La battaglia decolonizzatrice del nostro tempo

Per rendere sostenibile la frode della storia bloccata, era necessario creare una cultura che la confermasse

Ernesto Estévez Rams

Il neoliberismo non è stato solo una teoria economica, ma un’ideologia assoluta del capitalismo. Alle idee prettamente economiche si è affiancato un dispiegamento culturale travolgente per cementare l’idea che la mancanza di un’alternativa ideologica segnasse la fine della storia.

Per chiudere il ciclo “virtuoso”, il mercato veniva elevato a unica categoria garante per tutti gli sforzi e tutta la realtà.

Il tempio erano le borse, e lì convivevano sia sacerdoti che broker, insieme a profeti la cui funzione era prevedere i comportamenti finanziari degli attivi da realizzare. All’economia di casinò si accompagnava la cultura di cui aveva bisogno.

Per rendere sostenibile la frode della storia bloccata, bisognava creare la cultura che la confermasse in tutti gli spazi di riproduzione simbolica della società. I conglomerati transnazionali, tramite i loro centri studi prima, le istituzioni politiche poi, e infine lo stato borghese, hanno cominciato a intervenire, contrariamente al mantra, come mai prima d’ora, in tutti gli aspetti della società.

Le università dovevano essere convertite in imprese, gli studi universitari dovevano essere strumentalizzati in funzione della loro capacità di formare “competenze” per il mercato, non individui universali per la civiltà. Ogni università che si rispettasse doveva avere un ufficio di trasferimento e brevetti, in cui la conoscenza generata con denaro pubblico potesse essere convertita in prodotto per la sua privatizzazione.

La cultura artistica si riduce alla manipolazione di un mercato fatto su misura. Alle arti plastiche è stata assegnata la funzione di tesoriere privilegiato del capitale. La musica è stata ridotta a un’attività redditizia e messa in funzione della sua redditività. Il cinema, allievo privilegiato in quest’arte di fare soldi, ha adottato formule fordiane. I sistemi di validazione simbolica, premi, borse di studio, inserimento sociale, sono diventati strumenti economici. Tutta la creazione culturale doveva essere “sostenibile”, un eufemismo per dire che doveva generare profitto.

Lo sport non riguarda più il corpo sano e la volontà umana di migliorarsi, bensì di come quella volontà, portata all’estremo dagli atleti di alto livello, diventa un’attività economica da vendere (e vendersi), o come veicolo per altre vendite.

L’universo è un mercato, ecco la grande colonizzazione culturale del nostro tempo.

La battaglia decolonizzatrice non può essere una battaglia superficiale contro i sintomi di un problema sistemico. In quella direzione, domani ci tropicalizzano, occasionalmente, i simboli del successo del capitalismo del primo mondo per farci passare una cosa per l’altra, ma ci mantengono lo stesso messaggio: il successo è anche una merce.

La battaglia contro la colonizzazione culturale deve essere una battaglia per il socialismo, e il socialismo si definisce, in ultima analisi, in termini di riproduzione economica. Ecco, come rivoluzionari, l’atto di decolonizzazione più audace che possiamo proporci.


La batalla descolonizadora de nuestro tiempo

Para hacer sustentable el fraude de la historia detenida, había que crear la cultura que la refrendara

Ernesto Estévez Rams

El neoliberalismo no fue solo una teoría económica, es una ideología absoluta del capitalismo. A las ideas netamente económicas las acompañó un despliegue cultural avasallador para cementar que la falta de alternativa ideológica marcaba el fin de la historia.

Para cerrar el ciclo «virtuoso», el mercado era elevado a la categoría única de valedor de todos los empeños y toda la realidad.

El templo eran las bolsas, y allí convivían tanto sacerdotes como corredores, junto a profetas cuya función era avizorar los comportamientos financieros de activos por realizarse. A la economía de casino la acompañaba la cultura que necesitaba.

Para hacer sustentable el fraude de la historia detenida, había que crear la cultura que la refrendara en todos los espacios de reproducción simbólica de la sociedad. Los conglomerados transnacionales, por medio de sus tanques pensantes primero, e instituciones políticas luego, para terminar en el estado burgués, comenzaron a intervenir, contrario al mantra, como nunca antes, en todos los aspectos de la sociedad.

Las universidades debían ser convertidas en empresas, los estudios universitarios debían instrumentalizarse en función de su habilidad de formar «capacidades» para el mercado, no individuos universales para la civilización. Toda universidad que se respetara debía tener oficina de transferencia y patentes, en la que el conocimiento generado con dinero público pudiera ser convertido en producto para su compra privatizadora.

La cultura artística se redujo al rejuego de un mercado hecho a la medida. A las artes plásticas se les dio funciones de tesorero privilegiado de capital. La música se redujo en un activo redituable y fue puesta en función de su rentabilidad. El cine, alumno privilegiado en esto de hacer dinero, adoptó fórmulas fordianas. Los sistemas de validación simbólica, premios, becas, inserción social, se volvieron instrumentos económicos. Toda la creación cultural debía ser «sostenible», un eufemismo para decir que debía generar ganancia.

El deporte ya no trata sobre cuerpo sano y la voluntad humana de superarse, sino de cómo esa voluntad, llevada al extremo por los deportistas de alto rendimiento, se vuelve un activo económico para vender (y venderse), o como vehículo de otras ventas.

El universo es un mercado, he aquí la gran colonización cultural de nuestro tiempo.

La batalla descolonizadora no puede ser una batalla superficial contra los síntomas de un problema sistémico. En esa dirección mañana nos tropicalizan, coyunturalmente, los símbolos del éxito del capitalismo primer mundista para pasar gato por liebre, pero nos mantienen el mismo mensaje: el éxito es también una mercancía.

La batalla contra la colonización cultural debe ser una batalla por el socialismo, y el socialismo se define, en última instancia, en términos de reproducción económica. He aquí, como revolucionarios, el acto de descolonización más audaz que nos podamos proponer.

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