Caro Direttore,
approfitto della tua disponibilità a ospitare voci fuori dal coro per riflettere
su un tema, Cuba, che mi appassiona e che conosco in profondità. Da dieci anni,
infatti, dirigo la rivista Latinoamerica, con l'aiuto di scrittori, poeti e
premi Nobel di una parte di mondo che sta cambiando pelle e che per questo in
Europa è spesso raccontata con pregiudizio.
Il Corriere della Sera, ad esempio, per tre volte in due settimane, con le firme
di Pierluigi Battista, Elisabetta Rosaspina e Angelo Panebianco, si duole che la
campagna scatenata recentemente contro Cuba dopo la morte del detenuto
Orlando
Zapata in seguito ad uno sciopero della
fame, non abbia suscitato un coinvolgimento dell’opinione pubblica italiana, e
in pratica chiede sanzioni. L'accanimento del Corriere della Sera è singolare,
specie considerando che il giornale più diffuso d'Italia ignori, nello stesso
tempo, notizie inquietanti sull’America latina (la mattanza di giornalisti in
Messico con 15 morti quest'anno e 12 l'anno precedente, o il ritrovamento in
Colombia della più grande fossa comune del Sudamerica con duemila vittime)
mentre non da requie a Cuba. E’ iniziata evidentemente una campagna alla quale
non si sottrae nessuno e che a volte sfiora il grottesco.
Wired, per esempio, è una rivista patinata delle edizioni Condé Nast,
interessata ai nuovi media e alle nuove tecnologie. Nell’ultimo numero
dell’edizione italiana ci sono una dozzina di pagine su
Yoani Sanchez,
bloguera di moda per la quale si è speso con un appello anche Il Fatto
Quotidiano. Lanciata dal gruppo Prisa, quello di El Pais, Yoani trasmette
dall’Avana aiutata da un server tedesco (di proprietà del magnate Josef Biechele)
con un’ampiezza di banda 60 volte più grande di qualunque altra utilizzata a
Cuba. Su Wired Yoani viene fotografata e raccontata come un’improbabile modella
in fuga dai cattivoni del governo, che non le danno il visto per andare a
ritirare tutti i premi che le vengono assegnati in mezzo mondo da organizzazioni
ostili alla Rivoluzione. La povera bloguera è costretta a dare appuntamenti ai
giornalisti occidentali alle dieci del mattino al Parque Central.
E sarebbe anche credibile, salvo che
Salim Lamrani,
ricercatore e docente all’Università Paris Descartes, l'ha incontrata
tranquillamente, e per ore, nella hall dell’Hotel Plaza, per una intervista che
pubblicheremo nel prossimo numero di Latinoamerica e nella quale, ora, Yoani
sostiene di non riconoscersi, anche se le sue risposte sono state registrate con
un moderno I-phone.
Dettagli sorprendenti, ma non troppo: tra i fondatori e i collaboratori di
punta di Wired c’è Nicholas Negroponte, docente universitario e collaboratore
del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti quando internet era solo un
progetto militare. Nicholas è fratello del mitico
John, negli anni '80 stratega
della “guerra sporca” contro i sandinisti in Nicaragua e più tardi presenza
inquietante in Iraq, dove fu ambasciatore nei giorni dell’uccisione, da parte
del marines Lozano, di Nicola Calipari, l'agente dei servizi italiani che aveva
appena salvato la giornalista del manifesto Giuliana Sgrena.
Gli articoli e le iniziative contro Cuba, d’altronde, celano sempre sorprese. Fa
senso, ad esempio, scoprire in rete le immagini della manifestazione che, a
Miami, ha aperto la nuova campagna di discredito cominciata il giorno dopo la
morte di Orlando Zapata, detenuto da anni in carcere per reati comuni e negli
ultimi tempi molto vicino alle Damas en blanco, movimento di dissidenza
sovvenzionato - è stato appurato in un processo in Florida - dal terrorista
Santiago Alvarez.
Fa senso perché nel corteo guidato da
Gloria Estefan,
cantante di successo, figlia di un ex guardia spalle della famiglia di Fulgencio
Batista, il dittatore abbattuto dalla rivoluzione cubana, marciava anche un
altro terrorista, il venezuelano
Luis Posada Carriles,
responsabile, fra i tanti delitti, dell’abbattimento
dell’aereo della Cubana de Aviacion che
nel 1976 provocò 73 vittime. Posada Carriles fu anche indicato fra i mandanti
dell'omicidio dell’ex ministro degli Esteri di Allende,
Orlando Letelier,
assassinato a Washington nel 1976, e della campagna di attentati messa in atto a
Cuba nel 1997 (tra le vittime, il giovane italiano
Fabio Di Celmo).
