di Geraldina Colotti
Freddy Fernández, ambasciatore venezuelano in Grecia, risponde con convinzione e competenza alle domande degli ospiti – giornalisti e attivisti – venuti ad ascoltare il dibattito sulle prossime elezioni presidenziali del 28 luglio, in cui il chavismo e tutti i partiti di sinistra alleati hanno eletto ancora una volta come loro candidato il presidente Nicolás Maduro. Siamo ad Atene, nella sede del Comitato greco di solidarietà con il Venezuela “Siamo tutti Venezuela”, coordinato da Vaguelis Gonatas.
Poeta, saggista, analista dei media, Fernández, sessantuno anni, è un marxista di lunga traiettoria, militante fin dall’adolescenza nella gioventù comunista. Ha ricoperto diversi incarichi durante la presidenza Chávez e poi con Maduro, soprattutto nel campo della comunicazione. Al termine del dibattito ci ha rilasciato questa intervista esclusiva.
Comunista e chavista. Come si sono unite le due esperienze?
Sono sempre stato un militante. All’età di 12 anni sono entrato nella gioventù comunista per una decisione autonoma, la mia famiglia non si interessava di politica. Ho sempre pensato che il marxismo offrisse gli strumenti migliori per cambiare il mondo, rendendolo migliore per tutti. Quando ebbe luogo la ribellione civile-militare di Hugo Chávez, il 4 febbraio 1992, ero un giornalista disoccupato che, insieme ad altri, cercava di diffondere contenuti alternativi a quelli imposti dalle grandi imprese della comunicazione. Dalla mia educazione marxista derivava una profonda sfiducia nel settore militare che, a quel tempo, da noi, era sotto la tutela degli Stati Uniti. Sapevo però che, fin dai tempi di Bolívar e dell’indipendenza (allora i capi militari rappresentavano diversi settori di classe, ma con una preponderanza della classe popolare), il nostro esercito aveva mantenuto una caratteristica speciale in America Latina: proviene dalle classi popolari, non dalla classe media e dall’oligarchia. Quindi ci è diventato presto chiaro che, quelli del 4 Febbraio, erano soldati di sinistra. Ci fu una prima confluenza con il Movimento Rivoluzionario Bolivariano 200. A quel tempo, noi giovani comunisti cercavamo di riscattare il pensiero di Bolívar, un pensiero profondamente antimperialista ma che, nelle mani della borghesia, sembrava lontano dalla realtà.
Marx, tuttavia, non aveva una buona opinione di Bolívar. Qual era il suo orientamento, allora?
La prima volta che mi sono incontrato con questo problema avevo 16 anni. Ero un leader studentesco e anche membro della Società Bolivariana del mio istituto. Ce n’era una in tutti i licei, ma, per un giovane, farne parte era la cosa peggiore che potesse fare per la sua immagine, tanto era asfittica quell’istituzione. In effetti, eravamo lì per dare impulso al pensiero di Bolívar. Per quanto riguarda il testo di Marx “Bolívar e Ponte”, dobbiamo innanzitutto chiederci se Marx fosse marxista quando lo scrisse. Non lo è, non valuta com’era la lotta di classe nel continente, com’era la struttura economica allora, cosa stava succedendo. Ovviamente, Marx aveva – e ci ha fornito – gli strumenti fondamentali per comprendere il capitalismo e le sue contraddizioni e la necessità di lottare contro il sistema, ma non bisogna dimenticare che era soprattutto uno studioso dell’Europa, più che un esperto delle realtà di Asia, Africa e America. Inoltre, scrisse quelle righe non a seguito di ricerche, ma per un lavoro di poco conto che svolgeva in cambio di un compenso, e basandosi su articoli di giornale dell’epoca che trovò in biblioteca, che non erano certo benevoli nei confronti del Libertador. È come se oggi in un Paese europeo si svolgesse un’inchiesta sul presidente Maduro, basata su articoli di stampa che non offrono certo un’immagine reale del nostro contesto e della sua figura.
E poi, com’è proseguito il suo impegno?
