Il MIR cileno: un bilancio essenziale

Sergio Grez

Sebbene non militai del Movimiento de Izquierda Revolucionaria de Chile (MIR), ho sempre nutrito un grande rispetto e non poca ammirazione per i miristi, specialmente per figure come Miguel Enríquez, Bautista Von Schouwen, Luciano Cruz e Lumi Videla. Sebbene non fui mirista, in più di un’occasione ho condiviso con loro imprese comuni, vittorie, speranze, dolori, sconfitte e frustrazioni.

Appartengo alla generazione che fu testimone e protagonista dei processi incarnati da questi dirigenti e da migliaia di giovani rivoluzionari cileni degli anni ’60 e ’70 del XX secolo. Come militante della sinistra rivoluzionaria di quell’epoca, così come storico e cittadino dei tempi attuali, ho già espresso il mio giudizio sulla storia del MIR in varie occasioni, e lo condivido nuovamente in occasione di un nuovo anniversario della morte di Miguel Enríquez.

Poiché sappiamo che la visione e i sentimenti del cittadino tendono inevitabilmente a influenzare il giudizio dello storico e proprio perché mi considero tra coloro che credono che non esista una storia neutra, sono consapevole che il mio piccolo e marginale ruolo di osservatore e compagno di viaggio in alcuni passaggi della storia del MIR influenza le mie valutazioni e i miei giudizi storici. Tuttavia, il mio ruolo di storico e di cittadino mi obbliga a esercitare un giudizio critico sugli attori della Storia, anche su quelli che ci sono vicini o per cui sentiamo rispetto e ammirazione.

Riflettendo sul percorso storico di Miguel Enríquez e del MIR cileno (menziono entrambi perché non è possibile riferirsi all’uno senza parlare dell’altro), mi sorgono tre grandi interrogativi che vorrei condividere con voi. Tre domande in cui posso sintetizzare il bilancio storico essenziale su questi attori.

In primo luogo, cosa ha rappresentato storicamente Miguel Enríquez e la generazione ribelle degli anni ’60 e ’70 del XX secolo? Poi, sembra pertinente chiedersi quali siano stati i successi e gli errori di quei dirigenti e militanti. Infine, è necessario interrogarsi su quali siano gli elementi recuperabili di quella esperienza nella prospettiva delle lotte libertarie del presente e del futuro.

Sebbene ognuno di questi temi possa essere oggetto di lunghi dibattiti, in parte già affrontati e in parte ancora da fare, approfitto dell’opportunità che mi è stata offerta per fare alcune riflessioni a titolo esplorativo, per “galoppare su questi temi”, come era solito dire lo stesso Miguel.

Il primo interrogativo è forse il più facile da rispondere. Con la prospettiva offerta dal trascorrere del tempo, oltre alla conclusione di certi processi storici, non c’è dubbio che la generazione rivoluzionaria degli anni ’60 e ’70, quella raggruppata attorno al MIR e ad altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, rappresentò il tentativo più deciso nella storia del Cile di “prendere d’assalto il cielo”, cioè conquistare il potere per un progetto rivoluzionario socialista incentrato sull’ottenimento della giustizia e l’uguaglianza sociale. Quella generazione ebbe il privilegio di agire in un momento cruciale della Storia, quando una congiuntura poco comune di fattori, a lungo e breve termine, mise all’ordine del giorno nel seno del movimento popolare cileno la questione dell’accesso al potere. L’emergere di quella generazione rivoluzionaria fu possibile grazie a numerosi fattori derivanti dalla permanente crisi della società cilena, a partire dall’esaurimento del modello di sostituzione delle importazioni attraverso l’industrializzazione indotta dallo Stato e dal fallimento di varie esperienze politiche – dai governi radicali sino alla “Rivoluzione in Libertà”, passando per il populismo ibañista della “Rivoluzione della scopa” e la “Rivoluzione dei dirigenti” del conservatore Alessandri – che generarono un atteggiamento di apertura politica per realizzare cambi sociali più profondi in ampi settori del mondo popolare e delle classi medie, specialmente studenti e intellettuali. A ciò si aggiunse il profondo impatto della Rivoluzione cubana, la dissidenza cinese rispetto al Vaticano ideologico rappresentato da Mosca nel seno del movimento comunista internazionale e le rivoluzioni anticoloniali che si moltiplicarono dalla fine della II Guerra Mondiale e, in particolare, durante gli anni ’60. Tutti questi eventi misero la rivoluzione “all’ordine del giorno” sullo scenario internazionale. Tuttavia, si trattava di una rivoluzione che non sarebbe stata una semplice espansione geopolitica del cosiddetto “campo socialista” sotto la protezione della potenza militare sovietica, come era accaduto nella maggior parte dei paesi dell’Europa orientale durante la seconda metà degli anni ’40, bensì di una vera rivoluzione dalle basi popolari, una rivoluzione secondo i canoni classici del marxismo, che la generazione rivoluzionaria cilena e latinoamericana degli anni ’60 e ’70 cercò di riprendere. Questo significava una rottura di grandi proporzioni rispetto alle concezioni e alle pratiche parlamentari e legaliste della sinistra che, nel caso del nostro paese, si sviluppavano – non senza alti e bassi – da metà degli anni ’30 [1].