Questo Bin Laden latinoamericano, coperto dalla CIA, circola libero in Florida e
chiede “libertà e democrazia” per Cuba.
Io non so se il ministro
Frattini,
che dopo il caso Zapata ha tuonato contro Cuba, conosce queste storie. Ma so che
non è credibile il ministro degli Esteri di un paese che si proclama
democratico, ma esalta la bontà di un embargo assurdo, decretato per la sola
colpa di aver scelto un destino sgradito agli USA, un embargo che soffoca il
popolo cubano da cinquant’anni ed è stato
condannato dall’Assemblea dell’Onu
diciotto volte di seguito, anche con il
voto dell’Italia.
Frattini sa che, dopo i 140 milioni di dollari stanziati da Bush nel 2008 per
“cambiare faccia a Cuba”, anche Obama nel 2009, malgrado la crisi economica, ha
stanziato 55 milioni per la stessa incombenza. A cosa pensa che servano questi
soldi, il pacifico Frattini? A rasserenare un paese o a montare, in quella
società già ferita dal terrorismo che viene dalla Florida, una strategia della
tensione? Ma il nostro ministro si duole invece del fatto che l'Italia non si
mobiliti contro la Revolución, ignorando il testimone che tutti i media italiani
si passano sull’argomento da settimane.
Perfino Aldo Forbice, che blocca la parola in bocca a chiunque dissenta dalle
sue tesi, chiede firme contro Cuba su Radio Rai, con la complicità dei radicali.
In alcuni casi aderiscono anche media progressisti in politica interna ma molto
attenti, in politica estera, a non turbare la linea del segretario di stato
Hillary Clinton, desiderosa di recuperare la presa sul continente a sud del
Texas persa nella stagione di Bush Jr..
La maggior parte dei “dissidenti”
incarcerati nel 2003,
quando il governo Bush tentò la spallata contro Cuba favorendo tre dirottamenti
aerei e il sequestro del ferry boat di Regla carico di turisti, sono stati
condannati per aver preso, non si sa per quali servigi, soldi dal governo di
Washington, elargiti dall’Ufficio di interesse degli Stati Uniti all’Avana. A
parti invertite, negli USA ciò procurerebbe processi per alto tradimento. Ma
nelle cronache italiane si parla invece di giornalisti incarcerati per presunti
reati di opinione, eludendo il dettaglio che molti sono stati ingaggiati e
retribuiti dal paese che tiene Cuba sotto embargo da mezzo secolo.
Senza contare che questi mercenari nuocciono enormemente ai dissidenti sinceri e
a voci coraggiose come quelle di Ambrosio Fornet, Soledad Cruz, Senel Paz,
Leonardo Padura, che abbiamo pubblicato su Latinoamerica e che, dentro la
Rivoluzione, criticano e si battono per le riforme, perché il governo si liberi
dalla sindrome dell’assedio che spesso l’attanaglia e rallenta l’evoluzione
della società cubana.
Insomma, in questi ultimi mesi nell’Isola non è cambiato nulla che giustifichi
questo nuovo assedio politico. Non essendo arrivate le aperture di Obama (che
invece, recentemente, si è incontrato con i duri della Fondazione
Cubano-americana) a torto o a ragione Raul Castro ha rinviato a sua volta le
riforme. Ma fin dal summit delle Americhe, a Trinidad, gli USA hanno capito che
l’atteggiamento della maggior parte dei paesi del continente era cambiato. E al
successivo vertice dell’OSA, Hilary Clinton ha dovuto
acconsentire al reintegro, senza condizioni,
di Cuba, dopo che gli stessi Stati
Uniti, cinquant’anni fa, ne avevano chiesto l’esclusione.
Questo cambio di vento politico in America latina è stato attribuito
all’influenza dell’Isola, e non a torto. Così si è tornati ai vecchi metodi,
resuscitando contro la Revolución l'argomento dei diritti umani già montato 25
anni fa da Reagan. Non era questo che ci si aspettava da Obama.
Gianni Minà
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