La guerra che ci fanno dal mediatico

Granma – Órgano oficial del PCC

A partire dalla straordinaria espansione dell’universo digitale, propriamente detto, l’aggressione mediatica ha acquisito dimensioni inaspettate

Francisco Delgado Rodríguez

La storia della guerra mediatica contro il processo rivoluzionario cubano ha praticamente inizio con la nascita della guerriglia guidata dal Comandante in Capo Fidel Castro Ruz. La menzogna è, quindi, alla radice stessa dell’opposizione alla Rivoluzione e rimane, ad oggi, una pratica quotidiana.

Già nel 1957, il capo guerrigliero fu «annientato», secondo notizie della stampa del vicino del Nord. La evidente fake news sarebbe stata convenientemente smentita dal giornalista USA Herbert Matthews, del New York Times, che intervistò Fidel in piena Sierra Maestra.

Da queste prime esperienze sarebbe emersa, come necessità politica insostituibile, un mezzo di comunicazione proprio del Movimento 26-7: la ora iconica stazione Radio Rebelde, che acquisì una notevole audience quando la dittatura non era ancora caduta.

Da allora fino ad oggi gli obiettivi dell’aggressione mediatica contro la Rivoluzione sono rimasti gli stessi: screditare i suoi dirigenti, fomentare opinioni contrarie e creare le condizioni, sul terreno ideologico, per la sua distruzione nel seno del popolo cubano.

Un altro fine, ancora più globale, non sempre evidente, riguarda il riconosciuto intento del potere, negli USA, di affrontare, sul terreno delle idee e della cultura, un pensiero di sinistra che metta in discussione l’esistenza stessa del sistema capitalista.

È un errore strategico credere che la guerra mediatica contro Cuba sia una questione locale, limitata a seminare menzogne e mezze verità sulla quotidianità cubana. A partire dal simbolismo e dalle ripercussioni internazionali della Rivoluzione nell’Isola, snaturare, distorcere e distruggere questo lascito nell’ordine della soggettività politica costituisce forse il principale obiettivo dei nemici.

Nel contesto di una guerra economica che si dispiega in parallelo, mediante un blocco sostenuto e prolungato, le autorità USA hanno implementato una strategia comunicativa che conta su generose risorse sia di origine pubblica, attraverso numerose agenzie federali, sia più compartimentate, che si nascondono in ONG e altre istituzioni con apparenti scopi solidali per aiutare il popolo cubano.

A partire dalla straordinaria espansione delle reti sociali digitali e dell’universo digitale propriamente detto, l’aggressione mediatica ha acquisito dimensioni inaspettate 30 anni fa.

Gli attacchi dai media tradizionali come TV e radio, così come dalla stampa scritta, si sono riconvertiti al formato delle nuove piattaforme, e il messaggio permanente, 24 ore su 24, 7 giorni su 7; è stato lanciato, come un dardo avvelenato, a milioni di cubani, generando un nuovo quadro sfidante in materia politica e ideologica.

È rilevante insistere sull’integralità dell’aggressione. Si ricorre a una sorta di retro-alimentazione in quanto a maggiore blocco, maggiori sono le restrizioni e più ostacoli allo sviluppo sostenibile, cercando di fomentare il malcontento, l’incertezza e, se tutto va bene per il nemico, che si generali l’incertezza e la perdita di fiducia in un futuro migliore.

Per il 2024, secondo quanto dichiarato pubblicamente dall’amministrazione Biden, si dispone di circa 50 milioni di $ come contributo all’ostilità in ambito mediatico. Con tali risorse si prevede il supporto finanziario ad almeno 30 piattaforme che operano come media di stampa, così come a pagine, profili e un gruppo di cosiddetti influencer, tra altre forme di organizzazione per delinquere in ambito comunicativo.

I media della stampa digitale contano su intellettuali e, in alcuni casi, comunicatori ben preparati, tranne forse in una cosa: il senso di patria. Gli influencer, francamente, sono qualsiasi cosa, e predomina, tra loro, la volgarità, l’incultura e la mediocrità più assoluta, condividendo i disvalori propri del sistema che li mantiene, senza che debbano lavorare in qualcosa di utile.

