarias para potenciar el desarrollo nacional y regional de un Estado, pero no indispensables para el sostenimiento de un país, mucho menos de uno como Venezuela que ha invertido los últimos 25 años de existencia republicana en la construcción de unas relaciones internacionales multipolares y pluricéntricas.
Las balanzas comerciales pueden cambiar a velocidades sorprendentes al igual que los flujos de inversión; quien es hoy nuestro principal socio comercial puede no serlo mañana, como se ha demostrado en estos últimos años. Hoy en día vale más la estabilidad política como garantía económica, que las cercanías ideológicas entre los países.
Por eso no habría que sobredimensionar una supuesta reedición de la política de “máxima presión” y aislamiento sobre Venezuela por parte de algunos países de América Latina y El Caribe; en un contexto de transición y cambio de un orden internacional a otro, Caracas cuenta con los aliados necesarios para hacer frente, como lo viene haciendo desde hace tiempo, a esos intentos de cerco. Pero eso no debe llevarnos a un ejercicio de irreflexividad que nos obnubile de objetivos estratégicos a los cuales Venezuela debe apostar como proyecto de nación.
DÓNDE ESTARÍA LA AFECTACIÓN
El impacto primero de un proceso de reedición de la política de aislamiento político y diplomático a través de un Grupo de Lima 2.0 se ubicaría, sin duda alguna, en las y los migrantes venezolanos que necesitan mantener un vínculo, por lo menos mínimo, a través de las oficinas consulares, con las instituciones del Estado venezolano y que se vería afectada ante un rompimiento de relaciones.
Sin embargo, es importante señalar que ningún país de la región, incluyendo Estados Unidos, como se viene observando desde finales del año pasado, puede hacer frente al fenómeno migratorio, de forma seria, obviando a Venezuela, y por ende a su gobierno.
De esta manera, el enrarecimiento de las relaciones del país con sus vecinos latinoamericanos y caribeños sin duda alguna dificultaría la ya complicada situación de los connacionales que se encuentran fuera del país que manteniendo su condición de migrantes no puedan ejercer sus derechos de ciudadanía que les otorga el Estado venezolano.
Es probable, también, que las operaciones de la aerolínea estatal venezolana Conviasa, así como las privadas que mantienen operaciones internacionales, se vean afectadas en los países que asuman esa postura, impactando de igual manera en la comunidad de venezolanos y venezolanas que se encuentran en dichos países y que perderían conectividad directa con Caracas.
No obstante, donde se verá un daño que rozaría en lo irreparable, a partir de la implementación de un Grupo de Lima 2.0, es en el proyecto de integración que la región tiene tiempo posponiendo y que vería en este nuevo episodio una excusa más para su postergación. Primero, por una razón obvia, la desconfianza que generaría primero en Venezuela, pero también en otros Estados, la politización e ideologización de la política exterior de los países latinoamericanos y caribeños, con los que no se podría construir relaciones duraderas ya que, con cada cambio de gobierno, vendría la instrumentalización de su política exterior.
En ese escenario sería imposible concretar algún proyecto de integración, incluso del tipo económica, en donde según la ortodoxia neoliberal no debería verse involucrado ninguna valoración política, ni mucho menos ideológica.
En ese escenario, la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños (CELAC) correría el mismo destino de la Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR), entrando en una especie de parálisis e inmovilidad que sentenciaría su viabilidad, bien sea por el mismo boicot de países que no querrían comulgar en espacios político-diplomáticos donde participe Venezuela, bien por un interés estratégico de dar al traste de forma definitiva con esa posibilidad de integración soberana que se consolidó en torno a la CELAC.
Las recientes declaraciones de Milei confirman que se está convirtiendo en la correa de transmisión de Estados Unidos en la región, como en su momento lo fue Macri, alineándose con la histórica injerencia estadounidense en América Latina y El Caribe. No es casual los ataques recientes a Venezuela y otros países que, con sus particularidades, actúan con autonomía respecto de las imposiciones de Washington. Esta arremetida se produce en un contexto de retroceso del dólar como moneda de referencia en las grandes transacciones internacionales.
Venezuela en este escenario aún hipotético, pero bastante probable, debe comenzar a diseñar su apuesta de mitigación a estos dos efectos que mencionamos con anterioridad. El primero: diseñar mecanismos que permitan mantener un vínculo directo con los ciudadanos venezolanos que permanecen en el exterior y que podrían verse afectados por este tipo de políticas, apalancándose en los beneficios del gobierno digital.
En referencia al proyecto de integración regional, mandatado por la Constitución nacional, Venezuela debe potenciar mecanismos de integración como el ALBA-TCP volviéndolo más efectivo y apalancando su impacto económico, trascendiendo el simple foro de concertación política al que ha estado circunscrito en este último lustro.
Venezuela cuenta con la experiencia y la capacidad para sortear un nuevo escenario que emule el que ocurrió con el Grupo de Lima a partir de 2017. No obstante, debe iniciar una estrategia coordinada y planificada que permita mitigar los efectos que la nueva aventura injerencista pretende imponer, garantizando los derechos a las y los venezolanos en el extranjero y consolidando los espacios en los que aún tiene presencia.