In gergo le chiamano renditions, consegne,
e riguardano le operazioni di trasferimento di persone sequestrate, sbattute
illegalmente da un paese all'altro, poste in detenzione segreta e torturate nel
contesto della presunta «guerra al terrore». E' una pratica messa in atto senza
nessun imbarazzo dal governo degli Stati uniti e rivelata, con prove
indiscutibili, proprio in queste ultime ore da Amnesty International. Eppure,
l'informazione dei paesi civili e democratici, su questa storia nefanda, brilla
per il suo silenzio assordante, limitandosi, nel migliore dei casi, a una
notizia impaginata senza risalto.
Negli stessi giorni, una denuncia presentata davanti al super procuratore dei
diritti umani di Città del Messico, dr. Mario Alvarez Ledesma, rivela che nel
paese del presidente Fox, il compagno di rancho di George W. Bush, dal 2004 al
2006, sono stati assassinati 11 giornalisti (22 in totale dal 2000). Gli ultimi
due il 9 e il 10 marzo del 2006. Ora il Messico supera la Colombia in questo
triste primato di reporter assassinati passato nell'indifferenza dei grandi
media. Non c'è purtroppo da stupirsi. L'abitudine a eludere è stata vieppiù
praticata da quando gli Stati uniti e l'Inghilterra hanno deciso di portare la
«democrazia» in Afghanistan e Iraq, dove, negli ultimi tempi c'è stato un
crescendo impressionante. Prima l'assedio di Samarra per stanare, con i metodi
sommari già usati a Falluja, la guerriglia sunnita, poi il massacro di innocenti
compiuto dai marines a Ishaqui (5 bambini, 4 donne e 2 uomini), infine la
mattanza messa in atto dalle forze di occupazione Usa nella moschea sciita
Moustafa di Baghdad.
Gli Stati uniti possono violare ormai impunemente qualunque diritto umano o
civile come conferma il caso denunciato da The Nation dei 3000/5000 cittadini
nordamericani di fede islamica desaparecidos in conseguenza delle leggi
antiterrorismo volute dal presidente dopo l'11 settembre 2001, o possono
comminare, senza suscitare scandalo, pene tombali a
5 agenti dell'intelligence cubana colpevoli
solo di aver smascherato le centrali terroristiche che dalla Florida
organizzavano attentati nell'isola de la Revolución causando negli anni oltre
3500 morti e più di 10000 feriti.
Gli Stati uniti possono addirittura sostenere di essere impegnati nella guerra
contro il terrorismo, mentre invece lo praticano o sono complici di terroristi
accertati come Orlando Bosch (mente criminale dell'attentato del 1976 a un aereo
civile cubano e liberato con un indulto nel '89 da Bush padre) o José Basulto,
Romy Frometa o Luis Posada Carriles
ai quali è stato concesso in vari momenti asilo o protezione. Posada Carriles
che si vantò delle azioni terroristiche a Cuba nell' estate del '99 e commentò
con assoluto cinismo la morte del cittadino italiano
Fabio Di Celmo («stava nel
posto sbagliato al momento sbagliato») ha addirittura consigliato pubblicamente
il governo di Washington di essere accorto: «Sul mio caso credo andrebbe
applicato il segreto di stato».
Non stupisce quindi che a metà marzo sette premi Nobel,(Pérez Esquivel,
Rigoberta Menchú, Saramago, Nadine Gordimer, Harold Pinter, Dario Fo e Wolle
Sojnka) insieme a Ramsey Clark, ex ministro della Giustizia Usa e migliaia di
altre personalità abbiano firmato un
appello nel quale denunciano
gli Stati uniti e i loro alleati de l'Unione europea «per le sistematiche
violazioni dei diritti umani perpetrate proprio in nome della cosiddetta guerra
al terrorismo». L'appello malgrado il prestigio dei firmatari è stato segnalato
in Italia da pochi media. La Repubblica l'ha ospitato solo come pubblicità a
pagamento, cosi come fece nel 2004 il New York Times per l'appello sui 5 cubani
detenuti illegalmente negli Stati uniti pagato, fra gli altri, dall'ex ministro
della Giustizia Ramsey Clark, dal vescovo di Detroit Thomas Gumbleton, e da Noam
Chomsky che lo stesso New York Times poco tempo prima aveva definito «il più
prestigioso intellettuale vivente».