Lottatori contro il comunismo, paladini della democrazia liberale borghese e altre sciocchezze predominano in questo mini-esercito, che si schiera in base al compenso ricevuto; cioè, mercenari 2.0 che hanno oltrepassato tutti i limiti quando, all’unisono, hanno chiesto un’invasione militare di Cuba in occasione dei fatti dell’11 luglio 2021. A quel punto, il tradimento ha acquisito una dimensione da cui non potranno tornare indietro.

La ricerca del lucro, tuttavia, è uno dei loro principali problemi. Visto che nelle reti sociali la concorrenza ha un volume quasi infinito come lo stesso internet, le piattaforme o gli influencer rivaleggiano tra loro perché è necessario monetizzare le pubblicazioni, al di là dell’indicazione dei capi nordamericani, di generare permanenti linee editoriali o campagne coordinate.

Vista da una prospettiva politica, il quadro diventa delirante. La guerra mediatica è, allora, un modus vivendi gestito da personaggi privi di un impegno patriottico e di limitate capacità, anche se, in rari casi, possiedono una cultura generale, in conflitto intimo con gli altri della banda e senza una proposta politica autentica, subordinati agli interessi di riconquista neocoloniale dei loro padroni.

Nonostante quanto sopra, è obbligatorio prestare misurata attenzione a questa attività. Non si devono mai sottovalutare le aggressioni, per quanto inefficaci possano sembrare. In ultima analisi, nessun processo di trasformazione profonda ha futuro se è incapace di difendersi, oltre ciò che è giusto e necessario.

La Rivoluzione, come sappiamo, è un’opera colossale che ha cambiato la vita di milioni di persone, generando un sentimento, valori condivisi che vanno oltre qualsiasi tipo di schema ideologico, trasformando il cubano di prima del ’59 in un altro tipo di cubano.

Certamente, le cose, dialetticamente, cambiano, a volte in modo brusco, quando l’aggressione e le vicissitudini economiche possono logorare la pazienza delle persone. È in quel momento che il nemico intensifica il suo attacco, quando crede che, finalmente, per magia, si siano create le condizioni per sconfiggere i rivoluzionari.

Questo tipo di battaglia delle idee che trascende quella dell’informazione, impone anche la tremenda sfida di saper destreggiarsi con le nostre differenze, con l’esercizio sano della critica e dell’autocritica, e con la saggezza di non confondere l’attacco sinistro della potenza ostile con l’opinione diversa tra i rivoluzionari. Se ci sbagliamo in questo, la guerra mediatica avrà ottenuto un regalo immeritato.

Di qui la necessità di persistere nelle forme e contenuti della democrazia di partito e popolare, che passa per qualcosa di tanto comprensivo quanto semplice: avere chiaro quali principi difendiamo, il dialogo permanente con la gente, la trasparenza nell’informazione, la creatività e l’onestà intellettuale.

Si può dire che la guerra mediatica è condannata al fallimento, non solo per l’incapacità politica dei nostri nemici. Sconfiggerla è imperativo per sostenere la sovranità nazionale, è giusto, è morale, è stare dalla parte giusta.

A favore della Rivoluzione c’è anche la cultura cubana, che non ha nulla da invidiare a nessuna altra, si ha il livello educativo raggiunto, che rende impossibile che la maggior parte delle persone si mangi la prima fandonia che viene loro detta, non importa i costosi formati impiegati per trasformarli in una realtà del metaverso manipolato da algoritmi, non la reale verità.

L’essenziale, in sintesi, è mantenere il potere politico. Con quella forza e con quella garanzia possiamo progettare i migliori dispositivi, i più competenti scudi ideologici; esperienza e volontà abbondano.

Abbiamo anche l’imperitura opera di José Martí e di Fidel, entrambi insieme a malapena potevano stare in un’Isola piccola come Cuba, e rappresentano una forza che pochi processi politici hanno a loro disposizione.

In comune, ci hanno lasciato la serrata difesa della verità, la stessa che la controrivoluzione non ha mai impiegato, come qui è stato detto, dimenticando che, come diceva José Martí, «non sono inutili la verità e la tenerezza». Insieme a lui, Fidel ci precisò, nel suo epico concetto, che «Rivoluzione è non mentire mai né violare principi etici».

