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Sono passati oltre sei mesi dalla storica dichiarazione congiunta di Barack Obama e Raúl Castro sulla normalizzazione delle relazioni tra USA e Cuba.
La riapertura delle relazioni diplomatiche segue l’incontro di Panama tra i due dirigenti, una lunga serie di reciproche aperture, la cancellazione di Cuba dalla lista di paesi terroristi, nella quale l’isola mai sarebbe dovuta stare.
Resta il punto più importante, l’embargo. La Casa Bianca lo condiziona a un difficile voto parlamentare, ma nulla ha fatto per attenuarlo, come pure avrebbe potuto. È il segno che gli Stati Uniti non hanno mai smesso di pensare a un “regime change” nell’isola. L’embargo è il vero processo di pace, quello che la Rivoluzione vuole (e deve) cogliere da sempre, pur sapendo che rappresenterebbe una sfida titanica, dovendo fare i conti con una repentina, forse incontrollabile, crescita delle disuguaglianze.
Sarà la rottura, a favore di una delle due parti, di quel pareggio tecnico che le rispettive propagande non ammettono, preferendo magnificare rispettivi trionfi, con il mainstream mediatico, che continua a eludere la domanda del perché Cuba, nonostante tutto, continui ad andare, tra l’impossibilità della superpotenza USA di sconfiggere con la brutalità le ragioni della Rivoluzione cubana, e le terribili difficoltà che i cubani hanno affrontato per difendersi. I dirigenti rivoluzionari si dicono pronti alla sfida, e molteplici volte nella storia hanno dimostrato di essere all’altezza. Ma è una partita da giocare, affatto scontata, iniziata con mesi di surplace.