Processo
Gli scioperi della fame e i suicidi giustificati da forti convinzioni morali,
ideologiche, patriottiche o religiose tendono a impattare la coscienza della
gente. Da Bobby Sands e gli altri 10 giovani dell’Esercito Repubblicano
Irlandese morti nelle carceri britanniche nel 1981 fino ai i numerosi
casi di prigionieri politici baschi e anarchici, che protestavano, lo scorso
gennaio, a causa dei maltrattamenti carcerari o manipolazioni politiche delle
autorità giudiziarie e degli apparati di polizia in Spagna e Francia, la
questione dello sciopero della fame e del suo significato non ha lasciato di
essere presente sulla scena pubblica degli ultimi decenni.
In questa prospettiva, il caso del dissidente cubano
Orlando Zapata,
morto il 23 febbraio a seguito di uno sciopero della fame o del suo attuale
emulo, Guillermo Fariñas,
non sono eventi insoliti. La morte di Zapata costituisce una tragedia umana, ma
questo non spiega come sia diventata una cause celebre. Se si vuole intenderla
nel suo contesto - cosa difficile nel diluvio di opinioni che inondano i media -
è necessario fare un passo indietro rispetto alle notizie ed esaminare alcune
questioni centrali. Cosa sono i gruppi dissidenti cubani? Qual è l'attuale
contesto politico nazionale ed internazionale dell'isola? Quali fattori
influenzano le particolari reazioni degli attori politici in Europa e negli
Stati Uniti prima dell’evento? Come la "stampa internazionale" contribuisce a
costruire il problema? Cosa aspettarsi dalla politica verso i dissidenti cubani?
"Micropartiti"
Questi gruppi di opposizione non sono essenzialmente differenti dall’esilio
cubano per metodi e obiettivi. Neppure le più potenti organizzazioni
anticastriste a Miami e New Jersey oggi sostengono la guerra con bombe e gruppi
armati. Dissidenti ed esilio non sono d'accordo su tutto (per esempio, il blocco
degli Stati Uniti), ma condividono un obiettivo comune (sostituire il sistema
con un modello capitalistico), un comune denominatore ideologico (l'anticatrismo
e l’antisocialismo) e gli stessi alleati (gli Stati Uniti , i governi e partiti
anticomunisti in Europa e in altri paesi).
La loro natura politica non si risolve con l’aggettivo di "mercenari", perché è
probabile che molti, benché ricevano denaro dagli Stati Uniti, abbiano genuine
convinzioni ideologiche. Sotto l'ombrello della "convergenza democratica" dei
dissidenti pullulano interessi, personalità e correnti, anche
"socialdemocratiche", ma l’asse di gravità tende ad essere di centro-destra.
Anche se questo spiega, in parte, la sua mancanza di radici nella società
cubana, la principale causa di difficoltà deriva da due essenziali vuoti
politici: leadership e legittimità.
A differenza delle organizzazioni anti-comunista degli anni Sessanta, con una
base sociale e politica e un'ideologia coerente, i dissidenti non sono ancorati
nella società civile: sono carenti di influenza nelle organizzazioni religiosi o
nella classe operaia, come in Polonia, di prestigiosi intellettuali organici,
come in Cecoslovacchia, di un avallo di lotta contro regimi odiosi o corrotti,
come in Romania. Se così fosse, incarnerebbero movimenti di ampio impatto. Non
sono "società civile", ma micro partiti di opposizione.
Naturale che le minoranze giochino un ruolo politico, e che un piccolo gruppo
possa convertirsi in un grande movimento sociale. Quindi, perché i dissidenti
non richiamano settori più ampi ? Considererei tre ragioni principali.
In primo luogo, la maggior parte delle loro critiche al sistema sono già parte
del dibattito tra gli altri cubani, socialisti o no. Supporre che i dissidenti
sono le voci solitarie ed eroiche che si arrischiano a segnalare errori e fare
denunce al governo rivela ignoranza sulla Cuba di oggi. Il dissenso oggi si
dispiega dentro (e fuori) delle istituzioni, il movimento intellettuale, i vari
media, le organizzazioni sociali, religiose e culturali, e la stessa militanza
politica.