Ai nemici, solo ricordare loro ciò che, a suo tempo, disse Raúl: «Cuba non teme la menzogna né si inginocchia davanti a pressioni, condizionamenti o imposizioni, vengano da dove vengano; si difende con la verità, che sempre, prima o poi, finisce per imporsi».


La guerra que se nos hace desde lo mediático

 A partir de la extraordinaria expansión del universo digital propiamente dicho, la agresión mediática adquirió dimensiones insospechadas

Francisco Delgado Rodríguez

La historia de la guerra mediática contra el proceso revolucionario cubano, prácticamente tiene sus inicios con el nacimiento de la guerrilla liderada por el Comandante en Jefe Fidel Castro Ruz. De tal modo, la mentira está en las raíces mismas de la oposición a la Revolución, y sigue siendo hasta hoy práctica cotidiana.

Tan temprano como en 1957, el jefe guerrillero fue «aniquilado», según trascendidos en la prensa del vecino del Norte. La evidente fake news sería convenientemente desmentida por el periodista estadounidense Herbert Matthews, de The New York Times, quien entrevistó a Fidel en plena Sierra Maestra.

De estas primeras experiencias surgiría, como necesidad política insoslayable, un medio de comunicación propio del Movimiento 26-7: la ahora icónica emisora Radio Rebelde, que adquirió notable audiencia cuando aún no había caído la dictadura.

Desde entonces hasta la actualidad los objetivos de la agresión mediática contra la Revolución son los mismos: desacreditar a sus líderes, fomentar estados de opinión contrarios a esta y crear las condiciones, en el terreno ideológico, para su destrucción en el seno del pueblo cubano.

Otro fin aún más global, no siempre evidente, tiene que ver con el admitido propósito del poder en ee. uu. de enfrentar, en el terreno de las ideas y de la cultura, un pensamiento de izquierda, que cuestione la existencia misma del sistema capitalista.

Resulta un error estratégico creer que la guerra mediática contra Cuba es un asunto local, y que se limita a sembrar mentiras y medias verdades sobre la cotidianidad cubana. A partir del simbolismo y los alcances internacionales de la Revolución en la Isla, desvirtuar, distorsionar y destruir ese legado en el orden de la subjetividad política constituye tal vez el principal propósito de los enemigos.

En el contexto de una guerra económica que se despliega en paralelo, mediante un bloqueo sostenido y prolongado, las autoridades estadounidenses han implementado una estrategia comunicacional que cuenta con generosos recursos tanto de origen público, a través de numerosas agencias federales, como más compartimentadas, que se solapan en ong y otras instituciones de aparentes propósitos solidarios y para ayudar al pueblo cubano.

A partir de la extraordinaria expansión de las redes sociales digitales y del universo digital propiamente dicho, la agresión mediática adquirió dimensiones insospechadas 30 años atrás.

Los ataques desde medios tradicionales como la tv y la radio, así como la prensa escrita, se reconvirtieron al formato de las nuevas plataformas, y el mensaje permanente, 24 horas por siete días a la semana, se lanzó como dardo envenenado a millones de cubanas y cubanos, generando un nuevo cuadro desafiante en materia política e ideológica.

Es relevante insistir en la integralidad de la agresión. Se recurre a una suerte de retroalimentación en tanto a mayor bloqueo, mayores restricciones y más obstáculos al desarrollo sostenible, con lo cual se busca fomentar la inconformidad, la incertidumbre y, si todo le va bien al enemigo, que se generalice la incertidumbre y la pérdida de confianza en un futuro mejor.

Para 2024, según lo expresado públicamente por la administración de Biden, disponen de unos 50 millones de dólares como aporte a la hostilidad en materia mediática. Con semejantes recursos se prevé el soporte financiero a no menos de 30 plataformas que operan como medios de prensa, así como a páginas y perfiles y un grupo de llamados influencers, entre otras formas de organización para delinquir en materia comunicacional.

Los medios de prensa digitales cuentan con intelectuales y, en algunos casos, comunicadores bien preparados, excepto tal vez en una cosa: el sentido de patria. Los influencers, bueno, los influencers francamente son cualquier cosa, y predomina en ellos la vulgaridad, la incultura y la mediocridad más absoluta, compartiendo los antivalores propios del sistema que los mantiene, sin que tengan que trabajar en algo útil.

