di Geraldina Colotti
Autogolpe o tentativo di colpo di stato vero? In Bolivia il dibattito divampa, dopo l’irruzione di alcuni carri armati in piazza Murillo, nella capitale La Paz. Uno di questi ha sfondato il portone del Palazzo di governo, dov’era riunito il gabinetto politico, guidato dal presidente Luis Arce e dal suo vice David Choquehuanca. Poco prima, con un messaggio in rete, il governo aveva allertato circa movimenti di truppe irregolari e della possibilità di un colpo di stato contro la democrazia. A guidare l’assalto, il comandante dell’Esercito, Juan José Zúñiga, poc’anzi destituito a causa di dichiarazioni incendiarie, decisamente incongrue per la sua funzione.
Dopo aver espresso pesanti critiche verso il governo Arce, il generale si era auto-eletto giustiziere e “rappresentante del popolo”. Aveva preannunciato la liberazione dei “prigionieri politici” (sia quelli di destra, come la golpista Janine Añez, sia presunti dissidenti interni al sistema militare). Soprattutto, aveva minacciato l’ex presidente Evo Morales, diffidandolo dal presentare la propria candidatura alle prossime elezioni del 2025, pena l’arresto da parte dell’esercito.
Domenica scorsa, Morales aveva per parte sua accusato Zúñiga di essere a capo del gruppo militare Pachajcho, incaricato di “un piano oscuro” per eliminare sia lui che i suoi collaboratori, come dimostrerebbero alcuni video e audio in suo possesso. Pur avendo chiamato le organizzazioni progressiste alla mobilitazione, Evo e i suoi ritengono che il tentato golpe sia in realtà uno show organizzato da Arce per coprire la complessa situazione di crisi in cui versa il paese, da ultimo esplosa con la mancanza di carburante, e, soprattutto, per coprire la gigantesca corruzione che avrebbe trasformato l’amministrazione pubblica in un buco nero di nepotismo e prebende.
Una crisi che si accompagna alle profonde divisioni all’interno del partito di governo, il Movimento al Socialismo (Mas), e delle organizzazioni popolari che lo sostengono. Conflitti esplosi già durante le ultime elezioni generali del 2020, che hanno riportato la sinistra al governo, e che avrebbero dovuto chiudere la triste parentesi del “golpe istituzionale” compiuto da Janine Añez. Evo non poteva più ricandidarsi a un terzo mandato consecutivo: la costituzione lo vieta e al referendum costituzionale del 2016 che avrebbe potuto modificarla in questo senso, ha vinto il No, seppure per poco.
Il primo presidente indigeno, dirigente sindacale di lunga data, ha dunque dato il sostegno al duo Arce- Choquehuanca, provenienti dal suo stesso partito, fidando in una sorta di governo di transizione per continuare e poi riproporre la gestione di prima. Così, invece, non è andata, e la distanza fra i tre antichi compagni si è progressivamente e polemicamente allargata. Evo ha subito manifestato l’intenzione di candidarsi alle elezioni del 2025. L’anno scorso, la Corte Costituzionale lo ha inabilitato e, secondo la sua compagine, contro di lui sarebbe stato dispiegato un sistema di lawfare teso a farlo fuori dalla scena politica mediante l’uso dello strumento giudiziario.
L’irruzione dei carri armati costituirebbe un ulteriore capitolo di questa “persecuzione”, che mira a renderlo responsabile degli errori di Arce agli occhi delle organizzazioni popolari. Il cammino di Luis Arce – denunciano Evo e i suoi compagni – sarebbe analogo a quello intrapreso a suo tempo da Lenin Moreno, il delfino di Rafael Correa che ha voltato le spalle alla “revolución ciudadana”, consentendo il ritorno del neoliberismo sfrenato, del narcotraffico e delle basi statunitensi in Ecuador.
A supportare la tesi dell’auto-golpe, compiuto da un generale che aveva tutta la fiducia del presidente, ma che si sarebbe lasciato trasportare dalla foga, finendo per farsi silurare, vengono addotte proprio le dichiarazioni del golpista Zúñiga rilasciate ai giornalisti: “Il presidente mi disse che la situazione era molto critica e che occorreva far qualcosa per risollevare la sua popolarità. ‘Facciamo uscire i carri armati?’ Gli ho chiesto. ‘Falli uscire’, mi ha risposto. E così, nella notte di domenica, i carri armati hanno cominciato a uscire…” Il generale avrebbe voluto continuare, ma il viceministro degli Interni, Jhonny Aguilera, lo ha spinto in una macchina che lo avrebbe condotto agli arresti.
Intanto, c’è grande allerta nella sinistra latinoamericana e nel campo multicentrico e multipolare, guidato da Cina e Russia, in cui la Bolivia si situa finora. Tutti i presidenti progressisti dell’America latina hanno preso posizione al riguardo, denunciando le manovre della destra e dell’imperialismo in questo anno di elezioni, fondamentali per il continente.
Dice, al riguardo, un comunicato della Rete degli Intellettuali, Artisti e Movimenti sociali in Difesa dell’Umanità (Redh): “Le immagini dell’assedio militare al Palazzo Quemado, sede del governo nazionale, riportano alla memoria i tristi episodi di quell’11 settembre 1973 in Cile e di tanti altri colpi di stato compiuti nella Nuestra America”. E così prosegue: “Considerando il momento pericoloso che attraversa il Paese e le minacce rivolte non solo all’attuale presidente, ma anche ad altri leader come Evo Morales, e anche in considerazione del costo pagato in termine di vite per il precedente colpo di stato del 2019, la Redh chiede: il rispetto della democrazia boliviana e del suo governo legittimo; il rispetto della vita del presidente e degli altri leader politici di sinistra, e anche quella di Evo Morales”.
Il fallito colpo di stato – dice ancora la Redh – “è stato un chiaro complotto dell’estrema destra nazionale, articolato, come sempre, con le grandi potenze internazionali. Di fronte alla minaccia antidemocratica e reazionaria, diciamo insieme al governo legittimo della Bolivia: non passeranno!”
La Bolivia possiede le prime riserve al mondo di litio, che una destra feroce, potente, separatista e suprematista ha fame di riprendersi e di consegnare ai padroni nordamericani. A differenza di quanto è avvenuto in Venezuela, dove la Forza armata è davvero esercito del popolo con cui costruisce un progetto di cambiamento strutturale, in Bolivia la riforma del sistema militare è rimasta in sospeso. E così sono rimaste incompiute altre promesse avviate dalle straordinarie rivolte indigene degli anni Novanta che hanno portato al potere il sindacalista Evo, il primo presidente indigeno del paese. E, per questo, la disputa in corso nel Mas non è soltanto uno scontro per la leadership, ma una sorta di muta, dolorosa, che sta esprimendo la società boliviana: un conflitto di classe interno a questo progetto di trasformazione sociale.
A marzo scorso, il Gruppo de Puebla, un’alleanza progressista che comprende ex presidenti e rappresentanti politici dei governi amici a livello regionale, si è recata in Bolivia per compiere un tentativo di riappacificazione fra Arce e Morales, ma senza risultati. Evo, che dirige anche la Runasur, un blocco di organizzazioni sociali latinoamericane, in maggioranza indigene, è stato invitato di recente in Venezuela, al Vertice dell’Alba che si è svolto a Caracas: insieme a Luis Arce, ma molto distante da lui.