In secondo luogo, le loro proposte non costituiscono un programma economico e
politico coerente, ma una serie di vaghe parole d'ordine ideologiche
("riconciliazione nazionale", “rafforzamento della società civile",
"pluralismo") e di classiche misure di liberalizzazione economica già
conosciute, da 20 anni, in America Latina. Prendere il Progetto Varela per un
serio piano di riforma politica basata sulla Costituzione del 1992, rivela non
averlo letto con attenzione, ma soprattutto non conoscere la portata delle
questioni nel dibattito pubblico reale: decentralizzazione, partecipazione ed
controllo politico effettivo del Potere Popolare sulla burocrazia, riordinamento
e efficienza della gestione economica, espansione del settore non statale,
estensione della cooperativizzazione recupero dei livelli di reddito a seconda
del lavoro e del potere d'acquisto, fine delle sovvenzioni generalizzate e
gratuità, nuove politiche sociali per i settori più vulnerabili, riflesso
dell'opinione pubblica nei media, ampliamento degli spazi di libertà di
espressione, rafforzamento dell'ordine costituzionale e di diritto,
democratizzazione reale delle istituzioni (comprese quelle politiche).
In terzo luogo, è molto difficile che un cubano (non importa se simpatizzi o
meno per Fidel e Raul Castro o condivida gli ideali socialisti) consideri
legittimi gruppi sostenuti dagli Stati Uniti, dai partiti europei e le più
potenti forze dell’ esilio, la cui carriera come campioni di democrazia e
libertà cubane non sono molto convincenti.
Invece delle ragioni sopra esposte, si attribuisce la mancanza di sostegno dei
dissidenti all'efficacia degli apparati di sicurezza cubana (senza dubbio
efficaci), e soprattutto all'ignoranza, l'isolamento, la rassegnazione e la
paura dei poveri cubani. Questo ragionamento coloniale presuppone la passività e
la rassegnazione come caratteristiche della cultura politica cubana, qualcosa
difficile da provare a partire dalla storia degli ultimi due secoli.
La scacchiera del potere
Così l’attuale reazione in Europa e Stati Uniti risponde alla "mancanza di
informazione"? Vediamo cosa dicono sui i dissidenti, i loro centri di
intelligence a L'Avana? Qual è l’apprezzamento dei suoi diplomatici sulla
leadership, coerenza ideologica, integrità, validità politica di questi gruppi?
Come li giudicano (realmente) gli stessi corrispondenti stranieri presenti
sull'isola, che registrano le loro peripezie, ogni settimana, in obbedienza
alle “esigenze della direzione del giornale”? Se questi informano così come a me
lo raccontano, m’immagino che queste cancellerie e commissioni per le relazioni
estere sono consapevoli del terreno che calpestano.
Se è così, le sonanti dichiarazioni di governi e partiti politici non
rispondono a nessuna società civile di Holguin o Santa Clara, ma ai loro stessi
interessi, lotte tra partiti e strategie elettorali nei loro rispettivi paesi.
Non c'è da stupirsi, perché un funzionario sia autorizzato ad incontrare il
governo cubano, spesso un requisito è che si incontri con i dissidenti. In
questo modo si garantisce l'effetto mediatico, che l'opposizione esibisce come
trofeo e il governo come un casco protettore.
Se Guillermo Fariñas o altri dissidenti sono entrati, molte altre volte, in
sciopero della fame, perché questa risonanza ora? Offuscati dalla dalla
propaganda sui blogger,
i dissidenti tornano alla ribalta con la morte di Zapata, ma soprattutto in una
peculiare congiuntura internazionale per l'isola. Nonostante i suoi limitati
risultati, il dialogo tra Washington e L'Avana è avanzato più nell’ultimo anno
rispetto ai 10 precedenti: si sono riannodati i dialoghi in materia di
migrazione e di corrispondenza diretta; gruppi semiufficiali esplorano
possibilità di cooperazione nell’intercettazione della droga, senza levare le
restrizioni imposte da Bush nel 2005, si sono tornati a concedere i visti ad
accademici ed artisti, correnti in seno al Congresso tentano di ripristinare la
libertà, degli statunitensi, di recarsi nell'isola.