Non sorprende quindi che i maggiori giornali italiani abbiano presentato la
battaglia combattuta poche settimane fa all'Onu per sostituire la vecchia
commissione per i diritti umani con un nuovo consiglio più efficiente, come il
tentativo di nazioni ritenute democratiche di evitare la possibilità a paesi
accusati invece di illiberalità di entrare a far parte, come è successo in un
recente passato, dell'organismo di controllo. Era in gioco invece anche il
tentativo di diverse nazioni vessate e ricattate ogni anno dal governo degli
Stati uniti di affrancarsi dall'obbligo di votare sempre come voleva Washington
che spesso brandiva il tema dei diritti umani come una clava contro paesi
(ultimo il Venezuela di Chávez) non allineati ai loro interessi economici e
politici. Ogni primavera infatti da decenni, si assisteva ad un vero e proprio
«mercato dei diritti umani», come denunciò Rigoberta Menchú che, per
l'opposizione sistematica degli Stati uniti, non vide mai condannato il
genocidio perpetrato negli anni '80 dalla dittatura militare guatemalteca contro
le popolazioni maya proprio con la complicità del governo di Washington. Qualche
anno fa l'India si era vista addirittura tagliare un prestito già accordato
dagli Stati uniti per aver disatteso l'ordine di votare il rituale documento di
censura a Cuba voluto dal Dipartimento di stato. E' la stessa logica per la
quale gli Usa premevano sulla Serbia per farsi consegnare i sospetti criminali
di guerra e nello stesso tempo insistevano per firmare un trattato che obbligava
lo stesso paese slavo a non consegnare mai (neanche all'Aja) cittadini
nordamericani sospettati di essere responsabili degli stessi misfatti.
Ultimamente però il «mercato dei diritti umani», considerati gli impegni Usa in
Medio Oriente, era diventato troppo oneroso per l'amministrazione di Bush Jr. Il
15 marzo, poi, 170 nazioni hanno trovato l'accordo per un progetto di riforma
del vecchio comitato dei diritti umani che non rassicurava completamente
Washington sulla possibilità di poter ancora usare a piacimento questo strumento
non solo contro le nazioni illiberali, ma anche contro le nazioni non allineate
alle proprie esigenze. Così John Bolton il «falco» catapultato da Bush al
Palazzo di vetro ha votato contro la riforma con l'appoggio solo di Israele e
delle Isole Marshall e Palau (dove ci sono due basi militari Usa). Non a caso
sono gli stessi paesi che, ogni autunno, contrariamente al resto del mondo si
esprimono in favore dell'embargo a Cuba.
Le campagne di convincimento e persuasione dell'opinione pubblica mondiale,
messe in atto nelle più recenti congiunture storiche per assecondare gli
obiettivi Usa sono state preparate ogni volta da organismi come il
Ned (National endowment for democracy), una vera e propria
agenzia di propaganda diretta dalla Cia. Proprio in un saggio per Latinoamerica,
pubblicato anche dal manifesto, Wayne Smith (il diplomatico nordamericano che
più si è occupato di Cuba) ha spiegato che «il Ned influenza e cerca di
condizionare per conto del governo di Washington, stampa, partiti politici,
organismi sindacali di nazioni non in sintonia con i disegni economici e
strategici degli Stati uniti» e ha aggiunto che «questo pericoloso retaggio
della guerra fredda sarebbe ora fosse consegnato alla pattumiera della storia».
E invece questo organismo è più che mai all'opera. Per convincere
dell'opportunità di un colpo di stato contro Chávez in Venezuela o per
organizzare la rivoluzione arancione in Ucraina.
Una macchina che deve creare consenso e che si avvale di agenzie d'informazione,
radio, televisione o di associazioni disponibili per questo genere di
promozione, come Reporters sans
Frontières. Bruce Jackson, docente di storia americana all'università di
Buffalo lo ha chiarito senza possibilità di smentita sempre su Latinoamerica.
Per questo sorprende che al punto 16 del programma elettorale dei socialisti e
dei radicali della Rosa nel pugno ci sia proprio l'intenzione di creare un
Italian and European Endowment for Democracy esattamente sul modello della casa
madre fondata in Usa da Ronald Reagan nel 1984. Un progetto perché la Cia possa
controllare direttamente il governo dell'Unione se vincesse le elezioni? O un
progetto, dopo la fine dell'era di Fini e Martino, di condizionare ancora la
politica estera italiana?
g.mina@giannimina.it