Sintetizzando, potremmo dire che l’impresa guidata da Miguel Enríquez consisteva nel tentativo, basato sull’audacia, il coraggio, l’impulso, la decisione, l’intelligenza e il sacrificio, di prendere il “Palazzo d’Inverno”, secondo i postulati del leninismo e con gli apporti teorici e pratici dell’esperienza cubana e del guevarismo.

La creazione di un partito di rivoluzionari professionisti di stampo leninista si intrecciava con la concezione dell’organizzazione politico-militare presa dall’esperienza guerrigliera cubana e latinoamericana.

Il principale successo del MIR fu quello di cogliere lo stato di “disponibilità rivoluzionaria” di un’ampia fascia di lavoratori, intellettuali e studenti, oltre a percepire che l’elezione di Salvador Allende come presidente della Repubblica apriva una situazione prerivoluzionaria. I maggiori successi politici del MIR si verificarono proprio in quegli anni, quando, con audacia e flessibilità tattica, cominciò a trasformarsi in un partito con influenza di massa, diventando un attore importante della vita politica nazionale. Forse una delle sue principali carenze fu la mancanza di tempo. Nella sua frenetica corsa, sia questa organizzazione che l’intera sinistra rivoluzionaria non riuscirono a raggiungere l’influenza e la maturità necessarie per invertire la situazione che si trasformava acceleratamente da crisi prerivoluzionaria in controrivoluzione sfrenata.

«L’eredità morale di Miguel Enríquez e della sua generazione rivoluzionaria continua ad avere un valore che, nella prospettiva delle lotte e delle utopie libertarie del futuro, non sarà puramente testimoniale.»

Il contesto politico e ideologico di quegli anni rendeva estremamente difficile il necessario rinnovamento ideologico della sinistra cilena. Nel mondo bipolare della Guerra Fredda, con le definizioni a favore di uno o dell’altro campo, in un contesto in cui la lotta politica si svolgeva secondo la logica della guerra, lo spazio per le revisioni critiche e introspettive era oggettivamente molto ridotto, in alcuni casi quasi francamente insignificante. Poi, sotto la dittatura, questo percorso era ancora più arduo. Alcune concezioni e tendenze, a volte criticate ma mai del tutto superate, come il fochismo e il militarismo in alcune organizzazioni rivoluzionarie, uniti a certi errori di valutazione – come la sottovalutazione del potere del nemico e la sopravvalutazione delle proprie forze – si conclusero con lo sterminio fisico e con la sconfitta politica e militare del progetto rivoluzionario incarnato da Miguel Enríquez e dai suoi compagni. Il progetto del MIR subì, in realtà, tre sconfitte: la prima tra il 1973 e il 1976, quando la feroce repressione della dittatura eliminò una parte significativa della sua direzione storica, incluso lo stesso Miguel, e disarticolò molte strutture dell’organizzazione. Una nuova ecatombe si consumò tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, culminando in gravi perdite umane, politiche e materiali in operazioni come la “operazione ritorno” e il tentativo di insediamento guerrigliero a Neltume. Una terza sconfitta, eminentemente politica, avvenne nella seconda metà degli anni ’80, quando si impose la “transizione concordata” che lasciò il MIR e altre forze rivoluzionarie senza un’alternativa praticabile cioè senza base sociale.