Quando, nel 1998, Chávez vinse le elezioni con il Movimento Quinta Repubblica, era già iniziato un percorso che ci aveva costretto tutti a scegliere da che parte stare. Quel processo elettorale dovrebbe essere indagato di più. Era la prima volta che la destra eliminava tutti i candidati e univa tutti i partiti del sistema attorno alla figura di Henrique Salas Römer, governatore dello stato di Carabobo. L’unica promessa elettorale di Chávez fu quella di convocare un’Assemblea Nazionale Costituente e rifondare la repubblica. Ricordo che la destra basò la sua campagna elettorale sulla denigrazione di questa idea di rinnovamento costituzionale, dicendo: con la costituzione non si mangia, con la costituzione non si trova lavoro. Chávez, tuttavia, ha insistito sulla necessità di rinnovare la repubblica per creare un sistema veramente democratico e ottenere una seconda indipendenza nazionale. E, in questo obiettivo, ha ottenuto la convergenza e il sostegno di uno spettro molto ampio di venezuelani e venezuelane che hanno appoggiato la sua candidatura, costruito la vittoria e messo in moto questa esperienza di democrazia popolare verso il socialismo che governa da allora il paese. Da parte mia, ho iniziato a collaborare con la struttura governativa nel 2000, presso l’ufficio di promozione dell’ente tributario fiscale, il Seniat, che aveva la necessità di sviluppare una nuova forma di comunicazione, diversa dai tempi in cui era al servizio del capitalismo. L’esperienza più importante, però, si è concretizzata dopo il golpe del 2002.
In che modo?
Ho diretto per due anni l’ufficio comunicazioni della Televisione Nazionale, Venezolana de Televisión, e poi ho trascorso molto tempo presso l’Agenzia di Stampa Venezuelana (Avn), e contemporaneamente sono stato viceministro della Comunicazione per tre anni. Per comprendere la comunicazione politica in Venezuela, bisogna ricordare che uno dei giornalisti più vicini a Chávez, Alfredo Peña, uomo di grande importanza nella stampa dell’epoca, aveva convinto il comandante che la migliore strategia di comunicazione fosse lasciarla nelle mani dei media, di non avere comunicazione politica. E per un po’ Chávez l’ha ascoltato, finché, con il colpo di stato del 2002, al quale hanno partecipato tutte le imprese dei media privati, ha deciso di prestare maggiore attenzione ai media statali e anche di promuovere e facilitare la formazione di media alternativi. Peña è stato uno dei primi a tradire Chávez. Quando era sindaco di Caracas mandò la polizia municipale a sparare sui manifestanti a Puente Llaguno.
Dal suo osservatorio di poeta, comunista, giornalista, diplomatico, che momento sta attraversando la rivoluzione bolivariana?
La nostra rivoluzione trae molta forza dall’organizzazione popolare, data la grande esperienza politica accumulata. Questo ci consente di avere il polso concreto della realtà. Ad esempio, proprio da questo periodo di guerra economica così dura, in cui le persone avrebbero potuto pensare solo a sopravvivere individualmente senza preoccuparsi dei loro vicini, dei loro compagni, sono emerse reti comunitarie per far fronte ai bisogni elementari. E questo non ha coinvolto solo i chavisti, ma anche l’opposizione che, nelle comunità, ha agito con noi per risolvere bisogni primari come individuare dove procurarsi le medicine o scambiare prodotti alimentari. Si è sviluppata una coscienza condivisa su chi siano stati e siano i responsabili di quella sofferenza. La solidarietà è emersa come misura per affrontare questa terribile guerra che ci è stata imposta e ci ha permesso di avanzare anche nelle peggiori condizioni.
Secondo i media europei, il chavismo è in minoranza e la destra ha la vittoria in tasca. Come orientarsi tra statistiche e video manipolati per riconoscere come stanno le cose?
Lauicom, l’Università Internazionale della Comunicazione, diretta dalla rettrice Tania Díaz, ha il compito di moltiplicare gli esercizi di valutazione di fotografie e video, smantellare le tecniche di manipolazione che riescono a far sembrare 50 persone come se fossero 50.000. Ricordo che a VTV, l’allora ministro della Comunicazione, Jesse Chacón, raccomandava di riprendere tutte le manifestazioni dall’alto, perché così era più facile mostrare la realtà, mentre inquadrandole frontalmente si poteva far credere che la partecipazione fosse maggiore. Quello che posso dirvi, è che la rivoluzione è presente in tutte le comunità del Paese, e ha un’organizzazione ampia attraverso molti mezzi: comunità, gioventù, organizzazioni di partito, milizie popolari, Comitati di rifornimento e autoproduzione (i Clap)… Una presenza reale e viva sul territorio che, attraverso il potere popolare, permette anche di determinare il comportamento degli elettori. E certamente sono piuttosto curiose le statistiche dell’opposizione, secondo la quale essa avrebbe l’80% delle intenzioni di voto, cosa che non è mai stata confermata nelle elezioni precedenti. Abbiamo anche, ovviamente, le nostre proiezioni che ci mostrano i dati con maggiore realismo e precisione e ci guidano nel lavoro da fare: con coscienza e convinzione, perché sappiamo qual è il nostro impegno verso il popolo, perché noi siamo del popolo. Come ha denunciato il nostro presidente, esiste una censura precisa da parte delle grandi imprese della comunicazione per oscurare le mobilitazioni chaviste, per far sembrare che non abbiamo sostegno, per screditare la vittoria di Nicolás Maduro. Per questo motivo, il comando di campagna del PSUV ha stabilito che tutta la militanza partecipi alla campagna sui social network e viralizzi tutte le immagini delle attività che facciamo e tutte le mobilitazioni che la destra vuole rendere invisibili.
