Il discreto fascino di romantizzare lo sfruttamento

Fernando Buen Abad

Un’intera macchina di incantesimi distorsivi si dedica alla romantizzazione dello sfruttamento del lavoro e del saccheggio delle risorse naturali. Qui non devono risuonare violini sdolcinati. Sono stati sviluppati meccanismi semiotici sofisticati per mascherare la violenza inerente allo sfruttamento del lavoro e della natura. Tra le sue strategie più efficaci e odiose c’è proprio la romantizzazione dello sfruttamento e del saccheggio, presentandoli come parte del “progresso”, dello “sviluppo” o addirittura della “sostenibilità” e le sue tre categorie fondamentali coinvolte: la feticizzazione della merce, l’ideologia e l’egemonia, e l’economia politica dei mezzi di comunicazione. Del resto, Pedro Infante cantava molto “bene” in ‘Noi, i poveri’.

Vogliono che partecipiamo a quel “romanticismo” che s’ingegna per mascherare il feticismo della merce, che addolcisce gli agguati fino a trasformare i prodotti del lavoro in entità dotate di un’emozione apparentemente intrinseca, che nasconde meravigliosamente le relazioni di sfruttamento che li producono. E festeggiare con gioia che se li portino via. C’avevano già avvertito tempo fa:

“Il carattere misterioso della forma merce consiste semplicemente nel fatto che essa riflette agli uomini le caratteristiche sociali del proprio lavoro come caratteristiche oggettive dei prodotti del lavoro stesso, come proprietà sociali naturali di queste cose” — Marx (Il Capitale, Libro I, cap. 1, sezione 4).

Questo idillio, che si applica tanto alla forza-lavoro quanto alle merci, avvolge anche la natura. Foreste, fiumi e minerali in fuga si convertono in “sentimenti” che, esaltati dal processo di saccheggio, diventano beni affettivi scollegati dalla loro origine e dalla violenza implicita nel loro sequestro. Così, un diamante smette di essere lo sfruttamento delle miniere africane per diventare simbolo dell’amore eterno; un “caffè biologico” smette di essere frutto della monocoltura devastante e della miseria contadina per entrare a far parte di un’esperienza emotiva “autentica”. Ogni mattina, pomeriggio e sera.

Tutta questa “vocazione” a romanticizzare il saccheggio esprime l’ideologia dominante, che non si impone solo con la forza, ma si naturalizza anche grazie alla collaborazione delle vittime. Sindrome di San Valentino di Stoccolma. “La conquista del potere culturale precede la conquista del potere politico” — Gramsci (Quaderni del carcere, 1930–1935). Questa romantizzazione si adorna di racconti di superamento, avventura o addirittura eroismo. L’estrazione petrolifera viene presentata come un’“impresa tecnologica” di cui essere orgogliosi; i minatori sono mostrati come lavoratori fieri del proprio ruolo nello “sviluppo” del paese.

Nei loro mercati ideologici vendono il concetto di “vocazione”: l’Amazzonia ha una “vocazione” agricola, la Patagonia ha una “vocazione” mineraria, l’Artico ha una “vocazione” petrolifera. Con l’aiuto dei loro laboratori di guerra semiotica, hanno raffinato strategie di legittimazione che operano principalmente nella riproduzione ideologica dell’amore per la sconfitta.

“La comunicazione non è mai neutrale; fa parte della lotta di classe ed è uno spazio strategico dell’egemonia” — Mattelart (Per leggere Paperino, 1971).

Adesso risulta che c’ìè un “capitalismo verde”: multinazionali come Shell o Coca-Cola hanno lanciato campagne emozionanti per promuovere la loro immagine di “sostenibilità”, per coprire la propria devastazione. Alcune commerciando anche con i loro “programmi di riforestazione” e finanziando documentari sul cambio climatico per ottenere profitti e sussidi. Il capitalismo che distrugge il pianeta si presenta come un salvatore che anche commercia con ciò che ha distrutto. Nulla è gratis.