La sconfitta di un progetto implica l’invalidazione della sua causa? Non necessariamente. Penso che l’essenza degli ideali della generazione rivoluzionaria che crebbe e si sviluppò negli anni ’60 e ’70 rimanga valida, poiché i grandi obiettivi di giustizia e uguaglianza sociale non sono stati ancora raggiunti nel nostro paese. Ma questa è la nostra terza domanda: cosa si può salvare di questi progetti al di fuori della propria esperienza?

Senza dubbio viviamo in un’epoca diversa. Non viviamo più – come credevamo allora – nell’“epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria”. Certamente, siamo ancora nell’epoca dell’imperialismo (ora più globalizzato), tuttavia, solo una imperdonabile cecità politica potrebbe portarci a credere che la rivoluzione proletaria sia all’ordine del giorno in qualche parte del pianeta. Quando le grandi trasformazioni sociali, economiche, culturali e ideologiche delle ultime decadi del capitalismo globalizzato hanno diluito l’identità, persino una buona parte della base sociologica della classe operaia, e con l’emergere di nuovi attori sociali popolari che delineano un panorama più complesso e sfumato, solo un’ostinazione nostalgica e irriflessiva potrebbe condurci alla ripetizione degli schemi rivoluzionari classici. In realtà, pochi concetti e strumenti politici di quell’epoca sono sopravvissuti indenni ai forti cambiamenti storici avvenuti da allora[2].

I progetti marxisti di socialismo, basati su due presupposti: un sostegno materiale rappresentato dalla grande industria e un sostegno sociale incarnato dalla classe operaia, sono stati seriamente messi in discussione dall’esperienza storica e dall’evoluzione del capitalismo. Finora, le basi materiali della grande industria non hanno fatto altro che sostenere la riproduzione ampliata del capitalismo e, in alcuni paesi, hanno generato forme statali totalitarie. Una nuova utopia rivoluzionaria, per non ripetere esperienze dalle conseguenze disastrose, dovrebbe iniziare mettendo in discussione tale presupposto, proponendo poi una nuova forma di produzione, che ancora non è possibile prevedere.

Allo stesso modo, va riconosciuto che, nonostante le previsioni e i desideri, la classe operaia non è mai stata, in quanto tale, in nessun paese del mondo, la forza sociale decisiva per la liberazione dell’umanità. Sebbene il suo carattere di classe sfruttata sotto il capitalismo sia una verità storica incontestabile, la sua essenza rivoluzionaria universale non è mai stata realmente confermata dall’esperienza storica. Anche se molte rivoluzioni del XX secolo furono realizzate in suo nome e con il suo sostegno, in nessun caso questa classe ha esercitato il controllo reale di tali processi, che alla fine hanno costituito nuove forme di dominazione e sfruttamento. Questa constatazione non invalida il fatto che un progetto rivoluzionario anticapitalista solo possa avere come base sociale i lavoratori e altri settori sfruttati o oppressi dal capitalismo, ma ci costringe a ripensare il tema dei soggetti sociali portatori del cambiamento. Di certo il soggetto sociale rivoluzionario dei nuovi scontri per la liberazione è più vicino alla visione lungimirante del MIR riguardante “i poveri delle città e delle campagne”, un soggetto plurale, multiforme, dai contorni flessibili, che si costruisce attorno a determinati momenti e compiti storici. Non si tratta più di individuare “la” classe messianica portatrice della liberazione dell’umanità, bensì di articolare in un progetto rivoluzionario globale le aspirazioni dei lavoratori e degli altri settori sfruttati con quelle di altri segmenti etnici, sociali e culturali che mettono in discussione il capitalismo.

In questa prospettiva, il socialismo del futuro non può essere concepito semplicemente come un progetto che, presentandosi come “socialismo”, non sia più che una una forma specifica di capitalismo o socialismo di Stato. Per costruire una utopia di nuovo tipo, è necessaria una profonda riformulazione delle basi teoriche, ideologiche, politiche e culturali che ispirarono i programmi e pratiche dei movimenti politici e sociali di trasformazione sociale in Cile.

