Democrazy

Carola Chávez

“Ci stiamo giocando l’esistenza della Patria” – furono le parole di Jorge Rodríguez durante un dibattito all’Assemblea Nazionale sulle allora imminenti elezioni presidenziali del 2024. Le sue parole mi scossero, e nella mia testa riaffiorò tutto ciò che mi stavo chiedendo riguardo al sistema democratico a cui siamo legati. Che tipo di democrazia è quella che può mettere in gioco l’esistenza della Patria? A chi serve?

Ai popoli ci hanno imposto, in nome della civiltà, un sistema sacrosanto chiamato democrazia: una cosa che viene dalla Grecia, e si legge così: dēmokratía, dēmos “popolo” e kratos “potere”. Potere del popolo. Che bello! No?

No.

L’idea dei popoli al potere non è mai piaciuta alle élite, che sono padrone di tutto perché, precisamente, detengono il potere. Bisognava diluire quella folle idea del kratos nelle mani del dēmos, trasformando l’accesso del demos al kratos in una corsa ad ostacoli insormontabili, che finisse per ridurre la partecipazione dei popoli a un atto periodico in cui consegnano il loro potere, attraverso il voto, a qualcun altro che li rappresenti. La trappola è che non chiunque può “rappresentare il popolo”, non può essere, diciamo, un soldato mulatto o un autista di autobus. Il rappresentante del popolo deve essere un dottore, preferibilmente ricco, o in mancanza di ciò, appoggiato da chi ha molti soldi. Tutto il resto va contro la democrazia.

Qui, in Venezuela, un soldato mulatto che vinse la presidenza sconfiggendo i padroni del mondo nel loro stesso gioco, ebbe il coraggio, con il suo popolo, di promuovere l’esercizio della democrazia in un modo più diretto e autentico. Un esercizio che iniziava a restituire significato a quelle parole greche che insieme sono così potenti: popolo e potere. Potere per il popolo. “Pronto, mamma, questi negri stanno scoprendo la verità, non venire qua”. “Accusalo di essere un dittatore, Kiko!”

In tale processo abbiamo imparato che appena la democrazia comincia a esserlo davvero, si attivano i portavoce di un manipolo di Paesi che considerano il resto del mondo come il loro cortile di casa. Sentendosi minacciati nei loro privilegi, invocano qualcosa che chiamano “un mondo basato su regole” (inventate da loro stessi su loro misura) e gridano in coro, attraverso tutti i loro media e quelli dei loro lacchè: “Dittatura che viola i diritti umani bla, bla, bla…!”

Iniziano sempre gli USA, “profondamente preoccupati” per la libertà del Paese che sta inventando cose, per esempio il Venezuela. Avvertendolo che la sua libertà finisce, naturalmente, dove inizia quella degli USA, e che quest’ultima inizia laddove ci sia, per esempio, un enorme giacimento di petrolio. “Proprio così, casa vostra, selvaggi, è casa mia” – sostiene l’Inghilterra con affettato accento genocida. La Francia, che non è da meno rispetto a questi anglosassoni, dice: “Liberté, Égalité, Fraternité, ma solo se sei bianco e parli francese. Il Canada, afflitto dalla sua perenne crisi di identità, fingendo di avere una voce propria, ripete parola per parola ciò che dicono gli altri. La Spagna, fingendo un’amnesia storica, scuote una cappa polverosa di superbia strozzata e ragnatele di franchismo, e ci ordina, come se potesse, qualche ridicolo ordine che finisce sempre per farci ridere.

Il fatto è che, se vinciamo con le loro stesse regole, come abbiamo fatto, aggiungono nuove regole, sempre più deliranti. Già non basta che ci siano elezioni, bensì che queste debbano essere “credibili”, e quelli che hanno la conveniente facoltà soggettiva di credere o meno non sono i popoli che votano, ma i Paesi che desiderano le risorse naturali del popolo che ha votato. Così la “credibilità” sostituisce la sovranità popolare e il cosiddetto “sistema basato su regole” sostituisce la legalità. E chiamano tutto questo democrazia.

Una democrazia imposta torturando i popoli scomodi con blocchi, invasioni e, nel migliore dei casi, con qualche rivoluzione colorata che finisce sempre per essere cremisi, per non dire rosso sangue.

Qui hanno provato di tutto. Abbiamo visto rivoluzioni colorate che si stingono, e poiché stingono, siamo stati sottoposti a tutte le operazioni di guerra unite: blocco, guerra psicologica, guerra comunicazionale, guerra cognitiva, incursioni mercenarie, paramilitarismo… Tutto il potere dei potenti applicato con il sadismo più sadico, in nome della democrazia e della libertà.

Così, in mezzo a una guerra multiforme, siamo andati a elezioni, quest’anno, perché era giunto il momento. Elezioni “libere” ci chiedevano gli stessi che soffocano il popolo venezuelano con il ricatto codardo del blocco e delle sanzioni. Libere e inoltre “credibili”, e sappiate che non vi crederemo, dicevano in caratteri non troppo piccoli. E siamo andati a votare, con le mani legate, e nonostante ciò abbiamo vinto, perché, come ci disse Jorge quel pomeriggio, come lo ripeté Nicolás mille volte durante la campagna, non stavamo scegliendo tra un candidato e l’altro, stavamo votando per l’integrità nazionale, per la sovranità sulle nostre risorse, per la vita, per la pace, o per tutto il contrario. Certamente ci giocavamo il destino della Patria, e questa è una cosa che non si può perdere.

Per tutte queste ragioni, quel logoro raccontino della democrazia, così come ce la presentano, non funziona più. Se l’esistenza stessa di un Paese si mette in gioco in un’elezione presidenziale (una cosa che non dobbiamo più permettere), non stiamo parlando di democrazia, ma di demoCrazy, la follia travestita da civilizzazione, decenza e ordine, che vogliono imporci.