Inoltre, malgrado la "posizione comune"
adottata alla fine del 1996, la politica dell'Unione Europea, guidata dalla
Spagna, aveva sostanzialmente migliorato il rapporto con il governo di Raul
Castro, dal giugno 2008, revocando le sanzioni imposte nel 2003. Questo
cambiamento si é propiziato anche per i crescenti legami tra Cuba e il resto
della regione, non solo con governi di sinistra e di centro-sinistra, ma altri,
come quello del Messico.
Che potrebbe accadere – si chiedevano in privato alcuni esperti poche settimane
fa – per interferire in questo raprochment? La risposta non si é fatta
attendere. Come nell’incidente degli aerei, nel 1996, si imputa nuovamente al
governo cubano la "responsabilità" per questo evento "evitabile e crudele" (la
morte di un "prigioniero di coscienza"). La convenienza per gli interessi che si
oppongono al dialogo è evidente.
Qualcosa di nuovo in questo vecchio confronto? La manifesta razzializzazione
mediatica del caso Zapata, su tutto lo spettro ideologico: era "un muratore afro
cubano" (El País, Spagna), "un lavoratore negro di 43 anni (Cubaencuentro),
"non nero o muratore "(Kaos en la Red), "nero, palestino ed
oppositore" (El Mundo, Spagna), "un muratore di razza negra ...
vittima del collettivismo marxista" (El Heraldo, Ecuador). In
questo effetto di risonanza si aggiunge l'intensità e la saturazione del tema.
Il solo El Pais ha pubblicato oltre 20 articoli ed editoriali nei
primi sei giorni dopo la morte di Zapata.
Oltre a questo interesse senza precedenti per i 'dissidenti afro cubani", il
Parlamento europeo ha ribadito al governo dell'isola la sua richiesta di
"liberazione immediata e incondizionata dei prigionieri politici e di
coscienza". Qual è la consistenza di questa ottica?
La prima è che la manciata di prigionieri politici tra i dissidenti non lo sono,
per motivi di "coscienza" o per "criticare il governo", ma per opporsi
attivamente al sistema, in alleanza con gli Stati Uniti, l'esilio e il vecchio
anticomunismo europeo. Non dispone di armi, ma di risorse di potere, poste al
loro servizio dagli Stati ed organizzazioni, con attrezzature e mezzi a lungo
raggio, per fare la guerra con altri mezzi.
In secondo luogo, cosa insegna l'esperienza sul fatto di porre questo governo
alla gogna? Neanche quei cubani che potrebbero considerare inefficiente la
politica verso i dissidenti sarebbero in grado di argomentare che dovrebbero
insultarsi, in questo momento, sotto la pressione di questo blocco d’ interessi
particolari e della sua doppia morale. Il governo dell'isola non ha mai
negoziato sotto pressione, neppure durante la Crisi dei Missili, sarebbe
improbabile che lo facesse ora.
Parte di questo contesto politico è una certa logica perversa espressa nella
domanda "che cosa farà Cuba in cambio di ...?" il permesso di viaggiare ai
cubano-statunitensi, le licenze alle imprese per vendere alimenti, la firma un
accordo sul traffico di droga. Secondo questa logica, Cuba dovrebbe pagare un
tributo per ogni minimo cambiamento nella politica USA.
Quindi se, chissà quando, questo paese prenderà in considerazione indultare i
cinque
cubani incarcerati per aver infiltrato l'esilio, la "carta di contrattazione"
unica ed ovvia sarebbero i dissidenti condannati come "agenti di una potenza
straniera". Logica perversa, ma logica alla fine,
I dissidenti sono pedoni di questa scacchiera di potenza che si affrontano. In
un quadro tanto chiuso, è difficile supporre, per ora, un cambio di
trattamento nei loro confronti.
Potrà ammettere il socialismo cubano, in futuro, insieme con una rinnovata
istituzione democratica, un sistema decentralizzato, un settore non statale,
anche una leale opposizione all'interno dello stesso sistema? Questa non è una
domanda per congressisti ed euro parlamentari ma per i cubani che vivono il
loro futuro nell'isola.
* L'autore è un politologo cubano. Professore
visitante di università del Texas, Columbia e Harvard, e delle istituzioni
messicane ITAM e CIDE. E' direttore di Temas, una delle più importanti riviste
su società e cultura che sono pubblicate a Cuba.
http://www.proceso.com.mx/rv/modHome/detalleExclusiva/77812
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