Noi siamo cresciuti con “Pepe il Toro”, inteneriti dalla musicalizzazione della miseria. Loro ci hanno guadagnato fortune. Non compriamo più il loro mito del “progresso” e della “civiltà” come giustificazione del saccheggio. Che non ci vendano più lo sfruttamento come un processo “naturale” e inevitabile, né l’espropriazione di terre e risorse travestita da “progetto civilizzatore”. Basta eroi-imprenditori che “dominano la natura” “Il capitalista non è altro che il capitale personificato (…). La sua anima è l’anima del capitale”.

Questa romantizzazione, inoltre, è spesso imbevuta di ogni genere di sdolcinatezza adornate da un’aura sentimentale e posticcia, che trasforma in sentimenti contraddittori le relazioni di sfruttamento che la generano. Non basta vendere un diamante e tutto il lavoro che lo rende merce: bisogna mitizzarlo come testimonianza eterna del vero amore; un profumo non è un semplice liquido aromatico, bensì l’essenza della personalità e della seduzione; un’automobile non è un mezzo di trasporto, è un’estasi di avventura e libertà.

“Il capitalismo non vende solo prodotti, vende mondi simbolici in cui le merci sono la chiave d’accesso alla felicità” — Mattelart (Storia della società dell’informazione, 2002).

Ogni sentimento umano si trasforma in merce e viceversa. Ci vendono emozioni di saccheggio inscatolate e prefabbricate. Amiamo consumare perché così “sentiamo”, comprare è amare, regalare è redimere. Sono affetti sinceri per affetti manipolati. La loro romantizzazione contribuisce alla costruzione di una falsa coscienza, che offre anche l’illusione di un impegno morale verso chi saccheggia il pianeta mentre si appropria del plusprodotto.

Smantellare la romantizzazione dello sfruttamento e del saccheggio significa spogliare il capitalismo dei suoi racconti sentimentali, per esporre con tutta la sua brutalità il circo lacrimevole cui siamo stati sottoposti, in tutta la sua crudezza mercenaria. Decostruire il suo sentimentalismo posticcio e restituire il protagonismo alle relazioni sociali. Non più lavoro e materia prima depredati come se fosse una “storia d’amore”.


El discreto encanto de romantizar la explotación

Por: Fernando Buen Abad

Toda una maquinaria de encantamientos distorsivos se dedica a la romantización de la explotación laboral y el saqueo de recursos naturales. Aquí no deben sonar violines melosos. Han desarrollado mecanismos semióticos sofisticados para enmascarar la violencia inherente a la explotación del trabajo y la naturaleza. Entre sus estrategias más eficaces y odiosas se encuentra la romantización de la explotación y el saqueo presentándola como parte del “progreso”, el “desarrollo” o incluso la “sostenibilidad” y sus tres categorías fundamentales: la fetichización de la mercancía, la ideología y la hegemonía, y la economía política de los medios de comunicación. Por cierto, Pedro Infante cantaba muy “bonito” en “Nosotros los Pobres”.

Quieren que participemos en ese “romance” que se las ingenia para maquillar el fetichismo de la mercancía, y que da dulzura a las emboscadas hasta convertir los productos del trabajo en entidades dotadas de una emoción, aparentemente intrínseca, que oculta de maravilla las relaciones de explotación que los producen. Y celebrar con alegría que se las lleven. Ya nos lo advirtieron hace tiempo: “El carácter misterioso de la forma mercantil consiste, pues, sencillamente, en que refleja a los hombres las características sociales de su propio trabajo como características objetivas de los productos del trabajo mismo, como propiedades sociales naturales de estas cosas” Marx (El Capital, tomo I, cap. 1, sección 4).

