Persino la Micronesia ha ritenuto
fosse eccessivo votare di nuovo con gli Stati Uniti e così, con
184 voti a favore,
quattro contrari e un astenuto (la Micronesia, appunto),
l’Assemblea Generale dell’ONU ha votato per la sedicesima volta
una risoluzione presentata da Cuba contro il blocco statunitense
che affligge l’isola e la decenza da oltre quarantacinque anni e
che ha già procurato danni pari a 89 miliardi di dollari
all’economia cubana. E’ la sedicesima volta consecutiva, dal 1992,
che Cuba infligge una pesante sconfitta diplomatica agli Stati
Uniti ed alla loro criminale politica contro l’isola. La
risoluzione, non vincolante, ribadisce “la necessità di porre
termine all’embargo economico, commerciale e finanziario imposto
dagli Usa contro Cuba”. Washington ha avuto solo con l’appoggio di
Israele, le Isole Marshall e Palau, non proprio giganti del
diritto internazionale o modelli di riferimento dei sistemi
sociopolitici su scala planetaria. In pratica Cuba riceve
l’appoggio unanime del Palazzo di vetro (184 voti su 192 stati) e
persino un voto in più rispetto allo scorso anno; quello del
Nicaragua, la cui ambasciatrice Rubiales de Chamorro si è detta
“orgogliosa di aver votato a favore di Cuba nel solco tracciato da
Ruben Darìo e Sandino”. E’ un voto quindi che certifica
inequivocabilmente l’isolamento di Washington nello scacchiere
internazionale in riferimento alla sua politica nell’emisfero
centroamericano e caraìbico.
L’embargo, ha detto il
Ministro degli Esteri cubano Felipe Perez Roque, “non è mai
stato inflitto con la ferocia di questi ultimi anni” ed ha
accusato il Presidente Bush di aver adottato “misure che rasentano
la follia e il fanatismo, che non solo danneggiano Cuba ma
interferiscono nelle sue relazioni con almeno 30 Paesi”. Difficile
dare torto al giovane cancelliere cubano, soprattutto dopo aver
assistito allo show del
presidente statunitense di qualche giorno prima, con
l’annuncio di nuove sanzioni, minacce ed elemosine. Il senso
dell’ossessione della Casa Bianca contro Cuba era infatti andato
in onda, per l’ennesima volta, dallo studio ovale. Stessa
location, stesse facce e stesse proposte delle precedenti puntate.
Inutile entrare nel merito delle minacce: sono parole in libertà.
Una noiosa novela texana che ripete pedissequamente quanto già
detto in precedenza: impossibile il dialogo con Cuba e, anzi,
ulteriore accentuazione delle misure coercitive unilateralmente
scelte dai suoi predecessori. La novità - se così la si vuol
chiamare - è che stavolta il disastroso texano chiama a
partecipare alla sua sconfitta l’intero schieramento occidentale.
Il resto del mondo, ovviamente, come dimostrato all'ONU, non ci
pensa affatto a correre dietro all’anacronismo statunitense; quel
che dice Bush su Cuba non ha ormai nessun valore per nessun
governo.
Ha parlato e straparlato di libertà, l’uomo della guerra,
rivendicando - come fosse segno di coerenza invece che d’idiozia -
la pervicacia dell’automatismo bellicista contro L’Avana che si
tramanda di presidente in presidente dal lontano 1959. Per qualche
ora Afghanistan, Iraq, Turchia e Kurdistan, Medio Oriente, crisi
del dollaro e crollo dei consensi interni nei confronti
dell’amministrazione, hanno lasciato il posto alla vera perversa
passione del texano: quella per l’isteria anticubana.
Per rilanciare la sua “politica” contro l’isola socialista, Bush
non aveva prodotto un particolare sforzo di fantasia. Nel
proclama, rigorosamente letto per evitare gaffes, non erano emersi
particolari messaggi al di fuori dell’odio frustrato: nella
generale indifferenza dei suoi connazionali, il presidente si era
lanciato ancora una volta contro Cuba, attaccandola e
minacciandola, come al solito con grande sprezzo del ridicolo. Gli
Stati Uniti del resto, è noto, quando parlano di Cuba non riescono
a trattenere la frustrazione né a connettere l’odio con la
ragione. Non riescono a trovare il senso di una politica che metta
in discussione quasi cinquant’anni di fallimenti.
Da L’Avana le reazioni ai deliri della Casa Bianca sono state dure
quanto inevitabili; il ministro degli Esteri Felipe Perez Roque ha
però voluto ricordare che se gli USA cercano di determinare un
cambiamento di regime, il Paese é preparato ed ogni conflitto non
metterà a rischio solo la stabilità di Cuba, ma anche quella degli
USA. "Non stiamo bluffando, non bluffiamo mai – ha aggiunto il
Cancelliere cubano - e se l'espressione di Bush circa l'imperativo
della libertà dovesse determinare decisioni come quella che
Washington minaccia, sarebbe molto pericoloso sia per Cuba che per
gli USA. Noi siamo pronti". La sensazione è che il gruppo
dirigente cubano, conscio di avere a che fare con quello che ormai
è un cadavere politico, tiene alta la guardia di fronte a
possibili colpi di coda dell'amministrazione allo sfascio.
Cuba è ormai per gli USA un piccolo Vietnam quotidiano, affacciato
sulle coste della Florida, che gli agita il sonno e gli rovina i
progetti d’annessione. In assenza di qualunque cenno di
lungimiranza ed equilibrio, la politica regionale della
superpotenza unipolare è affidata ad un gruppo di
terroristi-mafiosi rifugiatisi e arricchitisi a Miami, che
dirigono persino i dettagli della politica migratoria e di difesa
dell’area ricattando Washington con alcune decine di migliaia di
voti. Sono fondamentali, però, quei voti, senza i quali si perdono
Florida e New Jersey, stati fondamentali per la vittoria
elettorale.
A meno di un anno dalla sua uscita dalla Casa Bianca, il
Presidente statunitense, George Bush, ha quindi deciso di
cominciare la campagna elettorale proprio in Florida. Quella
Florida alla quale, in fondo, deve la sua rielezione, avvenuta
grazie al furto di seicentomila voti che in una notte, grazie a
strani black-out elettrici e strane manipolazioni, passarono dl
candidato democratico Al Gore a quello repubblicano, George W.
Bush, appunto. Che le urne fossero sotto il controllo del
Governatore Jeb Bush, fratello minore del Presidente, ovviamente
apparve solo un caso, al più una scostumata coincidenza. Non dare
alla comunità di mafiosi cubano americani quanto richiesto,
avrebbe potuto generare equivoci tali da mettere in forse i
prossimi “aiutini” della FNCA alla futura campagna elettorale del
candidato repubblicano.
Ma la reiterazione pedissequa di un errore non costituisce una
politica nuova né, tanto meno, più efficace. Non sono bastati i
dollari, il terrorismo, il blocco. La stabilità di cui gode
l'isola dimostra che Cuba ha vinto e vince. Vince una guerra che
Washington non avrebbe dovuto cominciare e che ora pare non saper
e non poter più chiudere. Trascinandosi dietro, anno dopo anno,
una sconfitta che cammina, mano nella mano, con la vergogna.