I media e l’opposizione parlano già di una “transizione” dal chavismo verso un governo di destra. È un piano per disconoscere i risultati?
L’opposizione non ha mai riconosciuto una sola elezione dal 1998. L’unica volta in cui è rimasta in silenzio è stata nel 2015, quando ha ottenuto la maggioranza in parlamento. L’opposizione e le istituzioni internazionali, a partire dall’Unione Europea, che ha partecipato a diversi processi elettorali in Venezuela, sanno che il nostro è un sistema a prova di frode e che a volte abbiamo perso comuni per un voto, e lo abbiamo riconosciuto. Per questo, anche se vinciamo per un voto, difendiamo quel risultato.
Come spiegherebbe a un giovane europeo che il processo elettorale in Venezuela è a prova di frode?
I giovani, che hanno più familiarità con i sistemi automatizzati, hanno maggiori probabilità di capire perché abbiamo un sistema ultra-affidabile. Il primo elemento è che il sistema di voto è completamente automatizzato, elettronico. Un voto che ha tutti i livelli di sicurezza che oggi la tecnologia digitale garantisce. Inoltre, per votare è necessario attivare la macchina con la propria impronta digitale, se non corrisponde non sarà possibile votare. E poi, i voti raccolti in un dato seggio elettorale vengono contati dalla macchina, non da una persona. La trasmissione dei voti non è manuale, ma elettronica. Si tratta di un software che controlla quanti voti ci sono e per chi, e trasmette il conteggio in formato digitale. Il sistema viene controllato e verificato in tutti i suoi aspetti, prima, durante e dopo le elezioni. I partiti di opposizione partecipano a queste fasi con i loro tecnici professionisti. Non solo, da anni, chiunque può entrare nel sito del Cne e consultare i risultati anche di un piccolo comune, ma ogni richiesta di riconteggio manuale, avanzata negli anni dall’opposizione, ha sempre fornito una corrispondenza esatta con i risultati emessi.
Uno scoop dell’agenzia Venezuela News ha dimostrato, attraverso la voce di una giornalista brasiliana coinvolta nella vicenda, che Washington ha investito fiumi di denaro per sostenere la campagna elettorale dell’estrema destra venezuelana. Quali considerazioni ha suscitato in lei questa notizia?
L’opposizione ha sempre avuto molte risorse economiche, che le hanno aperto le porte delle imprese giornalistiche di tutto il mondo e le hanno permesso di comprare voti. Inoltre, si tratta di un’opposizione molto corrotta, che ha approfittato della militanza per accumulare fortune personali. Recentemente, è venuta alla luce una lista di giornalisti al soldo non solo degli Stati Uniti, ma anche di questi nuovi milionari prodotti dalla militanza dell’opposizione. Anche i politici di Miami, anticubani o antivenezuelani, si arricchiscono allo stesso modo. Una realtà che la sinistra di tutti i paesi deve conoscere. Per noi, per tutti noi, a cominciare dal presidente, vale quello che valeva per Chávez: l’orgoglio per la nostra origine popolare. Chávez era orgoglioso del villaggio in cui era nato, non voleva essere altrove, ad un altro livello. Proveniva da Sabaneta, un paesino sconosciuto che aveva fatto conoscere al mondo perché ne parlava sempre con orgoglio e amore. E questa è una risorsa potente per chi, come noi, vuole rendere il mondo un posto migliore. Nel film italiano “La grande bellezza”, un’anziana suora racconta a un giornalista che passa da una festa di lusso all’altra, che lei mangia solo radici, perché le radici sono importanti e non possiamo dimenticarle.
Il presidente Maduro ha respinto il ricatto dell’Unione Europea sulla questione della possibilità di allentare le “sanzioni” in cambio di un’apertura verso l’opposizione. Come ambasciatore in un Paese europeo, cosa ne pensa?