Tal amorío, que se aplica a las fuerzas laborales y a las mercancías, también abrasa a la naturaleza. Bosques, ríos y minerales en fuga se convierten en “sentimientos” que, al ser exaltados por el proceso de saqueo, se transforman en bienes afectivos desvinculados de su origen y de la violencia implícita en su secuestro. Así, un diamante deja de ser explotación de las minas africanas y se convierte en símbolo de amor eterno; un “café orgánico” deja de ser el fruto del monocultivo devastador y la miseria campesina y pasa a ser parte de una experiencia emocional “auténtica”. Cada mañana, tarde y noche.

Toda esa “vocación” romatizadora del saqueo, expresa la ideología dominante que no se impone únicamente por la fuerza, también se naturalizan con la colaboración de las víctimas. Síndrome San Valentín de Estocolmo. “La conquista del poder cultural precede a la conquista del poder político” Gramsci (Cuadernos de la cárcel, 1930-1935). Esa romantización se adorna con relatos de superación, aventura o incluso heroísmo. La extracción petrolera es presentada como una “hazaña tecnológica” que nos hace sentir orgullosos; los mineros son exhibidos como trabajadores orgullosos de su rol en el “desarrollo” del país.

En sus mercados ideológicos venden el concepto de “vocación”: el Amazonas tiene “vocación” agrícola, la Patagonia tiene “vocación” minera, el Ártico tiene “vocación” petrolera. Con ayuda de sus laboratorios de guerra semiótica han refinado estrategias de legitimación que opera centralmente en la reproducción ideológica del amor por la derrota.

“La comunicación no es nunca neutral; forma parte de la lucha de clases y es un espacio estratégico de la hegemonía” Mattelart (Para leer al Pato Donald, 1971).

Ahora resulta que hay un “capitalismo verde”, multinacionales como Shell o Coca-Cola han lanzado campañas emocionantes que promueven su imagen de “sostenibilidad”, para tapar su depredación. Algunos comercian también con sus “programas de reforestación”, y financian documentales sobre el cambio climático para obtener ganancias y subsidios. El capitalismo que destruye el planeta se presenta como un salvador que también comercia con lo destruido. Nada es gratis.

Nosotros crecimos con “Pepe el Toro”, enternecidos por la musicalización de la miseria. Ellos ganaros fortunas. No compremos más su mito del “progreso” y la “civilización” como justificación del saqueo. Que no nos vendan la explotación como proceso “natural” e inevitable, ni la expropiación de tierras y recursos, disfrazado de “proyecto civilizatorio”. No más héroes empresarios que “dominan la naturaleza”. “El capitalista no es más que capital personificado (…). Su alma es el alma del capital”.

Esa romantización además, suele estar embebida en todo género de cursilerías adornadas con un aura sentimental, impostada, que transforma en sentimientos contradictorios, las relaciones de explotación que lo producen. No basta con vender un diamante, y todo el trabajo que lo convierte en mercancía, hay que mitificarlo como el testimonio eterno del amor verdadero; un perfume no es un simple líquido aromático, sino la esencia de la personalidad y la seducción; un automóvil no es un medio de transporte, es trance de aventuras y libertad.

“El capitalismo no sólo vende productos, vende mundos simbólicos en los que las mercancías son la clave de acceso a la felicidad” Mattelart. (Historia de la sociedad de la información, 2002).

Todo sentimiento humano se convierte en mercancía y viceversa. Nos venden emociones de despojo enlatadas y prefabricadas. Amamos consumir porque eso si es sentir, comprar es amar, regalar es redimir. Son sinceros afectos por afectos manipulados. Su romantización contribuye a la construcción de una falsa conciencia, que también ofrecen la ilusión de compromiso moral con quien saquea al planeta mientras se apropia del plus-producto.

Desmantelar la romantización de la explotación y el saqueo implica despojar al capitalismo de sus relatos sentimentales para exponer con toda crudeza el circo sensiblero a que hemos sido sometidos con toda su crudeza mercenaria. Desmontar su sentimentalismo impostado y devolver el protagonismo a las relaciones sociales. No más trabajo, y materia prima, esquilmados como si fuese una “historia de amor”.

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