Cosa possiamo allora recuperare dall’esperienza della generazione rivoluzionaria degli anni ’60 e ’70? In un mondo in cui la teoria classica della rivoluzione è entrata in crisi e l’impulso vitale della Rivoluzione Russa si è estinto nel disastroso epilogo dei “socialismi reali” è, senza dubbio, poco ciò che possiamo recuperare in termini di riferimenti teorici, strumenti e strategie politiche di quel tempo. Tuttavia, molto può essere salvato in termini di decisione di cambiare il mondo, e va recuperato sul piano morale e della coerenza con i principi e le convinzioni. Quando le classi dirigenti, attraverso i loro politici e intellettuali, offrono all’umanità solo la prospettiva di una perpetua riproduzione del capitalismo, una sorta di congelamento o “fine della storia” senza progetti collettivi o utopie di cambio sociale; quando, in paesi come il nostro, la classe politica ci dimostra giorno dopo giorno che per loro pensare, dire e fare sono tre cose diverse, l’eredità morale di Miguel Enríquez e della sua generazione rivoluzionaria continua ad avere un valore che, nella prospettiva delle lotte e delle utopie libertarie future, non sarà puramente testimoniale. La sfida storica per le nuove generazioni consisterà nel raccogliere questa eredità morale ed elaborarla attraverso il prisma di nuovi strumenti teorici, che dovranno costruire da sole, recuperando ciò che è necessario dai contributi precedenti, senza riflessi nostalgici che portino alla ripetizione dei costosi errori del passato, ma senza cedere alle pressioni del sistema di dominazione.

Sono certo che, prima o poi, questi nuovi uomini e donne valuteranno l’esperienza e l’eredità di coloro che li hanno preceduti e costruiranno, con lo stesso entusiasmo e coerenza, benché con più chiaroveggenza e maggior efficacia, le “grandi vie” libertarie del futuro.

Sergio Grez – cileno, storico

*Articolo pubblicato originalmente il 5 ottobre 2022.


[1] Sobre la estrategia electoral de la izquierda en Chile, véase, Sergio Grez Toso, “La izquierda chilena y las elecciones: una perspectiva histórica (1882-2013)”, en Cuadernos de Historia, N°40, Santiago, junio de 2014, págs. 61-93. Versión electrónica: https://scielo.conicyt.cl/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0719-12432014000100003

[2] Varias de las ideas expresadas a continuación fueron desarrolladas junto a los integrantes del colectivo Centro de Estudios Políticos sobre Chile (CEP-Chile) en el documento Una corriente socialista libertaria como alternativa de izquierda revolucionaria (Reflexiones para un proyecto transformador), París, Centro de Estudios Políticos sobre Chile, abril de 1985.


El MIR chileno: balance esencial

Aunque no milité en el Movimiento de Izquierda Revolucionaria de Chile (MIR), siempre tuve un gran respeto y no poca admiración por los miristas, especialmente por figuras como Miguel Enríquez, Bautista Von Schouwen, Luciano Cruz y Lumi Videla. Si bien no fui mirista, en más de una ocasión compartí con ellos empresas comunes, triunfos, esperanzas, dolores, derrotas y frustraciones. Conformo la generación que fue testigo y protagonista de los procesos que encarnaron estos dirigentes y miles de jóvenes revolucionarios chilenos de los años 60 y 70 del siglo XX. Como militante de la izquierda revolucionaria de aquella época, también como historiador y ciudadano de los tiempos actuales, tengo un juicio sobre la historia del MIR ya expresado en varias ocasiones y que vuelvo a compartir con motivo de un nuevo aniversario de la muerte de Miguel Enríquez.

Porque sabemos que la visión y los sentimientos del ciudadano tienden a impregnar, inevitablemente, el juicio del historiador y, precisamente, porque me cuento entre aquellos que piensan que no hay historia neutra, estoy consciente de que mi pequeño y marginal rol de observador y compañero de ruta en algunos pasajes de la historia del MIR baña mis apreciaciones y juicios históricos. No obstante, mi calidad de historiador y de ciudadano me obliga a ejercer el juicio crítico sobre los actores de la Historia, aun de aquellos que nos son cercanos o por los que sentimos respeto y admiración.