Come si è visto nel caso del conflitto in Ucraina e del genocidio in Palestina, l’Unione Europea non ha più una politica autonoma nei confronti degli Stati uniti, e ha perso credibilità a livello internazionale. Ciò vale anche per la politica anti-venezuelana che gli Stati uniti stanno imponendo.
Nel frattempo, assistiamo a un aumento delle violazioni del diritto internazionale. Come si contrasta questa situazione in Venezuela, un paese che subisce l’imposizione di misure coercitive unilaterali illegali e che ha subito il rapimento e la tortura di uno dei suoi diplomatici, Alex Saab?
Nel nostro Parlamento è stata approvata una legge contro il fascismo, più che necessaria e coraggiosa. Penso che l’Europa dovrebbe analizzare a fondo ciò che le sta accadendo, rivedere le sue politiche, perché è davvero triste che gli alleati del popolo ebraico, vittime di un genocidio del nazifascismo europeo, siano oggi i fascisti del mondo: quelli che coprono il genocidio contro un popolo semita da parte di un regime razzista, quello di Israele, che pratica l’apartheid contro il popolo palestinese. L’avanzata dell’estrema destra in Europa è molto preoccupante per il mondo intero. Sembra che le lezioni del XX secolo, della prima e della seconda guerra, conosciute come guerre mondiali, ma che in realtà furono conflitti prevalentemente europei, siano state dimenticate. E sembra essere stato dimenticato che, nel secondo conflitto, non ci fu solo una guerra tra Stati, ma anche un’importante guerra popolare, alla quale parteciparono diverse forze che, in Italia, Grecia, Jugoslavia, non solo lottavano per sconfiggere il fascismo, ma anche per condizioni di vita migliori, per un mondo migliore. Questa parte coraggiosa dell’identità europea è oggi nascosta da pretese egemoniche sul Sud e anche sui popoli d’Europa.
In alcune battaglie interne ad alcuni partiti venezuelani si ricorre ai tribunali. Cosa c’entrano i giudici con questi conflitti politici e cosa sta succedendo con il Partito Comunista del Venezuela?
C’è stata una dura battaglia interna al PCV, profonde divergenze che hanno portato alla divisione in due partiti. Personalmente penso che sarebbe utile ricostruire un luogo di incontro, anche perché la maggioranza dei comunisti non fa parte di nessuno dei due partiti. Per quanto riguarda l’intervento del tribunale, va detto che, con la rivoluzione, nel contesto della difesa globale dei diritti, vengono tutelati anche i diritti dei membri del partito, se credono di aver subito un torto e non sanno come farlo valere, non sanno a chi rivolgersi. Possono quindi ricorrere a un tribunale che può agire non solo secondo la legge, ma anche secondo lo statuto di quel determinato partito. Non è la prima volta che ciò accade. Partiti come Tupamaros, Patria Para Todos, Azione Democratica, Copei… e, recentemente, il PCV hanno fatto ricorso ai tribunali.
C’è un focolaio di tensione nel continente latinoamericano, causato dalla questione dell’Essequibo, il territorio conteso tra Guyana e Venezuela, nel quale trivellano le multinazionali nordamericane con il consenso del governo della Guyana. Cosa pensa dell’accusa mossa al suo Paese di avere un atteggiamento imperialista nei confronti della più piccola Guyana?
La nostra posizione è storicamente fondata. Denunciamo l’appropriazione indebita del nostro territorio da parte dell’Inghilterra da oltre 100 anni. Non esiste costituzione venezuelana che, dal 1910, non fissi i limiti territoriali nel fiume Essequibo. Al contrario, le pretese dell’Inghilterra si basano su una frode, un lodo arbitrale che abbiamo sempre denunciato come nullo, irrito e illegale. Per questo, Londra ha accettato l’Accordo di Ginevra che, nel 1966, ha stabilito l’esistenza di una disputa territoriale che deve essere risolta mediante un accordo che apporti un beneficio mutuo alle due parti, e che è stato riconosciuto anche dalla Guyana. E su questo noi ci basiamo e non avalleremo l’appropriazione indebita del nostro territorio da parte dell’Inghilterra, il cui colonialismo ha molto a che vedere con quel che accade in Palestina, con quel che è accaduto con le Malvinas, con il furto alla Grecia dei marmi del Partenone e anche con quello del nostro oro, tutt’ora sequestrato nelle banche inglesi.