No, grazie.


Democrazy

Carola Chávez

“Nos estamos jugando la existencia de la Patria” –fueron las palabras de Jorge Rodriguez en un debate en la Asamblea Nacional sobre las entonces venideras elecciones presidenciales de 2024. Sus palabras me sacudieron y saltó en mi cabeza todo lo que venía cuestionándome sobre el sistema democrático al que estamos atados. ¿Qué clase de democracia es esa que puede poner la existencia de la Patria en juego? ¿A quién le sirve?

A los pueblos nos han impuesto, en nombre de la civilización, un sistema sacrosanto llamado democracia: una cosa que vino de Grecia se lee así: dēmokratía, dēmos “pueblo” y kratos “poder”. Poder del pueblo. ¡Qué bonito! ¿No?

No.

Eso de los pueblos empoderados nunca le gustó a las élites que son dueñas de todo porque, precisamente, son dueñas del poder. Había que diluir a esa idea loca del kratos en manos del dēmos, convertir el acceso del demos al kratos en una carrera de obstáculos insuperables que terminaran reduciendo la participación de los pueblos en un acto periódico que consiste entregar su poder, a través del voto, a otros que los representen. La trampa es que no cualquiera puede “representar al pueblo”, no puede ser, digamos, un soldado zambo o un autobusero. El representante del pueblo debe ser un doctor, preferiblemente adinerado, o en su defecto, apoyado por quienes tienen mucho dinero. Todo lo demás atenta contra la democracia.

Aquí, en Venezuela, un soldado zambo que ganó la presidencia venciendo a los dueños del mundo en su propio juego y se atrevió, con su pueblo, a impulsar el ejercicio de la democracia de un modo más directo y verdadero. Un ejercicio que empezaba a devolverle el significado a aquellas palabras griegas que juntas son tan poderosas: pueblo y poder. Poder para el pueblo. “Aló, mami, estos negros están descubriendo la verdad, no vengas para acá”. “Acúsalo de dictador, Kiko!”

En ese proceso aprendimos que apenas la democracia empieza a serlo, se activan los voceros de un puñado de países que consideran al resto del mundo como su patio trasero. Amenazados sus privilegios, invocan una cosa que ellos llaman “un mundo basado en reglas” (inventadas por ellos y a su medida) y gritan en coro, por todos sus medios y los de sus lacayos: “¡Dictadura violadora de derechos humanos bla, bla, bla…!”

Siempre empiezan los Estados Unidos “profundamente preocupados” por la libertad del país que esté inventando vainas, digamos, Venezuela. Advirtiéndole que su libertad se acaba, of course, donde empieza de los USA y que ésta empieza ahí donde haya, por ejemplo, un enorme yacimiento de petróleo. “Indeed, su casa, salvajes, es mi casa” –apoya Inglaterra con afectado acento genocida. Francia, que no es menos que esos anglos, dice: “Liberté, Égalité, Fraternité, pero solo si eres blanco y parlez vous francais. Canadá, sumida en su perenne crisis de identidad, fingiendo tener voz propia repite al pie de la letra lo que digan los demás. España fingiendo amnesia histórica, sacude una capa polvorienta de soberbia atragantada y telarañas de franquismo y nos ordena, como si pudiera, alguna ridiculez que termina dándonos mucha risa.

Y es que si ganamos con sus propias reglas, como hemos venido haciendo, agregan reglas nuevas cada vez más delirantes. Ya no basta que haya elecciones, sino que estas deben ser “creíbles” y quiénes tienen la atribución tan convenientemente subjetiva de creer o no creer no son los pueblos que votan, sino los países que codician los recursos naturales del pueblo que votó. Así la “credibilidad” suplanta a la soberania popular y el llamado “sistema basado en reglas” suplanta la legalidad. Y dicen que esto se llama democracia.

Una democracia que se impone torturando a los pueblos incómodos con bloqueos, invasiones y en el mejor de los casos, con alguna revolución de color que termina siendo siempre carmesí, para no decir que rojo sangre.

Aquí lo han intentado todo. Hemos visto cocinarse revoluciones de colores que se destiñen, y porque se destiñen, hemos sido sometidos a todas las operaciones de guerra juntas: bloqueo, guerra psicológica, guerra comunicacional, guerra cognitiva, incursiones mercenarias, paramilitarismo… Todo el poder de los poderosos aplicado con el sadismo más sádico en nombre de la democracia y la libertad.

Así, en medio de una guerra multiforme, nos fuimos a elecciones este año, porque tocaba. Elecciones “libres” nos exigían los mismos que asfixian al pueblo venezolano con la extorsión cobarde del bloqueo y las sanciones. Libres y además “creíbles” y sepan que no les vamos a creer, decían en letra no tan pequeña. Y nos fuimos a elecciones, fuimos con la manos atadas, y aún así ganamos porque, como nos dijo Jorge aquella tarde, como lo repitió Nicolás mil veces en la campaña, no estábamos eligiendo entre un candidato y otro, estábamos votando por la integridad nacional, por la soberanía sobre nuestros recursos, por la vida, por la paz, o por todo lo contrario. Ciertamente nos jugábamos el destino de la Patria y eso es algo que no se puede perder.

Por todas estas cosas, ese manoseado cuentico de la democracia, así como nos la pintan, ya no cuela más. Si la mera existencia de un país se pone en juego en una elección presidencial (algo que no debemos permitir que suceda nunca más), no estamos hablando de democracia, sino de demoCrazy, la locura disfrazada de civilización, decencia y orden, que nos quieren imponer.

No, gracias.

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