Al reflexionar sobre la trayectoria histórica de Miguel Enríquez y del MIR chileno (menciono a ambos ya que no es posible referirse a uno sin hablar del otro), me surgen tres grandes interrogantes que quisiera compartir con ustedes. Tres preguntas en las que puede sintetizarse el balance histórico esencial respecto de estos actores.

En primer lugar, ¿qué representó históricamente Miguel Enríquez y la generación rebelde de los años 60 y 70 del siglo XX? Luego, parece pertinente interrogarse acerca de los aciertos y errores de esos dirigentes y militantes. Finalmente, es necesario plantearse cuáles son los elementos rescatables de esas experiencias en la perspectiva de las luchas libertarias del presente y del futuro.

Aunque cada uno de estos problemas puede ser materia de largos debates, en parte ya realizados, en parte pendientes, aprovecho la oportunidad que se me ha ofrecido para hacer algunos planteamientos a título exploratorio, para “galopar sobre estos temas”, como solía decir el propio Miguel.

La primera interrogante es, tal vez, la más fácil de responder. Con la perspectiva que permite el transcurso del tiempo, además de la culminación de ciertos procesos históricos, no cabe duda de que la generación revolucionaria de los 60 y los 70, aquella nucleada en torno al MIR y otras organizaciones de izquierda revolucionaria, representó la tentativa más decantada en la historia de Chile por “tomar el cielo por asalto”, esto es, conquistar el poder para un proyecto revolucionario socialista centrado en la obtención de la justicia y la igualdad social. Tuvo el privilegio de actuar en un momento clave de la Historia, cuando una poco común confluencia de factores de larga y de corta duración puso a la orden del día en el seno del ya secular movimiento popular chileno la cuestión del acceso al poder. La emergencia de esa generación revolucionaria fue posible gracias a numerosos factores derivados de la permanente crisis de la sociedad chilena a partir del agotamiento del modelo de sustitución de importaciones mediante industrialización inducida por el Estado y del fracaso de variadas experiencias políticas –desde los gobiernos radicales hasta la “Revolución en Libertad”, pasando por el populismo ibañista de la “Revolución de la escoba” y la “Revolución de los gerentes” del derechista Alessandri– que generaron una actitud de disponibilidad política para llevar a cabo cambios sociales más profundos en amplios sectores del mundo popular y de las capas medias, especialmente, estudiantiles e intelectuales. A ello se sumó el profundo impacto de la Revolución cubana, la disidencia china respecto del Vaticano ideológico representado por Moscú en el seno del movimiento comunista internacional y las revoluciones anticoloniales que se multiplicaron desde fines de la Segunda Guerra Mundial y, muy particularmente, durante los años 60. Todos estos hechos pusieron la revolución “a la orden del día” en el escenario internacional. Pero se trataba de una revolución que ya no sería la simple expansión geopolítica del llamado “campo socialista” al amparo de la potencia militar soviética como había ocurrido en la mayoría de los países de la Europa Oriental durante la segunda mitad de los años 40, sino de una auténtica revolución desde las bases populares, una revolución de acuerdo con los cánones clásicos del marxismo que la generación revolucionaria chilena y latinoamericana de los 60 y de los 70 intentó retomar. Esto significaba una ruptura de grandes proporciones respecto de las concepciones y las prácticas parlamentarias y legalistas de la izquierda que, en el caso de nuestro país, se venían desarrollando –no sin altibajos– desde mediados de los años 30[1].

Sintetizando, podríamos decir que la empresa liderada por Miguel Enríquez consistió en intentar, en base a la audacia, el coraje, el empuje, la decisión, la inteligencia y el sacrificio, la toma del “Palacio de Invierno”, de acuerdo con los postulados del leninismo y a los aportes teóricos y prácticos de la experiencia cubana y del guevarismo.

La creación de un partido de revolucionarios profesionales de sesgo leninista se entrelazó con la concepción de la organización político-militar tomada de la experiencia guerrillera cubana y latinoamericana.