Luchadores contra el comunismo, adalides de la democracia liberal burguesa y otras tonterías predominan en este miniejército, que se alista según el pago que recibe; es decir, mercenarios 2.0 que cruzaron todos los límites cuando, al unísono, pidieron una invasión militar a Cuba en ocasión de los sucesos del 11 de julio de 2021. Para entonces, la traición adquirió una dimensión de la que no podrán volver.

El afán de lucro, empero, es uno de sus principales problemas. Visto que en las redes sociales la competencia tiene un volumen casi tan infinito como el propio internet, las plataformas o influencers rivalizan entre sí porque es menester monetizar las publicaciones, más allá de la indicación de los jefes norteamericanos, de generar permanentes líneas editoriales o campañas coordinadas.

Visto desde una perspectiva política, el cuadro se torna delirante. La guerra mediática es entonces un modus vivendi gestionado por personajes desprovistos de un compromiso patriótico y de limitadas luces, aunque en contados casos derrochen cultura general, peleados íntimamente con los demás de la cuadrilla y sin una propuesta política auténtica, subordinados a los intereses de reconquista neocolonial de sus empleadores.

A pesar de lo anterior, es obligado prestar comedida atención a este quehacer. Nunca deben subestimarse las agresiones, por ineficaces que aparenten ser. En última instancia, ningún proceso de transformación profunda tiene futuro si es incapaz de defenderse, más allá de lo justo y necesario que sea.

La Revolución, ya sabemos, es una obra colosal que les cambió la vida a millones de seres, y con ello generó un sentimiento, valores compartidos que van más allá de cualquier tipo de esquema ideológico, convirtiendo al cubano de antes del 59 en otro tipo de cubano.

Desde luego que las cosas, dialéctica mediante, cambian a veces atropelladamente, cuando la agresión y las vicisitudes económicas pueden lacerar la paciencia de las personas. Es en ese momento cuando el enemigo intensifica su ataque, cuando cree que, por fin, y por arte de magia, se han creado las condiciones para derrotar a los revolucionarios.

Este tipo de batalla de las ideas que trasciende a la de la información, también impone el tremendo desafío de saber lidiar con nuestras propias diferencias, con el ejercicio saludable de la crítica y la autocrítica, y con la sabiduría de no confundir el ataque siniestro desde la potencia hostil, con la opinión diferente entre los revolucionarios. Si nos equivocamos en esto, la guerra mediática habrá obtenido un obsequio inmerecido.

De allí la necesidad de persistir en las formas y contenidos de la democracia partidaria y popular, que pasa por algo tan abarcador como simple: tener claro qué principios defendemos, el intercambio permanente con la gente, la transparencia en la información, la creatividad y la honradez intelectual.

Puede decirse que la guerra mediática está condenada al fracaso, y no solo por la incapacidad política de nuestros enemigos. Derrotarla es imperativo para sostener la soberanía nacional, es lo justo, es lo moral, es estar en el lado correcto.

A favor de la Revolución también está la cultura cubana, que no tiene nada que envidiarles a otras, se tiene el nivel educacional alcanzado, que vuelve imposible que la mayoría de la gente se coma el primer cuento que le hagan, no importa los costosos formatos que se empleen para convertirlos en una realidad del metaverso manipulado por algoritmos, no la real verdadera.

Lo esencial, en resumen, es sostener el poder político. Con esa fuerza y con esa garantía podemos diseñar los mejores dispositivos, los más competentes escudos ideológicos; experiencia y voluntad existen de sobra.

También tenemos la imperecedera obra de José Martí y de Fidel, ambos juntos apenas podían caber en una Isla pequeña como Cuba, y suponen una fortaleza que pocos procesos políticos tienen a su disposición.

En común, nos dejaron la cerrada defensa de la verdad, la misma que la contrarrevolución nunca ha empleado, como aquí se ha dicho, olvidando que, como expresará José Martí, «no son inútiles la verdad y la ternura». Junto a él, Fidel nos precisó, en su épico concepto, que «Revolución es no mentir jamás ni violar principios éticos».

A los enemigos, solo recordarles lo que en su momento expresó Raúl: «Cuba no teme a la mentira ni se arrodilla ante presiones, condicionamientos o imposiciones, vengan de donde vengan; se defiende con la verdad, que siempre, más temprano que tarde, termina por imponerse».

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