El principal acierto del MIR fue captar el estado de “disponibilidad revolucionaria” de una vasta franja de trabajadores, intelectuales y estudiantes, además de percibir que la elección de Salvador Allende como presidente de la República abría una situación prerrevolucionaria. Los mayores éxitos políticos del MIR se dieron precisamente en aquellos años, cuando con audacia y flexibilidad táctica se empezó a convertir en un partido con influencia de masas, un actor importante de la vida política nacional. Tal vez una de sus principales carencias fue la falta de tiempo. En su frenética carrera, tanto esta organización como el conjunto de la izquierda revolucionaria no alcanzaron la influencia y la madurez requerida para revertir la situación que se transformaba aceleradamente de crisis prerrevolucionaria en contrarrevolución desembozada.

«El legado moral de Miguel Enríquez y de su generación revolucionaria sigue teniendo un valor que en la perspectiva de las luchas y utopías libertarias del futuro no será puramente testimonial»

El contexto político e ideológico de aquellos años hacía muy difícil la necesaria renovación ideológica de la izquierda chilena. En el mundo bipolar de la Guerra Fría, de las definiciones a favor de uno u otro campo, en un contexto en que la lucha política se planteaba en la lógica de la guerra, el espacio para las revisiones críticas e introspectivas era objetivamente muy pequeño, en algunos casos francamente insignificante. Luego, bajo la dictadura, ese camino era aún más difícil. Ciertas concepciones y tendencias, a veces criticadas, pero jamás superadas totalmente, como el foquismo y el militarismo en algunas organizaciones revolucionarias unidos a ciertos errores de apreciación –como la subvaloración del poderío del enemigo y la sobrevaloración de las fuerzas propias– se saldaron en el exterminio físico y en la derrota política y militar del proyecto revolucionario encarnado por Miguel Enríquez y sus compañeros. El proyecto mirista fue, en realidad, derrotado en tres oportunidades: la primera vez entre 1973 y 1976, cuando la feroz represión de la dictadura liquidó a una parte muy significativa de su dirección histórica, entre ellos al propio Miguel, y desarticuló muchas estructuras de la organización. Una nueva hecatombe se consumó entre fines de los 70 y comienzos de los años 80, terminando en cuantiosas pérdidas humanas, políticas y materiales acciones como la “operación retorno” y la tentativa de implantación guerrillera de Neltume. Y una nueva derrota, esta vez eminentemente política, tuvo lugar durante la segunda mitad de los años 80, cuando se impuso la “transición pactada” que dejó al MIR y a otras fuerzas revolucionarias sin alternativa viable, es decir, sin base social.

¿La derrota de un proyecto significa la invalidación de su causa? No necesariamente. Pienso que lo esencial de los ideales de la generación revolucionaria que creció y se desarrolló en los años 60 y 70 sigue estando vigente puesto que los grandes objetivos de justicia e igualdad social no han sido cumplidos en nuestro país. Pero, esta es nuestra tercera interrogante: ¿qué es lo rescatable de esos proyectos fuera de la propia experiencia?

Sin duda estamos en una época distinta. Ya no vivimos –como creíamos entonces– en “la época del imperialismo y de la revolución proletaria”. Ciertamente, estamos aún en la época del imperialismo (ahora más globalizado), sin embargo, solo una imperdonable ceguera política podría llevarnos a creer que la revolución proletaria está a la orden del día en algún punto del planeta. Cuando las grandes transformaciones sociales, económicas, culturales e ideológicas de las últimas décadas del capitalismo globalizado han diluido la identidad, incluso una buena parte de la base sociológica de la clase obrera, cuando la emergencia de nuevos actores sociales populares configura un panorama más complejo y matizado, solo una irreflexiva obstinación nostálgica podría llevarnos a la repetición de los moldes revolucionarios clásicos. Pocos son, en realidad, los conceptos e instrumentos políticos de aquella época que han salido indemnes de los vendavales históricos del tiempo transcurrido desde entonces[2].

Los proyectos marxistas de socialismo basados en dos supuestos: un soporte material representado por la gran industria, y un soporte social, la clase obrera, han sido seriamente cuestionados por la experiencia histórica y por la evolución del capitalismo. Hasta ahora, las bases materiales de la gran industria no han constituido más que los soportes de la reproducción ampliada del capitalismo y, en algunos países, produjeron formas estatales totalitarias. Una nueva utopía revolucionaria, so pena de repetir experiencias de nefastas consecuencias, debería comenzar por cuestionar este supuesto, proponiendo enseguida una nueva forma de producir que aún no es posible prever.

Del mismo modo, se debe constatar que, a pesar de las previsiones y deseos, la clase obrera no ha sido, en cuanto tal, en ningún país del mundo, la fuerza social decisiva para la liberación de la Humanidad. Si bien su carácter de clase explotada bajo el capitalismo es una evidencia histórica incuestionable, su esencia revolucionaria universal no fue, en realidad, jamás fundamentada ni confirmada por la experiencia histórica. Aunque buena parte de las revoluciones del siglo XX se hicieron en su nombre y con su apoyo, en ninguna parte esta clase, en tanto tal, ejerció la dirección real de esos procesos que terminaron por constituir nuevas formas de dominación y de explotación. Esta constatación no invalida el hecho de que un proyecto revolucionario anticapitalista solo puede tener como base social a los trabajadores y demás sectores explotados u oprimidos por el capitalismo, aunque nos obliga a replantearnos el tema de los sujetos sociales portadores del cambio. De seguro, el sujeto social revolucionario de los nuevos combates por la liberación es más cercano a aquella visionaria percepción mirista sobre “los pobres de la ciudad y del campo”, un sujeto plural, multiforme, de contornos flexibles, que se construye en torno a ciertos momentos y tareas históricas. No se trata ya de encontrar a “la” clase mesiánica portadora de la liberación de la Humanidad, sino de articular en un proyecto revolucionario global las aspiraciones de los trabajadores y demás sectores explotados con las de otros segmentos étnicos, sociales y culturales que cuestionan el capitalismo.

En esta perspectiva, el socialismo del futuro no puede ser concebido simplemente como un proyecto que, presentado como “socialismo”, no sea más que una forma específica de capitalismo o socialismo de Estado. Para la construcción de una utopía de nuevo tipo se hace necesaria una profunda reformulación de las bases teóricas, ideológicas, políticas y culturales que inspiraron los programas y prácticas de los movimientos políticos y sociales de transformación social en Chile.

¿Qué podemos rescatar entonces de la experiencia de la generación revolucionaria de los 60 y los 70? En un mundo donde ha hecho crisis la teoría clásica de la revolución y en el que el impulso vital de la Revolución rusa se ha extinguido en medio del desastroso final de los “socialismos reales”, es, sin duda, poco lo que se puede recuperar de las referencias teóricas, de los instrumentos y de las estrategias políticas de antaño; sin embargo, es mucho lo que se debe recoger en cuanto a decisión de cambiar el mundo y lo que se debe rescatar en el plano de la moral y de la consecuencia con los principios y convicciones. Cuando las clases dirigentes, a través de sus políticos e intelectuales, solo ofrecen a la Humanidad la perspectiva de una eterna reproducción del capitalismo, una suerte de congelamiento o “fin de la historia” sin proyectos colectivos ni utopías de cambio social; cuando en países como el nuestro la casta política nos muestra día a día que para ella pensar, decir y hacer son tres cosas distintas, el legado moral de Miguel Enríquez y de su generación revolucionaria sigue teniendo un valor que en la perspectiva de las luchas y utopías libertarias del futuro no será puramente testimonial. El desafío histórico para las nuevas generaciones consistirá en recoger esa herencia moral y procesarla a través del prisma de nuevos instrumentos teóricos que deberá construir por sí misma, recuperando de los aportes anteriores lo necesario, sin reflejos nostálgicos que conduzcan a la repetición de los costosos errores del pasado, mas sin claudicación frente a las presiones del sistema de dominación.

Estoy seguro de que, más temprano que tarde, estos nuevos hombres y mujeres evaluarán la experiencia y el legado de quienes los precedieron y construirán, con el mismo entusiasmo y consecuencia, aunque con más clarividencia y mayor efectividad, las “grandes alamedas” libertarias del porvenir.

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Sergio Grez Chileno, historiador

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